Noi, di via del Babuino
Home Su La stirpe degli dei Cipolle biologiche Noi, di via del Babuino I quadri

 

 

  home        torna a "Chi è Mara Maryl?"                        torna a "i racconti di Mara"                                 torna a "che dicono di Mara"

BRANDELLI DI VITA

 

Noi di via del Babuino

L’odore del caffè entra ogni mattina con l’ingresso della si­gnora Proietti nella mia camera da letto.

Apre le tende e, dalla finestra, con il sole, arriva anche il pro­fumo dei fiori: gardenie glicini, gelsomini.

Dal terrazzo, più in basso, attraverso le enormi vetrate, posso scorgere Elsa Morante che, ancora in  pigiama, batte sulla sua macchina da scrivere. Entra la cameriera con il vassoio della colazione, lo posa e se ne va.     

Una gamba ciondoloni sul bracciolo della poltrona, sboccon­cella la ciambella tenendola con una mano mentre con l’altra regge il foglio appena estratto  da sotto il rullo.

È una visione rassicurante. Il successo, lei, lo ha già da tempo. 

Dall’altra parte del terrazzo, più in alto, verso Piazza di Spagna, il grande Giorgio De Chirico, sotto la pergola di rose, dipinge. Irina, la moglie, gli porge la solita caraffa con la limonata.

Sembra che sia suonata, per tutti, la sveglia. 

Mi stendo, nuda, sul telo di ciniglia e, riparata dal muretto, mi abbronzo al sole.

Devo girare alcune scene in bikini ed evito così di farmi spal­mare di pancake.

Ripeto mentalmente le battute quando squilla il telefono. L’auto della “Titanus” sta arrivando. Corro a farmi la doccia.

Sul marciapiedi intravedo Tonino, il pittore mio dirimpettaio che ha l’ingresso su via Margutta, è appoggiato  al muro e sta fumando. Lo saluto con la mano e lui mi grida:

- Allora, quando ti decidi a posare per quel quadro ?-

- Appena finisco di lavorare.-

Entro in macchina. Saluto Annamaria, la direttrice di produ­zione che costernata m’informa:

 - Mario Lanza è di nuovo ubriaco. Si è già scolato, prima di cominciare, una cassetta intera di birre. Bisogna ripetere alcune scene perché abbiamo dovuto tagliare due sequenze, ma in que­ste condizioni anche oggi non può lavorare -    

Dovrei ringraziarlo per tutti i soldi extra che mi sta facendo guadagnare. 

Quando entro da “Peppino lo zozzone” la tavolata è quasi al completo.

Pericle Fazzini e Lisa entrano poco dopo. Lui sta trascinando un grosso involucro che piazza in un angolo della saletta. Guar­diamo incuriositi. Lo scarta: è una statua. 

- Bella ! - Commentiamo in coro.

Mentre appallottola i giornali che la ricoprivano entra Peppino con i piatti in mano:

 - E’ tua. - gli dice Pericle –  Adesso puoi considerare estinto tutto il debito. Portaci da mangiare -

 Peppino dà un’occhiata alla statua, scuote la testa borbottando ma soffoca un sorriso di compiacimento. E’ diventato un intenditore d’arte a forza di essere pagato con quadri e statue. Chiede:

 - Cosa volete mangiare? –

- Intanto porta da bere per tutti   - Brindiamo allo scultore.   

 Il giorno dopo scendo al Baretto per comprare le mie solite fette biscottate quando, avviandomi alla cassa , vedo De Pisis, il pit­tore, che confabula con il signor  Proietti, mio padrone di casa. Stanno mercanteggiando uno dei suoi quadri.

 - Devo comprare  il biglietto del treno per tornare a casa  questa sera stessa.-

- Facciamo diecimila e non ne parliamo più. Lo regalerò a mia moglie per Natale.-

 Proietti prende il quadro e Depisis intasca una banconota da diecimila lire.

 - Beviamoci un caffè. Allora, buon viaggio-  gli augura Proietti  soddisfatto.

 Sul portone di casa m’imbatto  nella signora   Proietti  che m’informa:

 - Ha telefonato la Titanus. Il film è stato sospeso  perché hanno dovuto ricoverare  in clinica il cantante…..-

- Allora non si gira più, chissà fino a quando! - brontolo  sec­cata

 Torno su, poso il pacchetto sul tavolo e chiamo la produzione per conferma.

Proprio così, ho qualche giorno libero, andrò a posare per To­nino.

 - Solleva un poco la testa…perfetto, ferma così.- Sbircio, il ri­tratto procede bene. Dopo due ore smettiamo.

 - Ti preparo il tè. Ho comprato le fette biscottate dolci che ti piacciono tanto, le hanno appena sfornate.-

 Buono il tè, squisite le fette biscottate.

 - Sei molto gentile, grazie. Allora ci vediamo stasera alla Ta­verna Margutta - gli dico nel salutarlo -  Il gruppo ha deciso di festeggiare Ugo Moretti.  Per la pubblicazione del suo libro. Ci saremo tutti, vieni anche tu, vero? –

- Naturalmente! -

- A stasera, allora.-    

Ancora non si gira. Per fortuna essendo a disposizione della casa di produzione mi pagano anche le giornate di fermo. Sto mettendo i soldi da parte per comprarmi   tutto il terrazzo sopra il palazzo e costruirci il mio appartamentino, come ha fatto la Morante.

 Tra una settimana ci sarà la mostra a Via Margutta. Vado a piazza Goldoni  per comprare una tela e qualche tubetto di co­lore ad olio. Inciampo in Dario Treves che, anche lui, sta sce­gliendo  dei colori.

Consolazione. il pittore amico del proprietario della galleria “La Fontanella “gli ha detto che a lui piace il mio stile di pittura e mi farebbe dare una saletta gratis per una personale se gli por­tassi trenta quadri, ma io non ho trenta quadri e gli ho promesso che mi darò da fare appena finito il film.

Tornando a casa incontro  Giovanni Omiccioli  che mi saluta  e mi mostra  un piccolo quadro :

 - Ti piace ?…Te lo regalo. Parteciperai alla Mostra ?  -

- Quanto  è  carino!  Grazie. Ho  poca roba pronta, giusto qual­che ceramica e un paio di quadri  - Prendo il quadro e sorrido imbarazzata perché lo conosco appena.

- Comunque ci vediamo domani .-

- Certamente. – rispondo. Anche lui sembra imbarazzato. Ma forse è solo un po’ timido.

- Vai a casa ? Ti accompagno, facciamo la stessa strada.-

- Va bene.-   Ci avviamo.

- Il mio stand è vicino a quello di Novella Parigini, ricordatelo.-  Mi dice prima di salutarci.

- A domani, allora. –

 Salgo le scale fino all’ultimo piano, non c’è l’ascensore e biso­gna farle tutte a piedi

È già il tramonto.

Salgo sul terrazzo. Da qui il panorama dei tetti di Roma e il Cu­polone da una sensazione di affetto, quasi un abbraccio. Seduta accanto al glicine,  schizzo un abbozzo sulla tela.

Socchiudo gli occhi e inspiro il profumo che si è fatto più in­tenso con l’umidità  incipiente, ma li riapro incuriosita da un rumore di passi: trafelato e ansante per la ripida scala a chioc­ciola , sta arrivando Tonino. Lo guardo interrogativa.

 - Ivano non può venire…- s’interrompe per riprender fiato.

- L’ho incontrato al Baretto. Deve partire per Belluno perché il padre sta morendo…-

- Voglio dargli qualche soldo per il viaggio. So che sperava di vendere almeno un quadro per racimolare qualche lira, deve an­che pagare la pigione, ma non ha tempo per cercare un com­pratore.-

 Scendiamo di corsa e lo troviamo seduto da Nothegen.

Il proprietario del Baretto cerca di consolarlo. Ivano sta pian­gendo. Sentendoci arrivare solleva la testa :

 - L’ultima volta che l’ho visto… - la voce gli  si spezza in gola - ci ho litigato. Voleva che tornassi a casa…forse stava già male! - Si copre il volto con le mani.

- Parti subito? –  gli chiedo.

- Sto aspettando i soldi del biglietto. Ho dato un quadro alla Fontanella…Il tempo di fare la valigia. Avvertite voi gli altri? –

- Non ti preoccupare, ci pensiamo noi. - gli infilo dei soldi in tasca – Ti possono servire durante il viaggio. Tornerai a Roma… dopo? –

- Non lo so. – mi guarda smarrito.

 Gli faccio una carezza sui capelli. Lo abbracciamo forte. La sera è scesa su di noi.

 - Ho freddo.- dico rabbrividendo. Un’ombra cupa scende sul Babuino e la tristezza mi stringe il cuore. Non l’ho più rivisto.

 Era la prima volta che sentivo parlare di morte.

 

Il Cielo

Sono qui, sotto il pergolato del glicine che ho piantato io stessa e guardo il cielo.

Penso alla mia vita ed ho voglia di piangere.

Il cielo è lo stesso che guardavo dal terrazzo del Castel Dell’Ovo, a Napoli, dove abitavo da bambina.

Solo che allora cercavo d’immaginarla la mia vita.

Ora c’è poco altro d’aggiungere.

Non ero felice allora e non lo sono neppure adesso.

Troppe cose non sono andate per il verso giusto.

Ero triste, forse avevo già il presagio che il mio avvenire non sarebbe stato lieto.

L’imponderabile non si può prevedere e la vita prosegue, forse, senza ragione.

Le scelte sono casuali, non basta la volontà per determinarle.

L’amaro di non aver realizzato i sogni, l’indifferenza delle pro­spettive future, sembrano non incidere più sulla scorza che mi sono costruita per difendermi.

Solo il magone che mi porto dentro continua a stringermi la gola.

È come quando si è appena usciti da una lunga malattia, ci si sente deboli, spossati, non si ha voglia di muoversi. Tutt’al più, si guarda il cielo, le nuvole che passano e che portano via i no­stri giorni.

Tramonta il sole e la brezza marina mi fa rabbrividire, sposto lo sguardo verso il mare.

Una vela silenziosa  si allontana. I gabbiani fanno giri sempre più stretti intorno al peschereccio che rientra. Le loro strida rompono la quiete del giorno che svanisce.

Papilla, il gattino che Costantino ha raccolto per strada, mezzo morto per il freddo, pulcioso e col cimurro, mi guarda aprendo la bocca senza miagolare, è troppo debole per farlo. Capisco che ha fame e gli metto un po’ di cibo.

C’è solo lui a ricordarmi che è ora di mangiare e il glicine ha sete.

I miei pensieri mi hanno portato lontano.

C’è sempre qualcuno che ha bisogno di noi, perciò si riprende a vivere di nuovo, stancamente, automaticamente.

Due capinere che litigano, petulanti, con due passeri per il pos­sesso del palo della luce, mi distraggono. È così ogni anno, nes­suna delle due coppie vuole abbandonare il proprio nido.

Infondo sono come noi.

 Le ombre della sera si allungano, ghermiscono già la casa bianca sul ciglio del costone che si prolunga verso il faro del Circeo

Una stellina, più prepotente, si fa strada nell’imbrunire.

Mi vengono in mente i versi di un poeta africano: “ Scintilla, piccola stella, la tua luce guida il viaggiatore nel buio ma non sa da dove viene né dove va…”  il concetto è questo, pressappoco.

Prendo un foglio e schizzo un bozzetto per un quadro. Cerco di pensare per immagini.

Desisto. Bevo un caffè e riprendo la penna: è troppo buio per disegnare.

Il colloquio con se stessi si fa più impegnativo con il calar della sera. Ne ho paura.

È la consapevolezza di esser soli. Il nostro monologo non ha interlocutori. Le domande rimarranno senza risposte, come sempre.

L’odore acre della paglia bruciata mi distoglie dai miei pensieri.

Mi affaccio dal terrazzino ma tutto sembra in ordine.

Un vocio festoso proviene dalla villa più su, vicino alla Strada Del Sole.

Staranno accendendo un barbecue…

L’allegra comitiva probabilmente si appresta ad una cena in giardino.

Riprendo la penna.

Di nuovo una zaffata, più intensa, di fieno che brucia, frammi­sta alla brezza marina, sale su, sul promontorio e m’inonda le narici.

Torno, preoccupata, a scrutare il bosco ma non c’è fumo, né il crepitio delle piante che bruciano.

Quasi ogni estate, qui, prende fuoco per l’incoscienza dei ra­gazzi che schizzano via i mozziconi ancora accesi fra la sterpa­glia arida che sovrasta la Strada Del Faro che porta a Punta Rossa, un piccolo villaggio scavato nella roccia purpurea che degrada verso il mare.

Torno a scrivere, a fatica, perché adesso è davvero buio.

Le stelle sono a grappoli, ora, festoni drappeggiati in un nulla di velluto blu.

Mi dirigo verso il piccolo faro di rame appeso al muro che, per pigrizia, non ho ancora acceso, quando, una folata salmastra più forte, appicca il fuoco tutt’intorno al giardino, oltre la rete.

Una sarabanda vermiglia corre su per la montagna, quasi un esercito di guastatori, fino allora mimetizzato, che all'improv­viso accerchia l'obiettivo.

Dense colonne di fumo nascono un po’ ovunque.

Il crepitio dei rami secchi richiama lo scoppiettio delle castagne sul fuoco all’angolo delle strade, d’inverno.

Una nevicata di faville incandescenti che danzano impazzite intorno a me , mi dicono che la pergola di canne, su cui si ab­barbica il glicine, sta per prendere fuoco.

Foglie catturate dal vento caldo della corrente ascensionale, vorticano a spirale, si posano sui cuscini arabescati d’edera del dondolo  e delle sedie alla Peynet.

Ancora con il quaderno in mano, afferro la borsa con i docu­menti.

Il cancello principale della casa, coi suoi neri arabeschi di ferro battuto, è lambito dal fuoco e quei segni si stagliano, irreali, sullo sfondo delle fiamme rossastre che lo arroventano.

Mi proteggo i capelli dalle falasche ardenti che mi danzano in­torno e fuggo per un viottolino, semicoperto da una vegetazione spinosa che ha invaso il selciato.

Questo secondo ingresso è chiuso a chiave perché è usato rara­mente.

M’inerpico su  per il cancello ricoperto di filo spinato arruggi­nito e, con un salto da capriolo, sono dall’altra parte.

Guardo il quaderno stropicciato che ancora ho in mano quando mi ricordo del gattino di Costantino. Butto il quaderno a terra, scavalco di nuovo il cancello e torno indietro affannata.

Papilla è accovacciata sulla pattumiera con gli occhi dilatati. Mi guarda atterrita senza miagolare.

L’afferro e rifaccio di corsa la strada di prima. Riprendo il qua­derno e corro giù, a scapicollo, per le scale, verso la strada pro­vinciale dove, nel frattempo, sono arrivati i pompieri. 

Ora l’incendio è spento. Mi guardo intorno.

La serena, fiabesca, incantevole bellezza delle lampare che si specchiano sull’acqua, appena increspata, è in assoluto contra­sto con lo squallore che mi circonda.

Tutto tace. La vita sembra sospesa.

Tizzoni ardenti continuano a covare sotto la cenere. Scheletrici, i radi tronchi degli alberi rimasti in piedi, fumano evocando in­fernali sortilegi. Le loro sagome scure si stagliano, come fanta­smi in negativo, mentre, sotto di essi, danzano, al pari dei pic­coli fuochi fatui dei cimiteri, scintille roventi che, sospinte dal vento, si staccano dalla brace residua.

Sul tavolo, dove stavo scrivendo, trovo un uovo di uccellino bruciacchiato ma ancora intero. Lo scuoto portandolo all’orecchio. Dove prima c’era la vita, ora c’è la morte.

Ripenso a mio padre.

Il vivere è riciclare i nostri morti.

Gli occhi appannati dalle lacrime raddoppiano le stelle.

Una per ciascuno di noi. Testimonianza, forse, del nostro pas­saggio sulla terra .

 Dov’è la tua, papà? 

Stringo le labbra succhiando le lacrime che bruciano la pelle. Il nodo in gola si fa sempre più stretto.

 È buio fondo. Ora è visibile anche la Via Lattea, galassia di uomini che hanno consumato la loro vita. Ma i pensieri, tutti i nostri pensieri, dove vanno? Verso l’Eternità ?

 

 La Chimera

- Eppure il nostro è stato un grande amore, non è stato sempre così !-

 

È mio padre che mi parla. Ottant’anni, malato. Sta qui al Cir­ceo, con me.

- Aveva  quindici anni, tua madre, quando me ne innamorai. Che bella! Oh, se era bella! Eppoi una vera signora, fine , una gran signora… Che classe! …È stata la mia sola , unica donna. Sposerei  di nuovo, subito, solo lei. Nessuna può starle a con­fronto…-

Silenzio. Si perde dietro ai ricordi.

 -Quand’ero al campo…ero militare…facevo quaranta chilome­tri al giorno, venti ad andare e venti a tornare, dopo aver mar­ciato , col plotone,  per  l’esercitazione giornaliera , per andarla a trovare , giusto il tempo di vederla, stare mezz’ora con lei e subito rimettermi in marcia per arrivare in tempo per la ritirata. –

 Metto a bagno i suoi piedi per tagliargli le unghie. Poveri piedi, deformati dagli scarponi , duri, ruvidi, che gli hanno accavallato le dita. Sento un magone  dentro che mi strozza la gola… E adesso si dilaniano, penso triste.  Mia madre non lo sopporta più, proprio perché è una signora.

La malattia ha fatto regredire papà, lo ha abbrutito. Fa cose sgradevoli che non gli ho visto mai fare.

Anch’io devo vincere, con il mio amore di figlia, la voglia di scappare lontano.

E poi ,mamma è stanca,  non ce la fa più. Ha il cuore affaticato. Ha bisogno di riposo, di riposo e tranquillità, dice il medico. Ma lui tutte le notti la sveglia, le accende le luci, tutte, quella grande, centrale, l’abat-jour, sul comodino, quella piccola sul settimanile.

Non vuole star solo, la vuole sveglia, che si occupi di lui.

Mamma sbuffa, lo sgrida. È quasi un anno che non dorme più. È al limite della resistenza umana.

Si è ammalata di nervi, da segni di squilibrio, come i torturati politici.

Diventa molto cattiva, per reazione all’egoismo di papà.

Ma papà ha paura. Paura di morire solo, senza di lei.

Adesso ha cambiato tattica, se non può avere il suo cuore, vuole almeno la sua compassione e il suo atteggiamento si è fatto que­rulo, lamentoso .

Mamma si sfoga con me.

Mi fanno male le sue parole di odio, è sempre mio padre.

Le ritornano in mente i litigi, le angherie.                                                                                                                                                    

Come quella volta, a Trieste, che era uscita con le sue sorelle e, al ritorno dal campo, papà , non trovandola in casa , le aveva ti­rato, al suo rientro, la rivoltella che si stava sfilando dal cintu­rone. Le aveva lasciato una cicatrice , profonda , su quel bel viso giovane.

 - No, non posso dimenticare, me ne ha fatto troppe! - conclude mamma amareggiata -  Non lo  posso più soffrire. -

- Era geloso, lo sai! – Tento di rabbonirla.

- E che dovevo fare, secondo te, seppellirmi viva perché lui era geloso?

- Lo so, lo so…-

- Io non ho avuto gioventù. Per colpa sua . Ero sempre incinta. A ventotto anni avevo già cinque figli. Ho dovuto fare il lega­mento delle trombe di Falloppio  per non averne più. Incinta e allattare, incinta e allattare. Questa è stata la mia gioventù. E, per giunta non potevo uscire perché lui era geloso. Lo sai che quando uscivamo insieme dovevo tenere gli occhi bassi perché gli uomini mi guardavano? Ero bella e gli uomini mi guarda­vano. Che ci potevo fare, io?

- Ti voleva molto bene e aveva paura di perderti. –

- E non mi perdeva, forse , alzandomi le mani addosso?

Approfittava che ero più debole per farmi diventare nera di botte. Io, proprio io! Che non ero mai stata toccata dai miei. Mio padre, quando mi sgridava, passava al “ Lei “ e mi chia­mava “ Signorina” …. Ma mio padre era un signore. Io dovevo sposare il barone Falcone Lucifero …-

- Ma tu hai preferito papà. Te lo sei scelto tu! –

- Questo è vero. -

- Hai visto che non era delle tue condizioni sociali e lo ha spo­sato lo stesso. -

- Gli erano tutti contro…Mi faceva pena. I miei fratelli lo trat­tavano male e lui subiva perché era innamorato. –

- Papà dice che il vostro è stato un grande amore. –

- Amore! Aveva dei bei capelli ricci, faceva l’accademia. Ha dovuto lasciarla per colpa mia.  Stava bene in divisa. Devo rac­contarti  cose che non avete mai saputo perché non era un buon esempio per voi.. -

- Cosa avete fatto di tanto terribile da non potercelo dire?-

- Avevo quindici anni e andavo ancora al ginnasio.

Uscivo solo con mio padre o mia madre per far spese. Un giorno alla” Passeggiata” vedo tuo padre con mio fratello grande che aveva fatto il militare con lui. Ci fermiamo per sa­lutarci e papà mi viene presentato.

 Mi guardava affascinato. Ero un po’ imbarazzata. L’indomani all’uscita di scuola mi saluta e mi  prende il libro di latino e lo sfoglia. Quando arrivo a casa prendo il libro per fare i compiti e  trovo una violetta del pensiero avvolta in un bigliettino con una poesia che mi aveva dedicato.

 Mio padre lo trova e mi ritira dalla scuola. Mi porta a Palermo e mi rinchiude nel collegio di  Santa Rosalia .Telefona al  cu­gino di Roma, Rosolino, presidente della Corte dei Conti, e fa  sbattere  tuo padre nel punto più lontano da me, al confine .Ero furibonda.

Con la scusa che dovevo andare dalla sarta per farmi prendere le misure della divisa, esco e una mia amica mi porta un bi­glietto di papà che mi dice di farmi trovare alla stazione di  Pa­lermo

Infatti lui è là che mi aspetta. Saliamo sul treno che ci porta a Trieste dove è stato destinato.

Dopo pochi giorni io rimango incinta. Lui però, aveva già messo la firma per fare la carriera militare e questo significava che per otto anni non avrebbe potuto sposarsi. Così ha rinunziato.

Ha continuato però, a studiare, frequentando le scuole serali quando, stanco morto, usciva dalla caserma e si è preso, prima il diploma di ragioniere e in seguito la laurea in Scienze Colo­niali. Non voleva che mi vergognassi di lui. –

- Povero papà ! Ti ha voluto tanto bene. –

- Quando mi accorsi di essermi sbagliata avevo già i figli e al­lora mi sono sacrificata per tenere la famiglia unita. Sono rima­sta per voi. –

- Ma perché tutte quelle liti continue, le scenate eterne che ci hanno fatto diventare nevrotici? Non so proprio se sia stato me­glio di una separazione. Io me ne sono andata per questo. Quando passava un giorno e non avevate litigato, io la sera, per la tensione, scoppiavo a piangere.-

- Si fa presto a dirlo …Quando ci sono cinque figli piccoli.. che studiano…No, non ho voluto privarvi del padre che vi adorava, senza sentirmi una cattiva madre. -

 Eccola, di nuovo. Si sarebbe sentita una cattiva madre, lei che ha sacrificato tutto a noi!

E papà, a poco a poco, è stato escluso , messo da parte.

Lui che, a modo suo, ci ha amato tanto!  Così trepido, vigile, apprensivo, tanto da sostituirsi a  noi  e farci perdere l’iniziati-va, così essenziale nella formazione dell’individuo,  nell’adole-

scenza. Non voleva che infilassimo lo spinotto nelle prese elettriche e, ancora oggi, ho timore a fare cose banali.

 - Attenta, è pericoloso! – ce l’ho ancora nelle orecchie le sue frasi allarmate – Non si fa, potresti farti male! -

E io, impaurita , non toccavo e lasciavo fare a lui. Ho sempre fatto fare tutto a lui.

 La mia ribellione venne il giorno in cui decisi d’iscrivermi al liceo artistico, si fa per dire, perché lo avrebbe fatto comunque lui se avesse ac­cettato la mia decisione, per poi andare alle Belle Arti. Lui non volle. Non gli pareva abbastanza.

Sognava grandi cose per i suoi figli. Tutto quello che non aveva potuto essere lui. Malgrado la sua laurea, non si sentiva appagato.

I suoi figli sarebbero stati molto più importanti, molto più di lui, povero papà che aveva fatto tanto, sempre sotto le armi e con cinque figli sulle spalle, tenuti nelle migliori scuole private della città, perché, diceva mamma, che l’ambiente che si frequenta è essenziale.

 Lei era stata abituata così e i suoi figli non dovevano avere di meno, quei figli per cui si era sacrificata fino allo spasimo .

La osservo mentre cuce e scuce. È sempre indaffarata a fare qualcosa. Povera, cara mamma. Ancora così bella , malgrado i suoi capelli bianchi che aggiungono un tocco di dolcezza in più a quel viso fresco, senza rughe, che sempre mi ha affascinato.

Ricordo che stavo ammaliata a guardarla mentre si truccava . Sottolineava con la matita scura quegli occhi immensi , chiari , velati dalle ciglia nere, poi, la bocca, sorrido ripensandoci, la di­segnava a cuore, come andava allora, di un rosso vivido, sma­gliante, che le accendeva un fuoco su quella pelle pallida, per la fatica  ma levigata come il bisquit delle statuette di Capo­di­monte che leziosamente adornavano la nostra camera da pranzo.

Oggi Aurora, la più grande, è un importante primario d’ospedale, papà può esserne fiero,  Giorgio è avvocato e Giusy professoressa di lettere antiche e moderne.

Duilio è rimasto la spina nel cuore dei miei. Ha preso la licenza liceale, al classico,  ma ha dovuto sposarsi .Ed io, infine, faccio l’attrice di cinema e teatro, dipingo e scrivo.  Che disdoro! Ho dovuto, perfino , scegliermi un nome d’arte che ho dedicato alla mia primogenita, per non  “danneggiare “ i miei fratelli. Si, per­ché non mi ha mai iscritta al liceo artistico come avevo tanto desiderato. Papà m’informò di avermi iscritta al ginnasio perché la mia cultura altrimenti non sarebbe stata sufficiente . Per il li­ceo artistico se ne sarebbe parlato dopo la licenza., ma dopo il ginnasio , sempre per la stessa ragione, m’informò di avermi iscritta al liceo classico e, dopo, era ormai troppo tardi, avrei perso cinque anni .Sarei dovuta tornare a fare in parte, il pro­gramma che avevo già svolto per intero. Ci rinunciai, e durante le vacanze cominciai  a scrivere per un giornale, mentre la sera, recitavo a teatro.

 Erano le vacanze e ciò non mi distoglieva dallo studio, pensò papà e lasciò fare finché non vinsi il concorso al Centro Speri­mentale di Cinematografia di Roma, dove vinsi una borsa di studio e conobbi Ernesto. Già, Ernesto, che doveva cambiare tutta la mia vita perché è diventato mio marito. Lui studiava regia ed io  recitazione.

 Guardo le foto che lo ritrae sul trenino di Cinecittà. Mi sorride.

 - Si può essere felici .- mi aveva detto - I miei genitori lo sono stati, per quindici anni . Poi mio padre è stato ammazzato. Ma, in quindici anni hanno litigato una sola volta.-

- Non credo che si possa essere felici nel matrimonio .- gli ri­sposi -. Le esperienze delle coppie che ho conosciuto sono tutte negative.  Non ci credo. –

- Vedrai, - mi ripeteva lui –Anche noi saremo felici come lo sono stati i miei. –

 Io, persa nel ricordo ossessivo che mi aveva portato via dalla mia famiglia, scuotevo il capo.

 Mentre asciugo i piedi di mio padre, mi accorgo che sto ancora scuotendo il capo. Mi alzo, gli sorrido e gli do un bacio. A papà scappa un singhiozzo affannoso.

 Gli accarezzo i suoi capelli ricci che erano tanto piaciuti a mamma , ora sono bianchi , un po’ radi ma sempre bellissimi. Mi si stringe il cuore e, per nascondere le lacrime, guardo il mare.

 

Papà

Ti chiedo perdono, non valeva la pena di fare di testa mia.

Per quella sciocca presunzione di essere da soli a decidere.

Ti avrei reso più felice facendo come mi suggerivi.

Ora è tardi per accontentarti, non ci sei più a gioirne.

 Avrei voluto dirti tutto questo l’ultima volta che stringevo la tua mano fredda con la mia, quando la vita, la tua vita , se ne stava andando.

Mi parlavi solo con gli occhi perché era rimasto l’unico mezzo di comunicazione tra noi due.

Eri tanto sfinito dalla febbre che non ti lasciava più e che ti ha consumato fino a portarti via.

Anche se disperata, ti sussurravo, con gli occhi allagati dalle la­crime che, nonostante tutto, ti avevo voluto sempre bene, tanto.

Mi sforzavo, respirando forte, di non farti capire che piangevo, per non confermare che ormai sapevo che eri vicino alla morte e di avere il rimorso di averti deluso.

Tu che eri così fiero che ti somigliavo!

Avrei voluto portarti una bella notizia, dirti che Costantino si era rimesso a studiare e che avrebbe riguadagnato gli anni per­duti facendo tre anni in uno, come avevi fatto tu, a Trieste, no­nostante i cinque figli e la carriera militare.

E, invece, ho perso l’ultima settimana della tua vita, gli ultimi colloqui con il Padre.

 Questo pensiero mi tortura, di notte. Sapere che mi chiamavi perché avevi fiducia in me, speravi che io ti guarissi.

La tua carezza, quella notte, l’ultima , che mi ha sfiorato la guancia, due volte e poi mi hai tirato il ciuffo, con tenerezza, per dirmi grazie di esserti accanto, io, che me ne ero andata via per prima, da ragazzina, per seguire i miei sogni.

Perché non ti sono stata più figlia, mettendo da parte la voglia di conquistarla questa mia vita che mi appare così spenta ora che non ci sei più tu ad indicarmi la strada.

Forse era proprio la voglia di avere il tuo plauso, darti occa­sione di essere fiero di me, come lo sei stato di mia sorella Au­rora.

 Tutto questo avrei voluto confidarti la notte prima, quando im­ploravi con angoscia, me e Duilio di aiutarti.

Ma tu mi hai guardato così intensamente, così profondamente , così disperatamente che non potevo staccarmi e cercavo di mas­saggiarti il braccio gonfio e livido per le innumerevoli flebo che ti straziavano.

E sono stata ancora  un poco a captare gli impercettibili segni che tu mi facevi con le sopracciglia per dirmi si o no

Con che dispiacere ti ho sussurrato che dovevo andare per es­sere efficiente il mattino dopo, per dare il cambio a Duilio che ti vegliava la notte. 

I turni erano stati stabiliti, razionalmente, da Aurora. Secondo il metodo lucido e freddo del primario d’ospedale..

Non ho dormito quella notte e pensavo a te, buttata sul letto, ve­stita, con il trucco in faccia, per darti l’impressione, al mio ri­torno, che non eri così grave come sapevo.

Prima regola, aver cura della persona per dare animo a chi la malattia deprime. Con la mia amica Letizia ha funzionato

Con scrupolo, appena arrivata, ti lavavo il viso con acqua e profumo, il mio che ti ho lasciato nel fazzolettino di pizzo e ri­cami che mamma, un Natale passato a Napoli, mi ha regalato. Anche se non potevi sentirlo il mio profumo, te l’ho lasciato, dopo averti deterso il  viso per l’ultima volta , dentro la bara. Te l’ho appoggiato su quel buco, nella vena jugulare da dove, negli ultimi giorni, avevano alimentato quel tuo povero corpo denu­trito e assetato.

Aurora ha avuto una nota di sarcasmo :

 - Perché, lo sente ? –

 No, lo so, razionalmente, che non potevi più sentirlo, ma ri­cordavo quanto amavi il profumo che ti regalavo. Quella marca era solo per te.

E la barba, quando te l’ho chiesto, facevi segno di no, stremato, io te l’ho fatta fare perché sapevo che ci tenevi tanto ad essere sempre in ordine.

Che bel papà, tutti mi dicevano, ed eri bello, si!…

Perfino nella morte, perché la febbre si era gelata sotto la pelle e ti aveva lasciato un soffuso color di rosa come i suoi petali appena è sbocciata.

Nonostante il martirio di quelle orribili piaghe da decubito che ti torturavano la carne e che, caparbia, ero quasi riuscita a far cicatrizzare.

 Ripenso ai tuoi ultimi istanti, mentre ravvio i tuoi capelli bian­chi.

Come in un replay, rivedo Aurora che si chiede se abbiamo il diritto di prolungarti l’agonia, io che prego Lucio, suo marito, di continuare a fare di tutto, essendo lui il dottore che dovrebbe operarti, per salvarti .

 - A che scopo – mi chiede Aurora - Per farlo soffrire di più?-

- La sofferenza è sempre vita, la morte è il nulla.. – rispondo

ed esco sul balcone. Non voglio farle sentire i miei singhiozzi. 

I medici sono contrari a far assistere i familiari mentre appron­tano l’intubazione per l’aspirazione del catarro che ormai ha in­vaso oltre i  bronchi anche la trachea fino a soffocarti.

Due urla mi gelano il sangue: uno quando ti mettono il tubo in gola, l’altro nel naso, ferendolo.

 Appoggiata alla ringhiera gelida del balcone, con gli occhi sbar­rati, fisso la luna piena mentre vivo la tua sofferenza .

Di colpo si è cancellata dalla mente l’immagine romantica  che la luna, fino ad allora, aveva evocato in me.

 La notte respiri meglio, la febbre si è abbassata. Comincio a sperare.

 Mi mandano a casa e li, aspetto, pronta a tornare da te.

 Alle sei del mattino sono in piedi che attendo, con ansia, la tele­fonata di Aurora. Non arriva. Alle otto telefono a Lucio per avere notizie. Anche lui non sa nulla.

Decidiamo di tornare all’ospedale.

Durante il tragitto in macchina, mi prepara:

 - Se non c’è febbre, forse si potrebbe provare a fare un’altra aspirazione. Se la febbre continua non c’è più nulla da fare, vuol dire che l’organismo non reagisce più.- 

Mi avvicino, trepida e poso la mano sulla tua fronte: scotta!

Il rantolo del catarro riprende a torturarti. Annaspi come uno che affoga.

Questa è l’immagine più allucinante.! Boccheggi disperato per­ché il cuore è forte. Il tuo grande cuore lotta fino allo spasimo per pompare la vita che inesorabilmente ti sta abbandonando. La pressione, dopo un’iniezione, torna a cento mentre con una smorfia di dolore aspiri, disperato, per ossigenare il cer­vello. Ogni respiro una smorfia terrificante.

Uno sbadiglio, ancora il rantolo dolorosissimo, faticosissimo, per cercare l’aria che ti sfugge.

 Aurora ti fa iniettare un cardiotonico perché la pressione è ca­duta e il cuore si è fermato…

Riprendi con uno sforzo estremo, a respirare, riapri gli occhi. Aurora ti solleva le palpebre : i tuoi occhi sono fissi, sbarrati, atterriti.

 - È  già cadavere, ma il cuore non si ferma.-

 La guardo come si guarda un mostro. È il medico che parla, senza discrezione!

 - Adesso basta, vieni via. Lasciamolo morire in pace. –

 Si allontana per cercare il pigiama da metterti subito dopo, dice.

Ma non è vero, non ha il coraggio, proprio lei, che di morti ne ha viste tante, di guardare gli ultimi spasimi del padre.

Infatti ci vuole coraggio, molto coraggio, per non lasciarti solo.

 La mia mano riprende quella tua, gelida, ma Aurora me la al­lontana e te la distende al fianco.

Mi avvicino il più possibile per seguire l’ultimo anelito della tua povera vita.

Avrei voluto infonderti la mia, respirare per te che non po­tevi…. 

Riapri gli occhi, lucidi, disperati, avevi sentito tutto! Mi penetri l’animo e il cuore mi si ferma per un istante. Vedo che spasmodicamente concentri le forze che ti rimangono in quello sguardo, mi stringi forte la mano… poi, piano, piano il motore del tuo respiro comincia a perdere colpi, rallenta….

Mai più potrò dimenticare quella smorfia tremenda,

dolorosissima, che inaspettatamente si trasforma in tre sbadigli e, come un treno che è arrivato alla stazione, il tuo ansimare rallenta e si ferma del tutto.

 Oh, papà , mio adorato papà, sei spirato portandoti dentro, come ultima visione, la mia immagine!      

                                

Tua figlia Mara

 

La barriera

È il tuo compleanno, venticinque, sei già donna.

 Il pensiero torna alla memoria.

Penso alla tua nascita, terribile, indicibilmente dolorosa.

Io, persa nei fumi della morfina iniettata per la seconda volta, senza efficacia, tu, piccolina, abbandonata provvisoriamente, nella cabina telefonica della clinica Villa Angela, sola, al freddo, perché il tuo pianto svegliava gli altri neonati, al caldo, nella pouponnière.

Quando, due giorni dopo, affamata, ti hanno riportato a me, le tue manine gelide, screpolate, mi hanno fatto provare un terri­bile sconforto.

Mi è stato negato quel momento magico che ogni mamma vive la prima volta che partorisce.

La meraviglia di esserne anche tu capace  è tanta, perché in realtà, ancora non ci credi. Ero immatura.

Mi rendevo confusamente conto che stavo perdendo il primo rapporto tra te e me.

Ti spiavo incerta, impaurita. Non mangiavi da due giorni e quando mi hai azzannato, sentendo l’odore dolce del latte, ho avuto una reazione di ribellione. Mi facevi male e la tua nascita me ne aveva già fatto tanto.

Poi ti ho preso, timidamente, una di quelle manine fredde, co­perte da una guaina di pelle morta, per le acque perse il giorno prima della nascita e ti ho scaldata.

Ero confusa, avvilita.

 Il cesareo era stato eseguito in modo sbagliato. La fascia mu­scolare dell’addome, anziché divaricata, recisa da fianco a fianco e il peritoneo non riportato nella giusta posizione origi­nale, prima della sutura.

 Ma l’imperizia non era stata solo del dottore che aveva operato, anche la sbadataggine dell’infermiera aveva contribuito a quello sfacelo, facendo colare sulla ferita il contenuto di un’intera boc­cetta di benzina nel tentativo di scollare il cerotto sul taglio mal protetto dall’errata posizione della garzina..

Il mio corpo, di cui ero tanto fiera, deturpato, per sempre, da un’anca all’altra.

Guardando quello scempio pensavo, con amarezza, che solo qualche anno prima, ero stata selezionata per il concorso di Miss Italia.

 Il filo del ricordo torna più indietro.

Ero all’inizio della carriera di attrice. Si sa, in questa profes­sione, l’aspetto fisico conta, anche se avevo puntato più sulla borsa di studio vinta al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e sul premio di migliore interprete che sull’avvenenza, troppo effimera, per costruirci sopra il mio avvenire.

Sogni, forse, ma i ragazzi che si affacciano alla vita vivono di sogni.

 La mente torna di nuovo e ancora a te, fredda, affamata e indi­fesa che piangi e mi svegli, ripiombandomi in quel mondo di dolore fatto di gemiti miei mescolati al tuo pianto ininterrotto.

Poi la morfina fa effetto. Mi si annebbia la vista…Tutto vortica intorno…Non riesco a distinguere la tua faccia quando ti por­tano a me.

Il tuo viso mi appare solo come una macchia bianca con, al po­sto degli occhi, due buchi scuri che si tramutano in una sara­banda di quadretti, triangoli, cerchi ghignanti, bianchi e neri che s’intersecano, si mescolano, s’impastano trasformandosi in un profondo tunnel che gira, gira e poi, m’inghiotte…

Ho la nausea. Con fastidio sento insinuarsi  la voce distorta della suora.

Tento di distogliere lo sguardo. I mobili, intorno, crescono, enormi, mi crollano addosso, si allontanano e poi tornano, gi­ganteschi, sopra di me.

 Sono angosciata di non poterti vedere come realmente sei .

Capisco che la morfina mi sta privando di quel momento così a lungo pensato, immaginato, mentre ti portavo in grembo.

Richiamo con uno sforzo la mie residue facoltà mentali. Cerco di non sciupare, del tutto, quell’istante che avevo tanto deside­rato di fissare nella memoria.

 Di nuovo, la voce petulante della suora mi tortura.

In quel marasma capto, a tratti, che m’insulta, non capisco bene il perché. Mi scrolla con violenza. Il letto sussulta.

Il dolore mi toglie il fiato. Riesco solo a spalancare la bocca sbarrando gli occhi.

Intravedo a malapena,  con lo sguardo appannato, il tuo capo sotto il mio.

 La nausea sale insieme alla schiuma che quasi vomito su di te. Mi ritraggo, lei, indispettita, continua a metterti sotto la mia faccia. Io non posso spiegarle che non voglio imbrattarti con il mio vomito.

- Snaturata – mi dice e mi dà una spinta facendomi cadere in deliquio sul cuscino.

 Quando la coscienza riaffiora, il tuo vagito mai chetato, misto al tintinnio ossessivo di un campanello nella mia testa, creato dalla droga e frammisto ad una litania di parole ovattate che arriva da chissà dove, mi martellano il cervello.

Il bruciore della ferita prevale su tutto, atroce, come vetriolo bollente che penetri  nelle viscere, come pugnalate incande­scenti che lacerino il ventre.

Torna l’angosciosa realtà che il cervello concentra su quel do­lore da cui anela fuggire, annullare nell’incoscienza, nel nulla della morte.   

 La pena non è solo fisica, dentro sento agitarsi commiserazione per ciò che patisco e senso di colpa verso di te, per la tua soffe­renza che non sono in grado di alleviare con la mia tenerezza di madre. Povero esserino indifeso, privato della mia protezione, proprio nel momento più vulnerabile della tua fragile vita.

 Forse tu hai sofferto di questa originaria carenza e, crescendo, hai creato una barriera fra te e me.

Oggi mi sento esclusa, come allora feci io nel mio dolore.

La malinconia di ciò che ho perso mi accompagnerà sempre.

Momenti preziosi, distorti, sprecati, annullati.

Ti chiedo perdono, Amarylli , di non essere stata all’altezza del compito che mi era toccato.

Ti voglio bene e oggi, che sono più consapevole e sto crescendo, cercherò di scalfire, giorno dopo giorno, quel muro.

Vedi? Tendo le mani per accoglierti con gioia, quando tu sarai pronta, a cullarti fra le mie braccia.

 Lasciami continuare a scaldare quelle manine al calore di un amore che forse non ho saputo esprimere.

Lasciami, tutt’al più, provare.

 

La bambolina

Ti sto mentendo pietosamente, consapevole d’illuderti e non posso non sentire un acuto imbarazzo davanti ai tuoi occhi che mi guardano appannati mentre giaci su di un letto d’ospedale.

Non posso dirti che non c’è più niente da fare e che il tuo male è incurabile e, allora, ecco la bugia che io stessa ho suggerito al medico, perché tu continui a chiedere quando ti opereranno.

 - Per ora no, sei troppo debole. Intanto ti hanno fatto tutti gli ac­certamenti necessari. Tra qualche giorno ti dimetteranno. Ti consigliano di tornare ad Agrigento perché l’aria natia ti farà ristabilire prima.-

 Tu mi guardi senza annuire. Poi volgi lo sguardo via, perso di nuovo nel tuo dolore. Forse hai capito, non so.

Il cuore mi si stringe mentre ingoio le lacrime e ti sorrido. Ti prendo la mano e ti accarezzo piano.

Non sono brava a dir bugie ed ho pudore ad ingannarti.

Sei diventato così minuto, scheletrico, mi richiami alla mente un uccellino che cadde, per un colpo di vento, dal palo della luce, al Circeo.

 Ti chiedo se hai sete. Mi fai cenno di si. Contenta di poter fare qualcosa per te, prendo un cucchiaino e cerco di farti bere.

Avidamente tenti di succhiare un po’ d’acqua ma sei stremato, e la tua testa ricade sul cuscino.

Ci riprovo. Ti sostengo il capo con una mano mentre con l’altra ti accosto nuovamente alle labbra l’acqua ma la maggior parte cade sulla riversa del lenzuolo, quella che resta ti va di traverso.

Il tuo povero petto è squassato da terribili colpi di tosse. Ti risi­stemo giù. Chiudi gli occhi, spossato.

Ti faccio una carezza e ti asciugo la fronte, sudata per lo sforzo. Riapri gli occhi e mi fissi come se mi vedessi per la prima volta. Continui a guardarmi. C’è meraviglia nei tuoi occhi, tanta.

 - Sono io, Mara. Ho preso l’ultimo treno della notte per assi­sterti…-

 Perché, penso, non sapevi che ti volevo bene? Non sarei qui, altrimenti, anche se sono passati solo tre mesi dalla morte di papà e ne sono ancora sconvolta perché era la prima volta che avevo assistito allo spegnersi di una vita.

Anche se la tua preferita è stata sempre Aurora, la più grande. Ricordo che quando eravamo a Trieste, portavi sempre lei, ai giardini di Viale XX Settembre, quando ti sedevi al bar per prendere il caffè, com’era tua consuetudine, e ricordo che quando tornava a casa con le mani piene di cioccolatini me li mostrava dicendomi:

 - Vedi  cosa mi ha comprato Esseneto? – E non mi chiedeva mai se ne avrei voluto uno anch’io, allora,  facendole una smor­fietta, le voltavo le spalle e me ne andavo con sussiego.

 Certo ci soffrivo che non pensassi mai a me, che ero più pic­cina, ma non volevo disturbare il tuo sentimento verso di lei.

Torno a tenerti la mano e penso a quando, per la prima volta, mi regalasti quella bambolina bruna per San Nicolò. Papà era al campo militare a San Pietro Del Carso e non arrivò in tempo per farci i doni. Tu non volesti veder deluse due bambine che aspettavano quel giorno con tanta ansia gioiosa e uscisti . Quando tornasti, nascondendo un pacco dietro le spalle, mi mandasti via dalla stanza chiamando mamma per mostrarle il contenuto.

 L’indomani, sotto l’albero di Natale, trovammo due bamboline, una bionda ed una bruna.

Felice, corsi a prendere quella bionda come me, la­sciando la bruna a mia sorella che aveva dei magnifici capelli lunghi e scuri, ma lei in­tervenne togliendomela dalle mani:

 - Questa la voglio io. – disse decisa. Io ti guardai e tu, imbarazzato, mi dicesti:

- No, la tua è bruna, proprio perché tu sei bionda , quella sua è bionda perché è bruna. –

 Io, per la verità, non capii, anzi mi sembrò sbagliato ma non dissi nulla anche se avvertii un leggero pizzico al cuore nel ce­dere quella con i boccoli d’oro. Mi tremarono le labbra, in un principio di pianto, poi mi strinsi la bambola bruna al petto e cominciai a coccolarla, la mia bambolina….

Mi distoglie dai miei pensieri un tuo sussurro che non capisco. Accosto l’orecchio alla tua bocca e ti chiedo di ripetere, piano, senza affaticarti. Con uno sforzo , sospiri: - Aurora…-

Non vorrei lasciarti solo perché vedo che stai peggiorando.

Quel rantolo, ormai , lo conosco bene.

Richiami, senza vedermi:

 - Aurora,…Aurora…-

 Decido di tentare. Prendo l’ultimo gettone dal comodino e ti dico che corro a telefonarle.

Con il cuore in gola grido a mia madre, al telefono:

 - Esseneto sta morendo, presto, rintraccia Aurora. Io non ho più gettoni e non posso lasciarlo solo. Prova finché la trovi.-

 Trafelata, torno da te e ti rassicuro

 - Stai tranquillo, adesso viene. –

 Mi stringi la mano. La tua è gelata. Cerco di scaldarla con la mia e guardo il colore delle unghie per capire se Aurora farà in tempo.

 Chiedi dell’infermiere perché vorresti urinare. Lo chiamo con il campanello ma nessuno viene, è ora di pranzo. Insisti che ne hai bisogno urgente, allora ti domando se vuoi che ti metta io la pa­della igienica, ma quando sto per sollevare la coperta, tu non vuoi. Ti vergogni. Ti copri pudicamente con le mani mentre mi fai cenno di no con la testa. Mi blocco.

 Non ti sei mai sposato. Da giovane, t’innamorasti di una bellis­sima donna austriaca, bruna, con gli occhi verdi che avevo visto in una fotografia quando dimenticasti di chiudere il baule. Vi­vevi con noi, allora , a Napoli. Avevi perso il lavoro ai cantieri di Monfalcone, di Trieste perché non ti lasciasti corrompere e ti stabilisti per un po’ da noi. Quel giorno, passando ac­canto al cassetto aperto, mi fermai  per chiuderlo, e intravidi, per caso, la foto. Sorpresa, la sbirciai, rimasi affascinata a guar­darla, era stupenda! In quell’attimo tu rientrasti nella stanza e credendo che io, intrigante, avessi aperto il  cassetto, mi desti uno schiaffo per la prima volta, dicendo:

 - Maleducata, non si fa!.-

 Mortificata più per l’equivoco del  dubbio che per il gesto, an­che se volgare, chiesi, incuriosita:, tenendomi la guancia:

- Perché, chi è ? –

- Sono cose che non ti riguardano. –

 Concludesti bruscamente chiudendo il cassetto a chiave. Per me quella donna rimase un mistero per molti anni.

 Un giorno, ero ormai grande, chiesi a mia madre chi fosse quella donna, lei certo doveva sapere qualche cosa su quella fotografia così gelosamente custodita, e lei mi raccontò tutto.

 Tu, l’avevi conosciuta durante un viaggio. Decidesti che sa­rebbe stata la tua donna, per sempre.

La rispettavi  perché volevi sposarla e quando arrivò uno dei tuoi fratelli, gli presentasti, fiero, la tua bella fidanzata. Ma lui era uno che ci sapeva fare meglio di te con le donne, era assai più esperto e se la portò a letto. Poi ti disse che non era donna da sposare perché, come aveva ceduto a lui, l’avrebbe fatto con chiunque altro.

Così, il tuo sogno ti si sbriciolò tra le mani. Al tuo primo amore rimanesti incatenato per sempre.

 In seguito avesti molte amanti, anche donne sposate, ma l’amore quello totalizzante, non lo provasti più per nessuna e rimanesti scapolo, povero Esseneto! Ancora oggi nella tua bella casa, c’è solo quel bellissimo volto di donna incorniciato, pro­prio di fronte a quello della nonna. 

Mi chino e ti sfioro la fronte con un bacio. Torno ad accarez­zarti. Ti guardo. Il cancro ti ha divorato tutto! Sei consunto, fra­gile e non c’è nessuno a tenerti la mano. Eppure hai sette fratelli.

Forse hai capito da tempo chi ti vuole bene davvero.

Sei venuto a morire qui, tra noi e non vuoi più tornare a casa tua, dove non c’è nessuno.

Entra Aurora, di corsa, rossa in faccia e chiede disinvolta, sorridendo:

 - Che c’è, Esseneto, vuoi dirmi qualcosa? -

 Anche lei mente. Ma tu non parli già più  Pieghi la bocca ad U, con una smorfia che vorrebbe essere naturale, in un segno di diniego ma il tuo rantolo affannoso ti tradisce. Il tuo respiro diventa sempre più stentato, a tratti, sospeso.

Arrivano, finalmente, uno dei tuoi fratelli ed una delle tue sorelle, ti guardano :

 - Non credevamo che stesse così male …- dicono. Aurora è furibonda :  

- Adesso non ha più bisogno di nessuno – scandisce con acredine e conclude, poi, il medico che è in lei – È nella fase terminale.-

- Siamo troppi in questa stanza, gli togliamo l’aria. Via, via.-

 Mi sbatte fuori  strappandomi la mano che lo zio mi tiene forte per non farmi andare. C’è rabbia per il comportamento egoista dei fratelli e tanta pena per non poter fare più nulla. Questo lo capisco.

Manca, soprattutto, quel fratello, penso io, che molti anni fa ha cambiato tutta la tua vita .

 Soltanto mamma si è sacrificata fino a sentirsi male. È caduta, con te, per sorreggerti. Solo lei che aveva assistito papà per sette lunghi anni, fino alla morte, avvenuta appena qualche mese fa.

 Povera mamma, si è ridotta una larva. Non mangia più, non dorme. Ha lo sguardo allucinato e stanco, ma continua a lavare e a stirare la tua biancheria. Vorrebbe riportarti a casa, dice.

Viene tutti i giorni a visitarti, ma oggi abbiamo preferito farla andare via prima. Non vogliamo, Aurora ed io, che veda la morte. Abbiamo evitato di farla assistere a quella di papà, perché è terribile.

Io, che l’ho vista arrivare sul volto del mio caro papà, tutte le notti, piango.

Mi siedo in sala d’aspetto, a capo chino, e attendo.

Arriva la barella con gl’infermieri.

Arriva, dopo poco, anche il dottore e m’informa che è giunta l’autoambulanza.

Non c’è nessuno della famiglia e, perciò, lascio che i lacrimoni rotolino giù senza ritegno.

 - Allora, come d’accordo, facciamo un’iniezione, e diciamo a suo padre, che per ora, esaurite tutte la analisi, lo dimettiamo. Così, intanto, non sentirà più dolore e quando si sveglierà sarà già in viaggio.

- Non è mio padre. –

 Riesco a precisare con un fil di voce. Il dottore mi guarda, inter­rogativo.

 - Informi, prima, i fratelli, ora che sono arrivati. Io non ho il di­ritto di prendere decisioni senza il loro consenso. Sono solo la nipote. –

 I portantini procedono lesti verso la stanza, seguiti dal dottore.

 - Addio, Esseneto, e grazie ancora per la bambolina…….-

 

 

La crisalide

Mi hai detto di non entrare nella tua stanza, ed io non posso dormire pensando a te che te ne vai per il mondo.

È per il tuo bene ma il dolore è acuto, gocciola dentro ogni cellula, annega la ragione che annaspa per sapere cosa deve fare. La gola stringe e il nodo si fa sempre più stretto.

Il bisturi inferto con vigore nella mia carne, per due volte, prima di tagliare, fu atroce, quando tu nascesti.

L’anestesia non funzionò e la disperazione di non poter parlare, per via della maschera che mi nascondeva il volto e l’intubazione che occludeva la gola, mi fecero arrivare sull’orlo della follia.

L’ho guardata in faccia, allora, la follia e ne porto ancora, stam­pato dentro il ghigno.

Poter urlare ch’ero ancora sveglia, gridare di aspettare che l’anestetico avesse fatto effetto, prima di operare, avrei voluto, ma nessuno guardava i miei occhi sbarrati, disperatamente di­latati dal dolore.

E sentii staccarti dalle viscere, come sta succedendo adesso.

Poi la placenta strappata con forza mentre era ancora salda­mente annidata in grembo. E, ancora, i punti che bucavano en­trando e, poi, di nuovo, uscendo.

 Ventitrè, ne contai e, ad ogni punto, il cervello implorava basta e basta ancora ripeteva, roca, la voce, quando finalmente mi sganciarono la maschera e mi tolsero il tubo dalla trachea.

Ed oggi mi sanguina il cuore per il dolore che mi hai dato: non entrare, altrettanti colpi di bisturi sulla mia anima.

Invece io vorrei darti ogni mio pensiero, se ti servisse, ogni mio respiro.

Perfino l’esasperata sensibilità nel percepire le cose che mi sono intorno, se potesse esserti d’aiuto a superare questo mo­mento così angoscioso per te.

Non so cos’hai, non so perché. Scrivi e scrivi. Riempi pagine fitte con la tua bella grafia a stampatello, ma non oso leggere per non mancarti di rispetto, perché tu non vuoi.

Forse li, in quel quaderno, c’è la chiave dei tuoi tristi pensieri, del tuo tormento giovanile.

L’adolescenza è una malattia che bisogna superare   

È da questa crisalide che nasce l’individuo. E più soffre, più sarà prezioso, questo lo so, ma non riesco ad assistere, impo­tente, al tuo travaglio. Non devo intervenire, vuoi rimanere solo con te stesso, per capirti, per interrogarti, per ascoltarti interi­ormente.

Un singhiozzo, più prepotente degli altri, mi squassa il petto.

Ingoio e il nodo stringe ancora di più.

Essere madre, frase retorica che, per me, allora, non aveva significato. Bisogna crescere per capire e, capire, vuol dire soffrire.

 Oggi mi fai più tenerezza di quando eri bambino. Con il tuo corruccio che ti oscura il sorriso, quel bel sorriso che ti fa tanto amare.

Ma, non l’hai sentito il mio amore quando, caduto da Monte Antenne con la “Vespa”, quel motorino che non avremmo mai voluto comprarti, la notte prima dell’operazione, m’invocavi di non lasciarti solo, mentre, con il braccio straziato, ti dibattevi in quel dolore atroce?

 Mi promettesti, se non ti avessi abbandonato, da solo, all’ospedale, che mi avresti assistito tu, quando ne avrei avuto bisogno io…Come se avessi potuto barattarla quella mia soffe­renza di vederti in quello stato, con una utilità futura! Avrei uc­ciso, se me l’avesse impedito, quella meschina monaca che, credendo di mandarmi via dall’ospedale, mi aveva nascosto lo sgabello , costringendomi a vegliarti, in piedi, tutta la notte.

Come avrei potuto lasciarti?  Come hai potuto pensarlo?

Tu non lo senti ancora, questo amore ed io non posso gridarlo perché ci vuole discrezione nella muta intesa che dovrebbe le­garti a me, come quel cordone ombelicale che non voleva staccarsi.

 Guardo le foto della Prima Comunione, sembravi sereno, allora.
Poi qualche cosa si è rotto, colpa mia, della mia immaturità, che non ha saputo tessere quel filo d’intesa che mi ti avrebbe reso cara.

 L’inesperienza, il desiderio di trovare anch’io quella mano a cui aggrapparmi, per crescere, per sentirmi al sicuro. Forse è questa la causa?

Ma si è giovani proprio perché si sbaglia, proprio perché non hai ancora esperienza.

E d’ogni dolore, d’ogni delusione bisogna farne tesoro, per maturare, per dare a chi ti è vicino.

Stanotte sono qui, con le braccia piene d’amore e tu lo respingi ancora ed io non so il perché, ed io non so che fare…!

 Adesso che sei lontano, in America, chissà, forse potresti averne nostalgia.

C’è l’oceano di mezzo, metà globo terrestre ma, forse, potresti sentirti più vicino.

Vorrei aiutarti. Ma sai bene che sarai solo a decidere di trovare la tua strada.

Ti ho insegnato, con la mia vita, ciò che è bene e ciò che è male.

Non ho saputo fare altro…..Ma tu sei così fragile!

 Non potevo vederti lungo, disteso, come ti avevano “preparato”. Non è stata mancanza d’amore.

Volevo portarti nei miei occhi, per sempre, con il tuo bellissimo sorriso dolce e malinconico.

La solitudine a cui sei stato costretto per proteggerti dalla vio­lenza e dalle liti continue, al ritorno dall’America, mi facevano preferire saperti nella tua casa di Via Giorgi.

L’ultima cosa che ho visto su quel selciato, sono stati i tuoi ric­cioli ramati e morbidi, sempre profumati.

Volevo sollevarti il capo per guardarti in viso ma mi è stato im­posto di non toccarti, non muoverti.

Ci ho creduto. Avevo ancora la speranza, prima che il dottore, che si chiamava Costantino, come te, senza girarti, ti ha toccato la giugulare, il polso, di nuovo la vena, intrufolando le dita e so­stando ancora a lungo. Poi, ha scosso la testa.

 La spina dorsale era piegata di netto, sopra la cintura che ti eri fatto fare apposta, su tuo disegno, nel negozietto del “Vaccaro”  e avevi voluto che ti aggiungesse delle piumette come quelle dei Pellirossa.

Ricordo ancora come ne eri fiero quando me l’hai mostrato….

Avevo già capito…Ma ci spera sempre una madre!…

Il tuo piede sinistro, spezzato, quasi staccato dalla caviglia, contorto…

Forse avevi cercato di cadere il piedi Questo pensiero è stato avvalorato dalla statura segnata sul referto: Altezza: metri 1,74. Tu eri metri 1,86….

 Con il pensiero ti ho visto paralizzato, immobile, in un letto, come quel ragazzo che avevo visto in TV. Lo sguardo perso nel nulla e la madre che , ostinatamente lo imboccava…

 Se fosse capitato a te, di stare su quel letto, in quelle condizioni, Proprio a te che quando cadesti da Monte Antenne e ti rompesti la spalla e il braccio, in più punti , e rimanesti cinque ore sotto i ferri, per metterti i chiodi e ricostruire le fratture, mi raccoman­dasti di dire al dottore, prima dell’intervento operatorio, che non ti facesse rimanere una brutta cicatrice ed io lo pregai tanto di accontentarti. Sapevo quanto ti dispiacesse di rimanere de­tur­pato.

 Tutti si congratulavano con me per la tua avvenenza e le ra­gazze s’innamoravano di te. Sei sempre stato il mio orgoglio!

Avevi anche un grosso bernoccolo sulla testa ma mi dissero che non era preoccupante e non ti fecero neanche le radiografie al cranio, malgrado io insistessi.

Poi ci fu la seconda operazione per toglierti i chiodi e dovet­tero, tre mesi dopo, riaprirti la ferita

Non contento andasti a Napoli a farti fare una nuova operazione di plastica estetica Tre anestesie. Io ero contraria.

 Pensai a tutto questo mentre t’immaginavo come quel ragazzo completamente paralizzato, e pur desiderando disperatamente che tu fossi comunque ancora vivo, mi dissi che tu non avresti voluto mai vederti ridotto in quello stato. E mentre una fitta profonda mi straziava il cuore fin quasi a fermarlo, mi dissi, no, non potevo augu­rartelo, pur di tenerti con me.

Perciò, non ho voluto vederti, per l’ultima volta, sul catafalco o dentro la bara.

 So che Riccardo è andato a casa tua a sceglierti i vestiti, la cravatta, le scarpe.

 Mi hanno rimandato indietro, insieme alla catenina d’oro del tuo battesimo, l’orologio spezzato, fermo a quell’ora, il brac­ciale di rame che portavi al polso, e la cintura di cuoio che, per vestirti, avevano tagliato in due.

 Scegliendo la morte hai voluto abbandonarmi per sempre.

Hai rifiutato il mio amore che silenziosamente ti gridavo.

Hai deciso di strappare per sempre quel cordone ombelicale che per nove mesi ci ha legato, passandoti la vita, i sentimenti, i pensieri.

 Non sono riuscita a comunicarti quanto eri essenziale per la mia stessa esistenza. È rimasto solo il mio involucro, l’io non c’è più. È spento per sempre, annullato, come prima di nascere.

 Consumo questo ammasso di cellule giorno dopo giorno, fino al termine del ricordo che mi è rimasto di te.

 Le foto, gli scritti sofferti, gli episodi richiamati alla mente da quell’attimo, estremo. .

 Mi resta solo il tuo sorriso ,un sorriso, raro, spesso triste. È tutto quello che mi rimane di te.

 

                                                           la tua mammolina   


 

Stanotte, al faro

Montagne di parole per non dire niente.

Rumore noioso che anestetizza la mente

Non ascolto, il tempo è prezioso, preferisco seguire i miei pen­sieri, scandagliare i sensi.

Vivere soli, perché i passaggi della vita sono definitivi e l’intuizione dev’essere minuziosamente analizzata, essere per­cepita con la massima concentrazione.

Le parole distraggono dall’analisi crudele delle emozioni.

Interrogo la morte, ora che l’ho guardata negli occhi.

E’ dolorosa e feroce, nel suo spasimo, oltre ogni immaginazione.

Non ho mai visto nulla di così orribile, così inumano.

La sofferenza è talmente insostenibile che l’essere si annulla per non soffrire più.

Le connessioni cerebrali saltano perché non sono in grado di sopportarne l’indescrivibile patire dello spegnersi della vita, di ciò che è e che già non è più.

 


La sassifraga

Povero cane che cerchi una carezza. Nessuno guarda il tuo andare randagio nella vita.

Trotterelli con gli occhi umidi, scodinzolando, in una perenne richiesta d’amore.

Ti accosti, speranzoso, a me. Mi commuove la tua perpetua disponibilità. Ti faccio una carezza.

Allora, ti sembra naturale seguirmi e c’inerpichiamo, vicini, su per la rupe..

A volte mi precedi, a volte ti attardi annusando qua e là, poi mi raggiungi festoso, quasi per farti perdonare.

Mi volto a guardarti, ansimando felice della mia attesa.

Arriviamo su, in vetta. Scelgo un punto della roccia, meno aguzzo, per sedermi e ammirare il panorama.

Scopro che, proprio nell’angolo più comodo e riparato dal vento, c’è una sassifraga. La guardo pensando quanta forza c’è nella sua fragilità.

In fondo ci rassomigliamo. Tu, con la forza delle tue tenaci ra­dici, sgretoli la roccia ed io, nonostante la mia infinita malinconia, tento d’incidere la scorza di questa mia vita così aspra, così ostile.

 Il cane, che si è accucciato ai miei piedi, mi poggia il capo sulle ginocchia e mi guarda timoroso di essere scacciato.

Dovrei scostarlo, in effetti, perché un randagio, forse, ha le zec­che ma non ho il coraggio di farlo e lo accarezzo.

Si fa più ardito e, dimenando la coda, mugola di piacere por­gendomi la zampa.

Anche lui ha bisogno di un amico, penso, e gli gratto la testa. Per la beatitudine, chiude gli occhi.

Come farò dopo, ad abbandonarti? Gli sussurro sul muso.

Il cane, quasi leggendomi nel pensiero, mi lambisce la mano con la sua lingua.

Un pesante e frettoloso calpestio che si fa sempre più intenso e rumoroso, mi fa voltare.

Vedo gli arbusti piegarsi, un fruscio di foglie, sempre più vi­cino, ed ecco sbucare un cinghiale, con tutta la sua famiglia, che si sta dirigendo verso di me, minaccioso.

Resto immobile. Il bestione si ferma appena un secondo, poi, alla vista del cane, carica a testa bassa per difendere i suoi piccoli. Quando hanno i figli, diventano molto aggressivi.

Il cane, è di taglia grande, un pastore maremmano e, ai suoi occhi, una minaccia effettiva. Il suo ringhiare, mostrando le zanne, ne è la conferma.

Un trambusto di grugniti e latrati, contorna la zuffa feroce che si scatena fra loro.

La femmina ne approfitta per fuggire, con i suoi piccoli, nel folto del bosco. Poi, anche il potente maschio, sparisce nella stessa direzione.

Il pastore maremmano sta leccandosi le ferite, come un glorioso guerriero dopo l’attacco.

Un orecchio penzola, sanguinante, quasi staccato del tutto. Grosse ferite provocate dalle zanne, molto più potenti, dell’avversario, gli deturpano la pelliccia bianca dei fianchi.

È proprio malridotto. Si accosta a me e noto che, vicino all’occhio sinistro, ha un buco da cui fuoriesce molto sangue.

 - Andiamo, Galata - lo battezzo lì, per lì, e sorrido perché mi viene in mente il “Galata Morente” nella riproduzione della statua ellenistica vista al Museo Nazionale di Roma - Adesso, chi ti può più lasciare in queste condizioni! Hai bisogno di cure serie e di molto affetto. –

 Lo guardo e non posso fare a meno di ammirarlo. Non è una bazzecola uno scontro con un cinghiale di quella stazza!

Come se tu potessi leggermi nel pensiero, sollevi fiero la testa, trotterellandomi accanto, orgoglioso.

Per far prima, corro giù, verso la villa, passando per un viottolo secondario che ho chiamato “Fiore Di Roccia” e che porta ad un cancello laterale, tagliando un bel pezzo di strada.

Mentre ti disinfetto il pelo attorno alle ferite, mi rendo conto che, pulito, deve essere bianco ma che per la sporcizia ora ap­pare una via di mezzo tra il giallo e il grigio. Per il momento non posso lavarti, prima devi guarire. Mentre ti applico le “ farfalline “ ricavate dal cerotto e ti faccio male nell’accostare i lembi sfilacciati  dell’orecchio, tu mi guardi con i tuoi occhioni dolci, senza guaire.

 

- Sei coraggioso,! - gli dico, fissandolo, mentre lo accarezzo - Ecco, ho finito. –

 Quasi per ringraziarmi, mi lecchi la mano, poi ti accucci sul pavimento.

Un malato deve stare al caldo, penso.

Svuoto il grande cesto delle riviste, prendo un cuscino dal let­tino di plastica, sotto la pergola, e te l’adatto dentro.

Tu, mi guardi ma non osi entrarvi. Un vagabondo non è abi­tuato a tali mollezze, mi vorresti dire.

 - Su, vieni qui – ti incito  - Dai, entra nel cesto, Galata…-

 Guardandomi timoroso metti una zampa , pronto a ritrarla.

Ti faccio una carezza sul naso ma non è umido, scotta.

Nell’armadietto del pronto soccorso ci sono rimasti alcuni anti­biotici. Preparo l’iniezione.  

- Te la faccio.- ti dico – Non so come reagirai, ma devo fartela.- 

 Paziente, sopporti, poi ti accucci meglio, ti appallottoli e, con un profondo sospiro, chiudi gli occhi.

Finalmente ho trovato una casa, forse pensi, prima di addor­mentarti.    


 

Aghi di giaccio

Ruggero si muove cauto. I bagliori rossi dei missili illuminano a tratti la boscaglia. Piove sul sottobosco di rovi e le grandi felci grondano acqua creando macchie scure là dove fanno sciogliere la neve.

 Rannicchiato fra i cespugli, preme il pulsante di un cercaper­sone e resta in attesa del segnale di ritorno che non arriva.

Un capriolo, impazzito dalla paura, attraversa la selva poco lontano da lui e sparisce oltre uno sperone di roccia.

 Un grande boato e lo spostamento d’aria investe i cespugli in­torno all’italiano strappando le foglie e i rami più piccoli. La fiammata incendia il sottobosco. Qualcosa si muove tra le fiamme. Una sagoma scura  prende fuoco.

Un urlo di donna seguito dal pianto di un neonato. Ruggero corre verso di lei e la abbraccia. I suoi abiti zuppi di pioggia soffocano il fuoco. Spegne con le sue mani sporche di fango le fiamme che si sono appiccate ai lunghi capelli della donna.

 La pioggia scroscia sul principio di incendio e vince il fuoco.

Torna il buio fitto.

 Nevenka gli parla affannosa nella sua lingua. Ruggero non ca­pisce, ma le risponde con un tono di voce basso, cercando di rassicurarla.

La donna, la faccia sporca lavata dalla pioggia, è scossa da un singhiozzo. Il suo pianto  si mescola con quello del fagotto che  protegge col suo corpo piagato dal fuoco.

E’ un bimbo appena nato. Nevenka si tocca il seno e scuote il capo. Ruggero capisce:

 - Non hai latte… Troveremo qualcosa… non disperare.. met­tiamoci al riparo…-

 Nevenka indica il bosco ma una nuova esplosione incendia un alberello poco lontano. Ruggero la spinge verso lo spuntone di roccia dietro cui è scomparso il capriolo.

Le schegge fischiano tutt’intorno e si piantano nel terreno.

 La roccia sporge, coperta di radici, a protezione di una profonda buca. Il fondo è umido ma  protetto dalla pioggia.

Il capriolo si è accucciato nell’angolo più lontano, tremante. Non osa più scappare perché le esplosioni si susseguono e la boscaglia è punteggiata da incendi che gli scrosci temporaleschi faticano a spegnere.

Nevenka indica di nuovo il bosco. Ruggero le chiede:

 - C’è qualcun altro la fuori? Qualcun altro? – fa dei gesti e Ne­venka annuisce più volte. Gli mostra la mano sinistra con la vera matrimoniale.

- Oh! – annuisce Ruggero- là fuori c’è il padre del bambino.

 Si china a guardare il neonato: il piccolo, partorito da poco, se­guendo l’odore, cerca con la bocca avida il capezzolo della madre. I suoi occhi sono ancora chiusi.

Nevenka avvicina il capezzolo al suo piccolo che succhia per un po’, poi si stacca e strilla. Nevenka alza su Ruggero uno sguardo angosciato. Ruggero le ravvia i capelli strinati dal fuoco:

 - Adesso cerco qualcosa per il tuo bambino. - 

Si toglie la sua borraccia dalla tracolla e la apre. Estrae un col­tello da sub dalla fondina che porta agganciata alla coscia e si avvicina al capriolo che si ritrae terrorizzato. Lo accarezza sulla testa. L’animale lo guarda con timore, trema tutto. Ruggero scende ad accarezzarlo sulla schiena e il capriolo rallenta un poco il suo ansimare.

Ruggero gli blocca la testa e lo punge appena alla gola. Il capriolo scalcia ma l’uomo lo tiene fermo e raccoglie nella borraccia un po’ di sangue. Espone poi la borraccia oltre il margine del riparo, alla pioggia battente. Scuote la borraccia per far diluire il sangue del capriolo. Si strappa un lembo dalla ma­nica già lacerata della camicia, lo inzuppa nel liquido rosa della borraccia e lo passa sulle labbra del piccolo che lo succhia con avidità. Ruggero dà la borraccia alla donna invitandola a con­tinuare.

 Voci. Urla, Un latrare di cani. Poi spari. Molte raffiche.

 Nevenka si alza ma Ruggero la costringe a star giù. Si parlano solo con gli occhi e quelli della donna sono gonfi di pianto e disperazione.

Un’altra mitragliata, seguita da un urlo soffocato. Nevenka si libera dal braccio di Ruggero e si alza in piedi: un uomo barcolla nel buio e cade con la faccia nel fango. Nevenka dà il fagotto con il neonato a Ruggero e corre fuori. Gira il corpo dell’uomo e la pioggia lava il sangue che esce copioso dalla sua bocca. La donna lo chiama,  lo accarezza, gli solleva un poco il capo e se lo appoggia in grembo, ma lui non sente più. Nevenka resta accucciata così per molto tempo. 

Il piccolo piange e Ruggero gli dà di nuovo il lembo di camicia inzuppato di acqua e sangue da succhiare.

Le esplosioni sono cessate quando Nevenka torna nella buca, muovendosi con lentezza. Riprende il suo bambino e lo bacia.

 - Era … tuo marito? –  chiede Ruggero indicando l’anello d’oro che la donna ha al dito. Nevenka annuisce.

 Fa freddo. La pioggia è cambiata in neve e cade abbondante. La donna ha la febbre ma il bimbo ora dorme tranquillo. Si sono addossati al capriolo per godere del suo tepore.

 Viene giorno. I rumori del bosco sono ovattati. Ruggero raccoglie un po’ di neve sull’orlo della buca e la mangia. E’ un modo di bere che gli ricorda le gite scolastiche sulla Alpi in quello che sembrava un mondo di pace. Dopo l’orgia di sangue delle guerre mondiali, sembrava che gli uomini avessero capito.

E invece no.

A distanza di cinquant’anni tutto era ripreso come prima: vio­lenza, campi di sterminio, odio razziale.

 Deve andare. E’ già in ritardo. Altre vite dipendono da lui. Il freddo gli ha reso insensibili le punte delle dita dei piedi e delle mani. La donna con il suo piccolo rischiano di morire assiderati. Ma Ruggero non se ne può occupare adesso. Ha una missione da compiere. Si leva il maglione e lo dà alla donna, cerca di farle capire che deve andare ma che tornerà e che non deve muoversi dalla buca. La donna si stringe al capriolo che le lecca una mano.

 Ruggero striscia fuori. Si guarda intorno, non c’è nessuno. Dà un’occhiata alla bussola che porta al polso e si avvia in una di­rezione.

Un raggio di sole arriva a illuminare la buca. Il capriolo si scuote e salta fuori. Una sventagliata di mitra lo uccide. Facce crudeli si affacciano su Nevenka e il suo bambino.

Ruggero si è gettato a terra, striscia sotto un cespuglio di felci, incurante delle spine dei rovi.

 E’ una pattuglia nemica, anche se per Ruggero la parola non ha connotazioni di odio. Vede tra le fronde innevate i soldati che pungolano coi mitra Nevenka facendola camminare davanti a loro.

Si ritrae. Guarda l’ora. Segue a distanza i soldati cercando di non farsi né vedere né sentire. Si ferma ai margini di una vasta radura, non può procedere allo scoperto e li vede dirigersi verso i ruderi di una cascina bombardata. Pigia il pulsante del cerca­persone: riceve un debole segnale di risposta.

I soldati buttano Nevenka su un pagliericcio, uno la blocca e gli altri la violentano. La donna non ha alcuna reazione, lo sguardo fisso a quell’involto di stracci immobile a cui nessuno bada: suo figlio dorme o è già morto?

I soldati si scambiano battute grevi. Il bimbo riprende a piangere ma qualcuno chiama da fuori: ancora non sono stati trovati i piloti dell’aereo abbattuto due giorni fa e devono riprendere il rastrellamento. Uno spiana il mitra contro la donna, ma un suo compagno lo ferma: quando tornano potranno ancora divertirsi e farla divertire. La lega alle sbarre di una finestra.

 I due piloti dell’aereo abbattuto si sono nascosti lontani dal re­litto, ai margini della radura in cui avevano appuntamento con gli elicotteri in caso di un atterraggio forzato. Si sono coperti di foglie marce perché hanno visto dall’altra parte del prato due postazioni di mitragliatrici: non sono i soli ad aspettare gli elicotteri!

 Ruggero, da  dietro i cespugli, vede anche lui quelle mitragliatrici. Schiaccia il pulsante del cercapersone e il segnale di rispo­sta arriva forte e chiaro. Ha visto un movimento nelle foglie e striscia da quella parte.

 Il freddo della canna di una pistola alla nuca lo blocca: si volta è si trova davanti al faccione rubizzo di un giovane pilota ame­ri­cano. Un secondo pilota emerge dal cumulo di foglie marce e gli passa le mani sul corpo: l’unica arma che trova è il coltello da sub.

 Per farsi riconoscere Ruggero pigia il pulsante del cerca per­sone e un led rosso lampeggia sui bracciali dei due piloti. Lo abbracciano con gratitudine.

Il luogo dell’appuntamento con gli elicotteri è cambiato perché qualche soffiata ha messo in allarme il nemico: devono spostarsi di cinque miglia a nord, sul lato destro del torrente Irksut. Gli elicotteri passano due volte al giorno, all’alba e al tramonto.

 - Okay! Let’s go! – dice uno dei due dando una pacca sulla schiena di Ruggero, ma l’italiano scuote il capo: lui ha un’altra cosa da fare.  Lo guardano come se fosse matto: il bosco è pieno di soldati che cercano loro e troveranno lui.

Ruggero è irremovibile: una donna col suo bambino sono in pericolo, non può far finta di nulla. Uno dei piloti gli porge la sua pistola: vuol vincere la guerra da solo e con un coltello?

Ruggero rifiuta l’arma, ma il pilota gliela infila in tasca a forza.

  Keep it! You can throw it away, if you are a real asshole…- dice l’americano. Ruggero sorride, scuote la testa: lui non odia nessuno. In quella terra martoriata, povera gente uccide altra povera gente. Li hanno riempiti di odio, li hanno convinti che Dio e Allah sono due differenti dei, nemici fra loro, li hanno convinti che devono sterminarsi a vicenda: sono tutti vittime. Non ci sono carnefici. Bisognerebbe cercare di spegnere quell’odio assurdo.

I due giovani americani ascoltano ma non capiscono. Alzano le spalle: i nemici son nemici e loro sono pagati per ammazzarli. Al resto pensano i politicanti.

 Ruggero sorride e augura loro buona fortuna.

I piloti se ne vanno commentando fra loro che gli italiani sono tutti un po’ matti. Ruggero li guarda allontanarsi e poi seppelli­sce la pistola nella neve e si allontana.

 La boscaglia è rastrellata dai soldati nemici e Ruggero rischia più volte di essere preso. Riesce tuttavia ad arrivare al rudere della cascina in cui ha visto portare Nevenka e il suo bambino. Sta per entrare ma si deve nascondere perché sente il rombo di un motore: arriva una jeep con cinque soldati armati di mitra. Scendono e uno di loro getta imprecando la sua arma sui sedili dell’auto.

 Ruggero non vuole fare l’eroe e resta nascosto nella neve, die­tro un muretto diroccato. Sta per strisciare via quando sente Nevenka urlare: un grido spaventoso, come se la scannassero.

Senza ragionare, corre verso la cascina e dalla finestra vede due soldati che tengono ferma Nevenka nuda e altri due che si pas­sano il bambino come se fosse una palla da rugby. Il quinto beve da una boccia di slivovitz e ride. Poi si intromette nel gioco, getta in alto il neonato e lo centra in pieno con un colpo di pistola.

 Nevenka spalanca la bocca per urlare, muove un passo, barcolla e cade a terra priva di sensi.

Ruggero agguanta il mitra gettato sui sedili della jeep, spalanca la porta della cascina con un calcio e spara.

 I cinque, colti di sorpresa, cadono sotto i colpi e crollano a terra. Una pallottola ha ferito anche Nevenka, a terra svenuta. Rug­gero butta il mitra, la prende fra le braccia e scappa fuori. Non s’avvede che l’uomo, che ha ammazzato in modo così brutale il bambino, ha ancora la forza di prendere quel mitra.

 Ruggero corre verso la boscaglia ma una raffica lo coglie alla schiena. Crolla in ginocchio sulla neve e poi si accascia sulla donna. La vita lo lascia gelandogli lo sguardo carico d’odio.

Nevenka, sotto di lui, spalanca gli occhi sull’uniformità grigia del cielo. Prima che i ricordi tornino ad avere il senso straziante di quanto appena successo, un’ombra oscura cala su di lei.

L’ultima cosa che vede è la faccia feroce, sporca di sangue, dell’assassino di suo figlio che la sovrasta con una baionetta in pugno: la lama scura scende con violenza  e le squarcia la gola.

Il suo sguardo perde luce mentre aghi di ghiaccio si conficcano nei suoi occhi.



 

Vite separate

Dalia e Gardenia , due gemelle sopravvissute a un incidente di macchina in cui sono morti i genitori, vengono affidate dalla polizia, all’orfanotrofio di una piccola contea  nel Texas.

 Le due piccole sono state sbalzate fuori con tutto il porte-enfant  mentre la  macchina ha preso fuoco. Non ci sono parenti conosciuti e le due piccole, perciò, possono essere adottate. Ognuna delle neonate  porta al polso, inciso  sul braccialetto, il proprio nome.

 Una coppia  ha perso la figlia  ammalata di talassemia  e non vogliono correre altri rischi mettendo al mondo  un altro bam­bino destinato a morte prematura. Per questo vogliono adottarne una delle gemelline, una sola però, perché le loro condizioni economiche non sono molto floride.

La direttrice, considerato il caso pietoso, acconsente. 

Il genotipo di due gemelli monovulari è identico e anche il fe­notipo può essere talmente simile da renderne difficile l’individuazione agli estranei, tuttavia il cervello e la mente sono plasmate, durante la crescita, dall’ambiente, dalle emo­zioni, dai pensieri, quindi due gemelli possono sembrare iden­tici ma hanno personalità differenti. A volte molto differenti.

I genitori di Dalia si spostano dal Texas in California e Dalia cresce in una piccola cittadina americana vicino S. Francisco in un ambiente modesto.

Gardenia invece, tre mesi dopo, viene adottata da una ricca fa­miglia di Houston. Il padre fa lo scrittore e la madre la pittrice  che espone nelle più importanti città degli Stati Uniti d’America. Il loro successo li porta a trasferirsi a New York.

La madre di Dalia muore di cancro e il padre, per il dolore, di­venta alcolizzato. La figlia adottiva, in balia di sé stessa , co­mincia a frequentare piccoli criminali, spacciatori di droga e viene coinvolta in una rapina che termina in un omicidio.

 Decide di scappare di casa anche perché il padre è diventato manesco. Salendo e scendendo dai treni senza mai fare il bi­glietto, arriva a Los Angeles.

Girovaga da un quartiere malfamato all’altro frequentando ogni tipo di gente. Dorme in un sottoscala nei Watts. Poi un giorno vede Bob. E’ bello, è biondo. Dalia si innamora di lui e Bob corrisponde subito. Bob ha denaro perché traffica in eroina e Dalia non ha problemi ad associarsi con lui anche in questo.

La mancanza di denaro e il tipo di vita che conduce portano Dalia ad essere pronta a qualunque cosa pur di non essere più povera. Si è anche prostituita per un po’.

 Bob, che si inietta eroina tre volte al giorno, inizia a compor­tarsi in modo violento. Una notte si sveglia e la gonfia di pugni senza alcuna ragione. Sono colpi pesanti e Dalia urla, ma Bob non smette. In preda a una furia omicida infittisce la gragnuola dei colpi.  Dalia cerca di riparasi coi cuscini e le ca­pita in mano la pistola che Bob, quando dorme, tiene sul comodino, e gli spara.

Bob muore con un’espressione stupita sul volto.

Dalia va in bagno e si guarda allo specchio, ha il labbro sanguinante e il volto pieno di lividi. Si tampona la bocca con un clinex.

 - Ora sei una puttana assassina - si dice.

 Lentamente si pettina. Rimette il pettine nella borsa e lascia cadere il fazzoletto di carta nel cestino accanto al lavandino, dove ha gettato i rimasugli della colazione.              

Il labbro continua a sanguinare. Torna in camera e cerca nelle ta­sche di Bob le chiavi della macchina. Una goccia di sangue, nella foga di andarsene, cade sulla moquette.

L’addetto alla concièrge la saluta. Dalia si sposta i capelli a co­prire il volto. Esce nel freddo della notte e si dirige verso la macchina par­cheggiata sul retro.

 La polizia scientifica isola il Dna sulle tracce di sangue e sui capelli rinvenuti nella stanza.

L’impiegato ha descritto sommariamente la ragazza che era in compagnia del morto.

Gli agenti della Buoncostume stanno setacciando i marciapiedi  perché risulta schedata tra le prostitute e fermata per una notte .

 Intanto Gardenia, la gemella di Dalia, elegante, ben vestita, sta guidando la sua Mercedes coupé diretta al college. Guarda l’orologio. Ha tutto il tempo per un tè e una fetta di torta al primo fastfood .

Si ferma davanti all’autogrill, parcheggia e scende sgranchendosi le membra. Poi entra e ordina un tè e una fetta di torta. Chiede dove sia la toilette e la cameriera gliela indica.

 Un poliziotto seduto al banco si volta a guardarla ed ha un sob­balzo. Intanto un secondo agente avanza verso di lui asciu­gandosi le mani. I due confabulano poi uno si apposta davanti alla porta della toilette dov’è entrata Gardenia. Il secondo poli­ziotto si piazza sul retro

Quando Gardenia esce l’agente le chiede i documenti. Gardenia, stupita, gli dà la sua ID. Il poliziotto dà un’occhiata alla foto e poi le stringe le manette ai polsi, recitandole la formula di rito.

Gardenia lo guarda sbigottita .

 - Ma… che ho fatto?-

- Mi segua  in centrale, prego.-

- Ma perché? Ho parcheggiato male la macchina ?

- Lei è accusata di omicidio…-

- Se è uno scherzo …- non la ascoltano più, la spintonano fuori  e la caricano sull’auto della Polizia.

 Gardenia è frastornata. Viene trascinata nell’ufficio di polizia e fatta sedere davanti a una scrivania. Un capitano si siede di fronte a lei e la guarda a lungo.

 - Confessi. – le dice e tira fuori la foto segnaletica scattata a Dalia.

 Gardenia prende quella foto e la guarda stupita. Ammette:

 - Mi rassomiglia, ma… io non mi sono mai vestita così… e poi… - volta la foto e vede il timbro della Buon Costume -… ma questa sembra una prostituta! Che c’entro io…-

- Ha diritto ad una telefonata.  Intanto mettetela in cella. Dob­biamo chiamare il dottore della scientifica  per il prelievo  -         

- Mi lasci! Voglio il mio avvocato.- Gardenia cerca di divinco­larsi, ma è inutile e si ritrova chiusa in cella

 Nel Texas  c’è ancora la pena di morte: la ragazza che è stata riconosciuta da cinque testimoni, è condannata all’iniezione le­tale che ha sostituito la sedia elettrica.

 ***

Dalia, per  il momento si trova ancora in un motel del Texas ma ha già deciso di trasferirsi in Florida  e cambiare vita. Sta guardando la TV, mentre mastica patatine fritte. Apprende di essere stata condannata a morte.

 Subito decide di tagliarsi i capelli, farseli stirare e  tingere di un bel colore biondo platino. Poi, con i soldi rubati al suo ex amante, va a farsi fare una plastica facciale. Si rifà il  naso, siliconare gli zigomi e le labbra. Il suo aspetto, ora è totalmente di­verso. Nessuno potrà più riconoscerla.

 Intanto i genitori di Gardenia tentano invano di scagionare la figlia adottiva.

Tutti gli indizi portano a lei. I capelli e il sangue, corrispondono a chi  ha commesso il delitto.

Gardenia è stata trasferita nel braccio della morte. È stesa sul lettino dell’esecuzione. Le stringono le cinghie intorno ai polsi e alle gambe. Il dottore sta approntando l’apparecchio con le tre fiale. Gardenia piange disperata. Una guardia le sposta il braccialetto con il suo nome, è stato il suo ultimo desiderio, non se ne era mai separata e le hanno permesso di portarlo fino a quel momento.

 - Datelo ai miei genitori per ricordo. – singhiozza.

 La guardia ha gli occhi lucidi malgrado sia abituato alla morte.

 Il vecchio poliziotto in pensione, che aveva trovato il portenfant con le due bimbe, sta bevendo una birra davanti alla tv e ha un sobbalzo: ha riconosciuto uno dei braccialetti che portavano le gemelline quando, dopo l’incidente, le consegnò alla direttrice dell’orfanotrofio.

 - Le gemelle! quale delle due ha commesso il delitto ? –

 Si precipita al telefono e chiama l’ufficio del Governatore.

 - Sono due gemelle! Vi siete accertati chi delle due è colpevole? Sono due, capite, due uguali! -

 Gardenia sente il freddo dell’ago che le penetra la carne e sente l’anestetico che si diffonde nella vena. Una guardia grida:

 - Sospendete l’esecuzione, odine del Governatore!-

 Il medico, già con il dito sul secondo tasto si blocca appena in tempo, pochi attimi prima che il veleno penetri nella vena.


 

La controfigura

Jerry Frankylin, chirurgo estetico, assiste disperato alla morte di sua moglie Ginger, vittima di un aneurisma. Sconvolto, prende la macchina e si lancia a tutta velocità fuori dal cancello della sua villa, quasi a cercare la morte.

 E’ l’imbrunire. Gli occhi offuscati dalle lacrime, non vedono una donna in bicicletta che gli taglia la strada.

 La donna, presa in pieno, viene scaraventata sul selciato e batte la faccia contro un paracarro che la sfregia in modo orribile.  Il cuoio capelluto è quasi del tutto staccato dal cranio. Il chirurgo la guarda inebetito. Le ausculta il cuore. Il suo torace si solleva  appena nel tentativo di un affannoso respiro. Senza perdere tempo la solleva con grande cautela e la depone sui sedili posteriori dell’auto.

 Giunto a casa la stende sul lettino del suo studio-laboratorio privato attrezzato per la microchirurgia.. Le presta le cure più urgenti.

Ad un tratto, contemplando quella poltiglia di sangue  e carne che è tutto ciò che rimane del viso della sconosciuta, si ferma, corre nella stanza  da letto dove giace il cadavere di sua moglie e, con tagli veloci ed esperti , le stacca il volto e i muscoli adattandoli sul teschio sanguinolento della povera infortunata.

L’operazione dura sei ore  ma la donna è viva e respira bene. Ora riposa sotto morfina.

 Passa il tempo. La ragazza  non ricorda più nulla.

 Uno strano rapporto  si è instaurato tra i due. Jerry la chiama Ginger, nome di sua moglie e la donna colpita, per il trauma, da amnesia, dipende  psicologicamente da lui come un neonato. La personalità  che si è venuta a sovrapporre, coincide, suggerita abilmente dal dottore, con quella di sua moglie che non c’è più. Lui stesso, ora, confonde le due figure. Lei lo stringe e lo bacia come se fossero stati sempre insieme. L’amorevole assistenza di Jerry la rende felice. Oramai la cicatrice  è sparita sotto la sua folta  capigliatura

 

Di tanto in tanto, flash improvvisi la turbano ma lui la rincuora. Hanno avuto un brutto incidente, per fortuna lui è stato sbalzato su di un prato e, rimasto incolume, ha potuto soccorrerla subito.

La bacia con tenerezza sui capelli. A volte le parla del loro pas­sato che non ricorda: l’importante è che siamo ancora insieme…

Ma un giorno una canzone straniera le frulla in testa e lei si ri­trova a cantare in italiano:

 - Non ricordo dove l’ho imparato questa canzone ma mi piace tanto…..-

- La suonavano nel locale dove ci siamo conosciuti. –

- Ah!.  Ecco …- lo bacia fiduciosa  - Se non ci fossi tu!  Vedrai che un giorno mi tornerà la memoria.-

 Jerry la guarda di sottecchi, sospettoso.

 Un giorno, però, arriva un detective che chiede informazioni su una strada  dei dintorni e Jerry gliela indica. Il detective si attarda a chiacchierare chiedendo particolari sulla zona, su come si vive in quel posto, se Jerry è sposato, se ha figli… Jerry taglia corto e lo saluta, preoccupato per le  troppe domande.

 Il detective Burke raggiunge la sua  cliente Marta Marelli che l’attende seduta da Ghirardelli, un locale molto ben frequentato dove un italiano, molto tempo addietro , ha esportato la cioccolata calda con panna  divenendo uno dei miliardari più in vista della città . È il salotto di S. Francisco. Marta sta giusto be­vendo una cioccolata calda, quando viene raggiunta da Burke, il detective da lei assunto per  rintracciare sua figlia Alissa, partita per l’università di Berkeley e di cui non ha avuto più notizie da mesi.

Davanti a sé la donna dispiega una mappa. I due sono chini su di essa occupati a consultarla, studiano insieme un tratto di strada  cerchiandolo con una matita rossa. Sembrano due turisti qualsiasi.

 Per caso Jerry e “Ginger” prendono posto proprio accanto a loro, nell’unico tavolino libero. Di tanto in tanto il dottore con­sulta l’orologio, ha un appuntamento con una cliente per un in­tervento di chirurgia estetica.

Accavallando le gambe, la borsetta di “Ginger” scivola per terra vicino ai piedi di Marta che si china a raccoglierla e gliela porge, con un sorriso. “Ginger” rimane a guardarla attonita: quel sorriso le ricorda …lo ha già visto. Si pone una mano sulla guancia continuando a fissarla.

Si volge verso Jerry, poi  fa un sorriso triste e ringrazia, stende la mano per prenderla,  Marta ha un sussulto , sulla mano della  ragazza  nota un anello a forma di chiave di violino con al cen­tro uno  smeraldo:

 - È l’anello di Alissa ! – con la voce che le trema  chiede – Dove ha trovato questo anello ? !…Da chi lo ha avuto ? –

- Lo ho fatto fare tanto tempo fa…Lo ho disegnato io. –

 Alissa ha un ricordo improvviso, poi imbarazzata , guarda Jerry interrogativamente con un’espressione smarrita. Jerry intuisce che la situazione si va facendo pericolosa e interrompe la  donna dicendo frettoloso:

 - Vieni, cara , ho un appuntamento di lavoro…-

 Ha riconosciuto il tizio che gli ha chiesto l’informazione sulla strada.

 “È un tranello !” pensa  nervosamente. Prende per il braccio  Alissa e la trascina via quasi di forza . Marta grida : 

 - Alissa, Alissa…! – piange sconvolta.

 La ragazza si volta di scatto, sentendo quel nome:

 - Mamma, mamma !…- la sua voce si affievolisce persa in un confuso ricordo.

 Intanto il detective cerca di calmare la sua cliente che in preda ad una forte agitazione, farfuglia:

 - No! Ne sono certa , è mia  figlia…È Alissa…-

- Ma signora che dice; mi vuole spiegare  che cosa ha in co­mune quella signora con questa foto che mi ha dato per ritrovare sua figlia?…Suvvia ,si calmi È solo una strana coinci­denza…Sia ragionevole! –

- Ho riconosciuto la sua voce, è lei! –

 Anche Alissa è in preda ad un forte turbamento. Le tornano in mente cose vissute. Poi rivolta a Jerry: 

- Quel volto io lo conosco… È mia madre. Mi ha chiamato Alissa. -

- Cosa stai dicendo?!… tu ti chiami Ginger … Non ti lasciare sug­gestionare, i tuoi genitori sono morti quando avevi tre anni. Me lo hai raccontato tu stessa , ricordi ? … Su , andiamo. Ti ri­porto a casa, poi vado in clinica. Sono già in ritardo. -

 Le ravvia i capelli, le fa una carezza e la bacia dolcemente, poi la stringe forte al petto con un sospiro. 

 - Eppure io la conosco…- la donna si lascia trascinare  via  senza opporre resistenza.

 Jerry è in casa e guarda preoccupato  da dietro la vetrata della portafinestra che dà  sul parco, quando una sagoma sotto gli alberi attira la sua attenzione. Si nasconde dietro la tenda.

La sagoma oscura avanza, adesso è illuminata dalla luce. Rico­nosce, furibondo, Marta che sbircia da dietro un cespuglio.

Jerry tira le tende proprio mentre Ginger-Alissa  arriva con il vassoio del tè.  Mentre lei è di spalle, chiude la porta a chiave.

 - Voglio leggerti un bel libro. Andiamo nel mio studio.-

 Le cinge la vita con un braccio e la bacia sui capelli.

 L’indomani Jerry scopre, di nuovo nel parco, Marta nascosta tra gli alberi.  Interrompe la colazione. Si alza e la sorprende alle spalle facendola sobbalzare.

Deciso a cam­biare tattica, con fare gentile la invita a casa a prendere un caffè. Marta è imbarazzata, si scusa per l'intrusione ma Jerry è molto rassicurante:

 - Venga. - la prende sottobraccio poi, con una rapida spinta la butta dietro un cespuglio tenendole premuta una mano sulla bocca.

Marta cerca di liberarsi per respirare ma Jerry, la sca­raventa a  terra e le affonda la testa  sopra le foglie marce. At­tende fino a quando la donna smette di dibattersi e s’immobilizza. Quando Jerry solleva la mano, Marta ha gli oc­chi vitrei, spalancati e la bocca piena di foglie miste a fango.

Jerry è tutto sporco e sudato. Scava una profonda buca e sep­pellisce Marta. Con un ramo compatta la terra.

Aggiunge altre foglie che schiaccia con gli stivali da caccia. Infine, ancora ansimante, si avvia piano verso la villa.

Sono tre giorni che Burke è alla ricerca della sua cliente che sembra svanita nel nulla. Ha persino denunciato la scomparsa alla polizia locale. Al commissario che ha davanti, il detective spiega che la donna, in passato, aveva avuto turbe psichiche. Potrebbe aver compiuto qualche gesto estremo dopo la delu­sione di quel giorno in cui ci fu l’incontro con quella coppia conosciuta al Ghirardelli. Il poliziotto decide di andare con lui ad indagare se l’avessero rivista.

 Arrivano alla villa del dottor Jerry Franklyn.

La signora Ginger sta giocando nel parco con Lea, il suo cagnolino, addestrandolo a farsi riportare un legnetto. Quando li vede arrivare smette di giocare col cucciolo che trotterella scodinzolando. Il  dottore, chiude il giornale che stava leggendo, si fa avanti  dicendo a  Burke con un sorriso:

- In che cosa posso esservi  utile? –

 Guarda il poliziotto con curiosità che, togliendosi il cappello, gli chiede se in quegli ultimi giorni ha più visto la signora Marta Marelli.

 - No, perché ? – chiede con finta naturalezza.

- È scomparsa. - risponde Burke

- Non si è fatta sentire neppure per telefono ?

- No.- 

Si dirigono verso Ginger per farle le stesse do­mande ma Lea, il barboncino, la tira per l’orlo del vestito.

 - Buona, a cuccia!- ma il cagnolino non si ferma, continua a correre avanti e indietro nel tentativo di farsi seguire.

Burke e il poliziotto la guardano sorridendo mentre stanno per uscire. Il detective le fa una carezza. Lea felice di essere al centro dell’attenzione raspa sul mucchio di foglie rimosse, tira coi denti un pezzo di stoffa colorato, abbaia e mugola scuotendo con insistenza la testa finché riesce a strapparne un pezzo che saltellando depone ai loro piedi. Scodinzola, abbaiando, soddisfatta.

 - Ma che brava! – il poliziotto le gratta la testolina per farla smettere.

- Un momento -  interviene Burke - Questo è un pezzo del vestito che  indossava la signora Marelli…-

 Insospettiti i due seguono Lea che sta scavando una buca. L’odore che si sente in quel punto è nauseante. Il cane guaisce eccitato, scodinzola mentre continua a raspare furiosamente. Li incita a giocare acquattandosi, riprende a scavare fino a scoprire una mano.

Il detective e il poliziotto si guardano interdetti poi si precipitano a scavare e scoprono il cadavere di Marta  Marelli.

 

fine

  home        torna a "Chi è Mara Maryl?"                        torna a "i racconti di Mara"                                 torna a "che dicono di Mara"