Prime pagine de "IL LODO ALFA":

Tutto cominciò quella mattina nella calda Repubblica di Bananas, dove le televisioni avevano convinto molti cittadini che i veri delinquenti erano i giudici e non i ladri e gli assassini.

Molta gente, non usa a leggere libri e giornali, era ormai convinta che  il sole cadesse larghe falde sulle onde polverose del mare e vedeva commendatori verdi cinguettare saltellando di ramo in ramo.

Immersi in una realtà virtuale, a migliaia sommozzavano felici nelle fogne private del premier certi di essere ai Caraibi.

Vivevano allucinati e soddisfatti senza bisogno di droghe chimiche: era bastata quella televisiva, assunta un poco alla volta, giorno dopo giorno, anno dopo anno, per immergerli in un mondo distorto, cambiare i loro sogni e le loro aspirazioni: fare le veline, vincere soldi in un quiz, partecipare al grande Fratello era diventato lo scopo delle loro vite svuotate.

Dieci anni di droga televisiva erano riusciti a cancellare  ogni capacità di giudizio critico, ogni anche vaga pulsione morale.

Tantissimi sniffavano coca, soprattutto nel nord del paese, e pisciavano  nei fiumi. Poi la malavita, oriunda del sud,  filtrava le acque reflue per rivendere la droga agli stessi  pisciatori.

A chi aveva bevuto l’acqua di quei fiumi, credendosi celtico,   era venuto un coccolone.

 
Faceva pena soprattutto il capo clan, che molti chiamavano il Grande Puffo Verde, che si era vantato per anni di pulirsi il culo con la bandiera di Bananas e che, dopo una gran bevuta d’acqua di fiume,  si era ridotto a farselo pulire da una badante rumena che usava, per la bisogna,  la prima pagina del suo giornaletto verdognolo pseudo celtico.

A chi gli faceva notare che i Celti non avevano mai scoperto la scrittura, rispondeva con un’alzata di spalla (l’altra gli si era bloccata), commentando che loro non avevano ancora scoperto la lettura. E tentava di ridere con la bocca storta dalla paresi.

Guidava il Paese, eretto sui sovratacchi, un nano. conosciuto nel mondo come Al Cafone.

Era la terza volta che in un modo o nell’altro riusciva ad arrivare al potere. La prima volta aveva goduto del  fattore sorpresa e le soap opera che mandava in onda con le sue reti televisive avevano giocato un ruolo di primo piano nella formazione politica dei suoi elettori, ma  si era appoggiato troppo agli pseudo celti del Nord e quando se n’era accorto aveva cominciato a corromperli uno a uno, per portarli dalla sua fottendo il Grande Puffo Verde intento a misurare la durezza del suo cazzo contro i muri di Montecitorio.

Il difetto di Al Cafone era sempre stato l’esagerazione. Anche quella volta aveva cercato di corrompere il fido Colleoni e ci era quasi riuscito ma questo aveva messo in allarme il Grande Puffo Verde, come il fazzoletto di Desdemona. La furia dell’Otello nordico era stata molto spettacolare poiché aveva fatto percorrere ad Al Cafone tutto l’emiciclo parlamentare con grandi calci nel culo e una priapica minacciosa erezione.

Al Cafone si era salvato a stento dal randello naturale del Grande Puffo Verde ma era stato sfiduciato.

La rabbia del Grande Puffo Verde riempì il Nord d’insulti contro Al Cafone, gli aveva urlato nelle piazze che era un mafioso e un cappuccione, alludendo al fatto che, oltre al grembiulino, nella setta segreta di assassini a cui apparteneva, ci si metteva anche un cappuccione nero.

Poi il Grande Puffo Verde aveva bevuto troppa acqua dei fiumi e gli aveva preso un coccolone. Al Cafone era subito intervenuto con una cospicua somma di denaro a dargli una mano e il Grande Puffo, ormai sbiadito da verde pisello a giallo limone e diventato Puffino il Breve per i suoi e Giuda Puffo per gli avversari, prese i soldi e dichiarò con la solennità spudorata permessa solo agli ignoranti, che Al Cafone era il più grande statista del Novecento. 

Ci vollero mesi per fargli capire che il Novecento era finito e che si era nel terzo millennio. Dire che Al Cafone era il maggior statista del terzo millennio sembrò perfino a Puffino il Breve un po’ esagerato.

E poi c’era un altro che aveva detto la stessa cosa sul precedente duce di Bananas, che aveva dominato il Paese tanti anni prima portandolo alla guerra civile: era Gianbenito, capo dei neofascisti di Bananas.

Così Puffino il Breve aveva ripiegato sulla definizione “Ce l’ha duro”, che gli era sembrato un titolo più durevole, ma si era sbagliato e se n’era accorto quando neppure la ministra delle Pari Opportunità era riuscita a dargli la pari opportunità.

Disperata la ministra aveva telefonato alle amiche più esperte: come fare gli orali quando viene a mancare l’argomento?

Le amiche le diedero i suggerimenti più diversi: la passeggiata della mosca senza ali, la profonda aspirazione a un mondo migliore, il perfezionamento della lingua, la disposizione a prendere.

Il caso era disperato ma non si doveva sapere, ma nella Repubblica di Bananas tutti erano all’ascolto di tutti e le intercettazioni telefoniche  passavano di bocca in bocca.

Così il test orale per diventare ministro divenne di pubblico dominio, ma non ci fu scandalo, molti cittadini sospirano solo un “beato lui” e la così finì lì.

Il nano aveva due ossessioni: il diametro della sua palla di stercosoldi e la propria pelata.

Le aveva provate tutte, sia per ingrandire il diametro della palla merdosa,  che per farsi ricrescere dei peli sulla cotenna.

Era stato rieletto una seconda volta e ne aveva approfittato per ingrandire la sua palla di stercosoldi e impiantarsi altri peli sulla cotenna.

 


Sdoganando i neofascisti di Gianbenito il nano aveva ottenuto molti voti il capo dei neofascisti di Bananas aveva deciso che ormai era più conveniente  dichiarare che il duce era stato il male assoluto.

Gianbenito l’aveva detto con la stessa faccia, l’identica faccia, di quando affermava che era stato il maggior statista del Novecento: nessuno aveva fatto una piega.

Quella legislatura era passata alla storia come quella dei trenta morti ammazzati e dei due lifting. I trenta morti ammazzati erano stati il tributo pagato allo strabico presidente degli Stati Uniti che ogni tanto dava una grattatina sulla testa di Al Cafone, un po’ distratto, come faceva anche col suo fox terrier, chiedendo ogni volta come diavolo si chiamasse e chi fosse quel piccolo zelante leccapiedi che gli faceva la pedicure con la lingua, e i due lifting erano stati il disperato tentativo di cancellare la cellulite che a certa gente viene sulla faccia invece che sul culo.

Aveva avuto un buon successo con la palla, ma per la cotenna  era stato un disastro. Anche il trapianto dei peli del cazzo, che sulla sua faccia si sarebbero dovuti sentire a loro agio, si erano rifiutati di attecchire e allora aveva ripiegato su una rigogliosa messe di peli sintetici incollata sul cranietto da microcefalo. Spesso usava lo spray dei writer. Non poteva presentarsi nei consessi internazionale a cranio nudo. Aveva l’impressione che tutti ci avrebbero paccato sopra ridendo e  scoperto il posto più vuoto del cosmo, un vuoto di punto zero, senza quell’energia oscura che porta all’inflazione continua.

Così gli aveva detto il sapiente Gianni, il fido consigliere, capo segreto della loggia dei cappuccioni che operava nel ricco business della sanità pubblica e dei rifiuti tossici aprendo e chiudendo enormi cicatrici nella carne e nella terra.

Al Cafone non capiva nulla di energia oscura e d’inflazione cosmica e neppure di energia pulita e inflazione monetaria. Purtroppo non capiva nulla che non riguardasse la sua palla di stercosoldi e la sua pelata.

Ma su questi due argomenti era imbattibile: corruzione, mafia, soldi sporchi, bilanci falsi, calunnia, spergiuro, assassinio, non si era mai tirato indietro e si era battuto come un leone per non andare in galera, insultando come una iena i magistrati che avevano provato a mandarcelo.

I cittadini anche avrebbero dovuto mandarcelo da un pezzo, ma il plagio televisivo li aveva fottuti e quando quello non bastava c’era sempre il ministro degli interni Luccanu, uno che era stato mandato via dal parlamento perché corrotto, e quindi diventato uomo fidato di Al Cafone.

Ma si sa come sono i mascalzoni, poco bravi in aritmetica, e così nello riempire col nome di Al Cafone tutte le schede bianche, il povero Luccanu sbagliò di venticinquemila schede.

Rimasero famosi gli ululati di Al Cafone a notte fonda contro il povero Luccanu:

- Che cazzo di ministro degli interni sei se non riesci a trovarmi altri venticinquemila voti? –

Luccanu non li trovò e il povero Al Cafone perse le elezioni, ma non si diede per vinto: raschiando la superficie della sua palla di stercosoldi poteva racimolare qualche miliardo e comprarsi un po’ di senatori.

Cosa facile, dato il livello morale dei parlamentari nella Repubblica di Bananas: a uno diede la presidenza di una commissione, all’altro una promessa ministeriale, a un terzo una parte alla moglie attrice. 

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