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                                                                                                            I Quaranta belanti                                         

 

Lettera all'Editore

Roma, settembre 1974

Caro Lischi, 

fato avverso non mi ha permesso di arrivare in Corsica! Ricevetti la Sua lettera col programma Pivieri appena in tempo e subito feci vela per S. Marinella imbarcando il mio ultimo pargolo vecchio di ben tre mesi. Avevo accuratamente predisposto le tappe in modo che senza troppa fatica per il nuovo marinaio e il mio secondo-balia sarei dovuto approdare a Campoloro al più tardi lunedì 5 agosto, ahimè, ultimo scorso.

Prevedevo tappe a Santa Marinella, Giannutri, Montecristo. A Santa Marinella arrivo all'imbrunire e ormeggio in rada .

Non conoscendo le " scogliere " che fungono da banchine nel porto che un vistoso cartello avverte come " impraticabile ". Tutto bene, pappa al capitano, pappa al pupo e a nanna. Alle quattro in punto apro un occhio sotto la spinta di una impellenza fisiologica e annaspo fino al cubicolo apposito. Accendo la luce, anzi cerco di accendere: un fioco rosso inonda la lampadina e smuore. Insonnolito e perplesso. Poi mi felicito perché ho la batteria di scorta sempre disinnestata. Innesto e accendo la luce: seconda triste agonia rossastra nella lampadina. La cosa mi sveglia del tutto. Senza neppure muovermi, seguendo il filo di un ragionamento stringente deduco che c'é solo una cosa che pub mettere contemporaneamente a terra due batterie: una innestata e l’altra no... cosa? Ma l’acqua di mare! Sollevo i paglioli: il mio bel dieselone naviga come un capodoglio in sentina con le narici fuori e l'onda sciacquetta sui poli delle batterie, senza distinzione tra quella d'uso e quella di riserva. Realizzo nella fosca alba che in quel pezzo di sentina, stagno rispetto al resto della barca, dispongo solo di una pompa elettrica. Maledicendo, la pigrizia che mi ha impedito durante l’inverno di montare la pompa a mano (che pure ho in un gavone) mi dò al secchio. Due ore dopo il capodoglio è quasi di nuovo in secca mentre io sono in rotta sbracato a pagliolo.

Ma l'allegro chiocciare dell'acqua che zampilla in sentina dall'astuccio dell'elica sprona l’anima a cose immediate. Mentre io secondo si sveglia di soprassalto chiedendomi cosa diavolo stia facendo alle sei di mattina su e giù per la barca, io armo il pram e scoreggiando a quattro cavalli arrivo a riva. Dove c'é un bar fin dal 1939. E da allora in poi c'è rimasto sempre solo quello, ma io di quello conosco vita morte e miracoli perché devo passare un paio d'ore col padrone a bere collane di cappuccini in attesa delle otto, ora in cui dovrebbe arrivare Paolo che è il padrone del " cantierino ".

Infatti a ben guardare c'é una barchetta di tre metri in costruzione su quattro, palanche a due metri dall'acqua. Io penso al mio capodoglio, che si starà di nuovo immergendo e sto in ansia. Le otto e poi le otto e mezza. Paolo non arriva e allora io vado a cercare Paolo. Dorme. Il sole già picchia quando finalmente viene a darmi un'occhiata. Porta una batteria 24 volE’per darmi 1'eventuale schicchera. Eventuale perché non parte più niente, men che meno il motore. A mezzogiorno il capodoglio ha perso l’elettrocalamita dell'avviamento avviata verso un elettrauto per la sostituzione e io comincio a perdere la speranza della Corsica. La Sgnuffi viene ingloriosamente trainata presso il cantierino. Alle cinque del pomeriggio la nuova elettrocalamita torna al suo posto: siamo tutti elettrizzati: partirà il motore? Purtroppo restiamo gli unici elettrizzati perché il capodoglio non si elettrizza per nulla. Paolo comincia a trafficare perplesso. Bisogna esaminare l'impianto elettrico. Lo schema non c'è mai stato. Bisogna seguire i fili. Li seguiamo e appuriamo che apparentemente il capodoglio non avrebbe mai dovuto avere corrente perché il polo negativo termina a paratia e non ha nessun collegamento visibile. Assicuro Paolo che il capodoglio gira da tre anni. E’ incredulo. Prova e riprova, poi si accorge che il circuito è fatto al contrario e la corrente prima va al motore e poi al quadro: artisti toscani! Finalmente il capodoglio gira e permette il succhio elettrico delta pompa che mi libera dalla schiavitù del secchio e, vuotando la fonda sentina, permette di godersi in pieno il gorgoglio dell'acqua fresca che entra.

Paolo si infila fin contro l'astuccio: la mia speranza è tutta sul premistoppa, ma quando Paolo emerge capisco da solo che il premistoppa preme ed é innocente. Ahimè, l’acqua entra tra la carena e l’astuccio dell'elica. Bisogna tirare in secco la barca. A Santa Marinella naturalmente non c'è lo scalo. A Civitavecchia c'è ma essendo sabato se ne parla lunedì. Il più piccolo marinaio di Santa Marinella frigna. Motore acceso, pompa di sentina accesa, volto la prua verso Fiumara e così ridiscendo avvilito e disperso quelle onde che avevo salito con tanta orgogliosa sicurezza.

Poi a Fiumara sono successe cose turche ma questo esula già dal Fato Avverso che mi ha impedito di stringerle la mano a Campoloro.

Ecco, la lunga pappardella a mo' di giustificazione per l’assenza.

Immagino che tutti voi invece ve la siate goduta follemente a Campoloro e dintorni e questo aumenta la mia malinconia: ho riposto in un gavone le bandierine gialle e rosse che mi ero confezionato e ho ributtato in un cassetto i passaporti che, avendoli dimenticati a Roma il giorno della partenza, mi costrinsero ad una corsa supplementare di cento chilometri in macchina per tornare a prenderli... ma era destino che dovessimo invece prendercela nell'apposito astuccio. Pazienza.

A lei e a tutti i fortunati naviganti, con le barche sempre in perfetto ordine che possono andare in Corsica quando vogliono i miei più invidiosi saluti.

Ernesto Gastaldi

P.S.: mi scriva almeno un bigliettino di condoglianze. Grazie.

                                                   I Quaranta belanti                                               

IL MARE IN SALITA

A otto anni non avevo ancora visto il mare.

Credevo che fosse in salita perché mi dicevano che più si andava avanti e più l’acqua diventava alta. Così il mio mare era tutto in salita con un bel ricciolo di spuma lontano verso il cielo. Ma a otto anni coi sottomarini inglesi che sparavano su San Remo scoprii che l’acqua del mare era tutta al livello del mare tranne qualche volta che soffiava il vento e allora si alzava un po', ma a tratti, mica tutta insieme. Avevo scoperto anche le onde. Bislunghe e rotonde come diceva un amico di quei tempi beati.

Trenta giorni di noia su una spiaggia semideserta a guardare mio padre che faceva le sabbiature. No, la voglia di mare non nacque mica lì.

La seconda volta che vidi il mare di anni ne avevo diciotto e mi ricordavo benissimo che non era l’acqua a diventare alta ma il fondo a diventare basso. Ma ci feci appena caso perché non era per il mare che ero andato a Chiavari, ma per via di una gran cotta per una compagna di scuola che passava là le vacanze.

Nuoticchiavo perché avevo imparato nelle fresche (gelide) acque dei torrenti alpini e vidi un ragazzone biondo che andava su e giù con un buffo arnese a molla e portava su pesci e polipi infilzati. Ci feci appena caso perché la mia compagna di scuola aveva messo un costumino bianchissimo ed era bene abbronzata: cosa che mi metteva addosso una inconsueta voglia di mordere.

No, la voglia di mare non nacque neanche allora. La terza volta fu ad Ostia. Vivevo in quegli anni alla ventura ed era già un problema trovare il grano per la metropolitana. Si partiva. da Termini e si arrivava ad Ostia ma tutti parlavano del prolungamento che avrebbe servito il centro della città.

Se ne parla ancora.

Si arrivava sul piazzale in duemila per volta e si correva disperati agli stabilimenti che si ponevano come insuperabile barriera tra i romani e il mare. C’era anche un tratto di spiaggia che serviva per lo scarico delle immondizie solo che ci avevano piantato un cartello che diceva "spiaggia libera".

Niente plastica ancora: tutti avevano, quelle belle carte oleate piene di mortadella che il vento portava con la sabbia sulla pelle bianchiccia dei fortunati sudati che erano riusciti a conquistarsi un posto al sole, dando finalmente concreto significato al vecchio slogan. Un benefico massaggio e Polio di mortadella era meglio, di quello solare.

Sul mare di Ostia galleggiavano, galleggiano, e galleggeranno, i prodotti finali dell'umanità, ed un mio amico di quei tempi beati poteva declamare stando nell'acqua fino, alla cintola: povera umanità dove si perde, nel mare delle urine e delle merde!

No, la voglia di mare non nacque neanche a Ostia. Forse fu al Circeo nel sessantuno. Ma non credo interessi la Storia e quindi non documento. Fatto sta che nella mia biblioteca c'è un numero di Nautica del sessantaquattro. Sfogliarlo è sempre bello: la nautica (quella con la " n " minuscola ma che conta di più, non era ancora popolare, la vetroresina si affacciava timida e si chiamava vetro poliestere e stonava tremendamente in mezzo alle barche tutte indistintamente in "legni pregiati". La nautica non era popolare e infatti Nautica costava 500 lire e faceva pubblicità a barche e vela di otto metri che costavano, due milioni. Roba da nababbi! Meno male che poi c'è stato il boom e la scoperta che la nautica è un fenomeno altamente sociale. Così adesso, con due milioni ci si paga più o meno l’abbonamento a Nautica.

Credo che il galeotto sia stato il Saetta B. Quel bel fucilone a molla terrore di pesci e bagnanti sugli scogli favolosi del Circeo. Ma mentre i bagnanti rimasero sugli scogli, i pesci, più furbi, cominciarono a disertarli e cosi, pinne ai piedi, spinnate della madonna per andare a cercarli sulle secche un chilometro fuori. Niente. Era ormai chiaro che serviva una bufala di cosa che galleggiasse fino alla secca, non tanto per risparmiarmi le spinnate, quanto per risparmiarmi le lamentele della famiglia.

Naturale che col passare degli anni uno si faccia una famiglia... Se poi ha l’incredibile fortuna di sposare una gran bionda, disegnata come uno stradivari, che fa l’attrice di cinema, proprio non può lasciarla per troppi giorni a lamentarsi su degli scogli lontani un chilometro e mettersi anche quindici metri d'acqua sulla testa. Meglio imbarcarla su una bufala di cosa galleggiante e tirarsela sulla secca. Dato che per prendere aria si deve venire su, le si dà una guardata: rassicurante e ritemprativa.

Tirarsela sulla secca: è una parola. Il Laros Otto pieno di piombi, pinne, fucile, muta, coltelli, maschera e poi accappatoi, o1ù solari (finiti i tempi della cartuccella!) costumi di ricambio, figlia nata nel frattempo eccetera coi remi proprio, non si muove. Dopo aver rotto per due volte gli scalmi fu d'uopo, comprare una bufala di cosa che spingesse. E così arrivò il sei cavalli Johnson. Adesso andare sulla secca era uno spasso. Uno spasso che cominciava dal momento in cui il canotto era in acqua e il motore stretto allo specchio, di poppa.

Prima invece era facchinaggio. Roba da tempi durissimi. Mica atmosferici! E chi lo sentiva allora Bernacca o il Meteo? Dalla scogliera alla secca era senza dubbio mare quello che c'era in mezzo, ma per me "il mare" era quello che stava sotto le onde e che poteva presentarsi in due sole condizioni: con pesci o senza pesci. E questo non c'è barba di bollettino che lo dica perché nessuno ci ha ancora capito niente.

Dicevo, facchinaggio da tempi duri perché le scogliere del Circeo sono tutte fatte di sassi e roccia messi in modo piuttosto irregolare e mal si prestano ad essere scese e salite col saccone blu del Laros smontato nella sinistra e la destra aggrappata disperatamente alla calandra del sei cavalli Johnson che sta cercando di scavarsi un buco proprio sulla clavicola. La bocca serviva abbastanza bene per reggere il soffietto, ma era imbarazzante quando la giovane e morbidetta moglie gorgheggiava in bilico su un sasso: non mi dai la mano?

E se non trovavo subito una mano da darle c'era sempre qualche fustaccio in minislip rinforzato che gliene dava due: una in mano come richiesto e l’altra. sui fianchi clessidrici nudi. Per aiutarla meglio, naturalmente. D'altra parte meglio che mettessero la mano dov'era nuda, perché quel poco che teneva coperto era molto delicato.

Lì per lì trovai anche la soluzione: la Sgnuffi arrivava leggiadra Sul bordo della scogliera e io le depositavo intorno Laros, motore e borse, poi mi appiattivo dietro un sasso. Oh, la Sgnuffi é lei naturalmente, la biondona tutta curve supermolleggiata che chissà come ho vinto alla lotteria del matrimonio; allora la Sgnuffi fingeva (recitare è il suo mestiere) di sollevare l'incredibile borsone blu del Laros, definito dal venditore come incredibilmente comodo (ho capito, dopo il senso recondito di quell’incredibilmente), comunque lei fingeva di sollevare e subito una torma di gentiluomini in minislip accorre- va per esibire i muscoli esibibili e in un baleno il canotto veniva trascinato in acqua bello gonfio col suo motore fortemente serrato sullo specchio, di poppa... allora spuntavo io, in alto, con un leggiadro, saluto alla bionda, come se arrivassi in quel momento: iuuh! Uuh!

Le scogliere del Circeo hanno un bel ricambio di minchioni ma non col ritmo richiesto dalla mia passione sub e così feci il terzo passo: A Laros sarebbe restato sempre bello gonfio e col motore ben stretto sullo, specchio di poppa. Come? Dove? Perbacco, al Circeo da alcuni anni si era iniziata la costruzione di un bellissimo porticciolo turistico!

Fu così che incontrai le barche e i loro custodi. Quando vi capita di fare un giro, in un porto da diporto osservate la pena che fa un canottino di tre metri ormeggiato tra due "barche". Se pensate ancora che barca significhi proprio barca, allora troppi ne dovete ancora fare di giri nei porti da diporto.

I custodi delle barche sono persone (sì, sì, persone!) molto disgraziate. Gli tocca di star a guardare tutte quelle belle barche e al massimo, ma proprio al massimo, possono fregarne una per qualche ora, quella di quel tale che certo oggi non viene e che poi invece viene e sbraita come un pazzo in banchina. Si vede che non ha letto le norme del galateo marino, così propagandate da tutte le riviste del settore.

In ogni modo i custodi del Laros furono sempre estremamente gentili e mi resero il canotto tutte le volte che glielo chiesi senza mai indispettirsi, anche quando magari lo stavano usando per sbarcare una carico di mattoni venuto via mare. Veramente persone squisite: si offrirono sempre di riempire il serbatoio che avevano, vuotato e la miscela aveva già il prezzo di adesso. Erano dei precursori dell'unione del mondo arabo e anticipatori dell'austerity.

Per tutto questo io pagavo soltanto dodicimila lire al mese. Sparirono i remi, è vero, sparì anche un serbatoio e il soffietto, ma non potevo pretendere che quei poveri ragazzi stessero giorno e notte con gli occhi appiccicati al mio misero gommone, come loro stessi mi fecero osservare con ogni possibile grazia.

Ma ormai mi ero scafato e in autunno prelevai un paio di remi da uno sfortunato vicino, un serbatoio da un secondo e un soffietto da un terzo in modo da dividere le disgrazie sul maggior numero di persone possibile e impacchettai il tutto. Visto poi che durante l'intera operazione nessuno si fece vivo, me ne andai senza pagare la guardanìa e col desiderio malvagio di passare dai carabinieri per denunciare A furto di gommone e motore. Ma soffocai tale malvagio pensiero anche perché A maresciallo mi spiegò che il porto non esisteva.

- No, ma guardi che c'é, eh? - timidamente osservavo io cercando approvazione e conforto nei grandi cenni biondi della mia sexy consorte.

Ma il maresciallo rispondeva con decisi cenni calvi come palle da biliardo. Categorico: il porto non c'é. E’ in costruzione ma agli effetti legali non c'é. Quindi un porto che non c'é non può avere guardiani e se non c'é porto né guardiani io al più potevo sporgere denuncia contro, ignoti ma con l’aggravante di avere abbandonato senza la cura del buon padre di famiglia, beni mobili deperibili asportabili e non assicurati. Insomma roba che se i ladri non ruba- vano li avrebbe schiaffati dentro.

Ormai avrete capito il meccanismo. Aggiungeteci una sventolata con allagamento del Laros e doccia gelida relativa, immaginate una preziosa cipria impastata a pagliolo coi biscotti del pupo nato nel frattempo (be’, ti capita una biondona alla chitarra e non la usi??), una valvola che comincia a perdere, il ragionamento suonante press'a poco "a che cavolo serve un gommone sgonfiabile e smontabile se poi non lo smonti mai" e avrete, la grande spinta che porta il neofita dal gommone alla barca barca.

Naturalmente si passa da Genova. Si passa e si ripassa, un anno, dopo l’altro. Intanto si leggono, le riviste e si collezionano depliant. Magari un Bora. Però c'è quell'amico dei tempi beati che ha dovuto venderlo perché la moglie si è ammalata di sinuite. Sinuite? Sì, a forza di cucinare in ginocchio. Un Bora un po' più grande. Ma se non hai i soldi nemmeno per quello piccolo? A proporre non costa mica.

Andrebbe bene quell'Ecstasy anche se ha quella "c" in più. Ma la "c" sta sempre per "che cavolo dici" visto che vogliono, una decina di milioni. Ma quello dice che poi le bar- che aumentano. Che scoperta, visto mai che siano calate? Si potrebbe ripiegare sull'Eros. Be’, proprio, ramicino, allora guarda è meglio, il Laros.

E via per un'altra estate. Ma ormai sui quindici metri si pesca poco. Qualche saragotto sprovveduto. Una spigola raminga da un chilo fa già storia. Ci vorrebbero le bombole. Ma siamo ormai in quattro, e tutti con bagaglio appresso. Già non plana più.

Il porto continua a non esistere ma intanto è sempre più pieno di barche barche. Ce n'é perfino una sventrata sugli scogli. Doveva essere bella, nominandola da viva. Anche sconciata col ventre aperto e le costole fuori fa la sua figura.

E’ stata la mareggiata di novembre. Aveva ragione A maresciallo dopotutto: il porto non esiste. Il mare passava, sopra il molo di sopraflutto come se avesse equivocato il senso della parola.

I guardiani c'erano. Ma il padrone della barca (skipper lo abbiamo imparato dopo) non aveva pagato. E i guardiani hanno, guardato, mentre la grande barca veniva sugli scogli trascinandosi dietro i corpi morti a cui era ormeggiata. Dicono che ci abbia messo sei ore e che quelli che hanno mosso un dito sia stato solo per ficcarselo nel naso.

Pensare che io una barca la salverei anche se fosse del programmista della televisione: come si fa ad aspettare col dito nel naso che una barca sbatta contro gli scogli, sentire il legno che scricchiola, che urla e si schianta, le ordinate che gemono sotto le martellate dei frangenti e poi il crollo, degli alberi, giù, con l’orgoglio di tutti quelli che amano il mare. Mah!

Le riviste del settore cominciarono a dire peste e corna dei motori a benzina e della velocità. Chi porta in mare la mentalità dell'autostrada è indicato come un povero cafone rimbecillito. Non perché non lo sia anche in autostrada, ma perché nel mare si può nascondere meno. Il diesel é un'altra cosa. Infatti lo é: la stessa barca col diesel costa una milionata in più. Perché con le macchine non è lo stesso? La Mercedes diesel per esempio costa solo centomila lire in più della stessa versione benzina... Uffa! Il venditore ti guarda come se fossi un verme col vomito: non bisogna affrontare il mare e il salone di Genova con mentalità automobilistica. Ancora una domanda così e i venditori intoneranno in coro, puntandoti il dito addosso: la montanara, ueh! Si sente cantare...

Fortuna che non hanno tempo perché devono correre a mostrare il cesso alla signora.

La storia del cesso la notai fin dal mio primo salone: sarà il mal di mare, sarà che la clientela di Genova é diarroica, ma tutti corrono per prima cosa a vedere il cesso. E naturalmente costruttori e venditori si adeguano subito e riescono ancora a vendere certi cessi di barche...

Ma la cultura nautica ormai incombe. Siamo, all'alba degli anni settanta. C'è perfino chi comincia, a sbirciare le vele. Io no. Il mare continua ad essere soprattutto sott'acqua e là vele non se ne sono ancora viste.

Faccio l’occhio all'Albin 25. Mica male. Intanto ha il diesel che va piano sano e lontano. Poi due posti per dormire dietro e due davanti. Non che ci si voglia proprio dormire, ma insomma... pub servire no? E poi è simpatica, così bianca e liscia, così levigata e curata. Certo, vetroresina. Ormai il legno, serve per le porte.

E poi l'Albin ce l’ha un rappresentante di Roma. Così possiamo vederla. ancora, con calma, a Roma. E farci fare i conti.

A Genova costava quattro e nove (milioni naturalmente, quando si parla di barche l'unita' é sempre il milione) e a Roma bisogna aggiungere due o tre cosette: stupidate! Trasporto, immatricolazione, messa su e messa giù dal camion e poi qualche optional. Be’, se sono optional opterei per non prenderli. Ma guardi che la battagliola di poppa ci vuole, eh? E vuol navigare senza bussola? Non mi dica che non sa che ci vuole l’ancora e appresso all'ancora la catena! Via! E i razzi? Oh non si scherza con la legge eh? Ci vuole anche una coperta di lana, ma no, chi se ne frega se ha freddo! per spegnere l’incendio! E i sacchi di sabbia e una sassola. Però ci mettiamo anche una pompetta di sentina.

Morale i milioni eran già più di mezza dozzina. Purtroppo stavano, tutti sul foglietto di carta del venditore e non sul mio conto in banca. Affronto la Sgnuffi, si fa un bel debito e sciao! Oppure si passa ancora un'estate col culo a mollo, sul Laros e si risparmia, così l’anno prossimo...

La secca è sempre più deserta. Anche l’acqua non è più proprio così limpida. Poi passano quei peschereccioni che strascicano fin sul marciapiedi della delegazione di spiaggia. Un giorno o l’altro tiran su uno della Finanza, parola.

Una volta un amico mio, incavolato, ha telefonato in delegazione: qui strascicano quasi a riva! Non è vietato? Certo, vietatissimo! E llora? E allora cosa? Perché non intervenite? Perché non c'è nessuna denuncia. E questa cos'é allora, una telefonata di auguri? Spiritoso, le denunce si fanno in carta da bollo e ci deve mettere il nome della nave, la matricola, la stazza e il nome dell'armatore. Non crede che nel frattempo il peschereccio avrà pettinato tutto il Tirreno?

Sì, sembra che lo credessero ma la cosa non toglieva il sonno a nessuno.

Giuro, è l’ultima estate di gommone. L'anno prossimo, la barca.

E intanto d'inverno io e la Sgnuffi, buoni buoni, a scuola da Cardea alla Lega Navale. A novembre impariamo che la Terra è tonda, a dicembre che non bisogna permettere al proprio equipaggio di farsi prendere la mano e che il marinaio deve fare il marinaio e non lo skipper (ecco la parola finalmente!). Anch'io concordo e mi lancio in bellissime bugie su quella volta che il mio marinaio, eccetera. Perché la' gli allievi più miserabili hanno quindici metri di barca con marinaio. E noi che ci eravamo iscritti perché il corso si intitolava "Vela e Motore" e poiché di vela non si sapeva niente, ma proprio niente, si immaginava un corso tutto salsedine e griselle! A Gennaio imparammo il calcolo di "mu", l’uso delle tavole e "l’appartamento" che dovrebbero servire per il punto stimato. A Febbraio attaccammo la navigazione costiera, i rilevamenti polari e veri e magnetici e i circoli capaci e quelli "Amici Magnaghi" e poi staziometri, grafometri, barometri, termometri, igrometri. Ci rimase impresso che la bussola magnetica non si rompe se non la si prende a martellate, cosa effettivamente piuttosto rara stando alle statistiche della Lega Navale, mentre quella giroscopica salta alla prima cannonata.

Evidentemente le cannonate sono più frequenti delle martellate. Con l’avvento della primavera, quando il mare si fa più turchino e i gabbiani stridono d'amore mentre i pesci assommano, i tonni passano e i polpi stiracchiano le loro otto braccia, noi entrammo nell'aula di ingegneria dell'Università per iniziare le lezioni di carteggio.

Il quarantacinque traverso cominciò a farci sorridere di superiorità e quelle navi di Cardea che mutavano rotta senza senso per tutto il Mediterraneo cambiando velocità e strumenti di rilevazione e che poi alla fine volevano petulantemente sapere dove cavolo fossero finite cominciarono a fard tenerezza. Stavamo evidentemente maturando per l’esame.

Io mi sentivo prontissimo. L'unico dubbio che mi torturava era: la randa è quel lenzuolo che ha il bordo rigido anche di sotto oppure è quello che non ce l'ha? Per fortuna poi ci furono le uscite col Makatea.

Il Makatea è una goletta (così mi dissero e credetti sulla parola) antica tutta pittata di nero con due alberoni e vele quadre. Partiamo dal canale di Fiumicino una bella mattina di sole, a motore.

Appena fuori, l'equipaggio professionista si ritira a guardare, e l'istruttore prende il comando della barca dandoci ordini tremendi come "cinque alla drizza della randa!" e "cinque alla drizza del trevo di trinchetto!", "cinque a quella del controvelaccio!" o roba simile.

Tutti balziamo in piedi come un sol uomo, pieni di entusiasmo e ci a aggrappiamo qua e là ai canaponi grandi come un braccio, che piovono in bando sulle nostre teste da vertiginosa altezza.

Nel giro di una mezz'ora, con favolosi cigolù alla mar dei Caraibi, il Makatea alza orgogliosamente le sue vele che un benevolo venticello gonfia cercando di cancellare le indelebili ammuffite pieghe in tanto vecchio cotone.

- Macchine a zero! – l’istruttore vive la sua avventura. Il motore si spegne e ci lascia in quel fantastico silenzio pieno di fruscii e cigolii e buffetti d'acqua sul dritto di prua che sentivo, allora per la prima volta. Ah, la vela!

Forse é il caso di spiegare, per qualcuno, che il dritto di prua non è quell'allievo panciutello e attempato che si è sistemato a prendere il sole sul grosso pennone dopo averlo imbottito con un materassino, ma si chiama così il legno che nelle costruzioni classiche sale dalla chiglia per dare forza e forma alla prua.

Ma questa é cultura, perché nella nautica i dritti di prua e di poppa stanno, sparendo sostituiti da altri dritti di più dubbia utilità.

Ah, la vela!

- Pronti per la virata! - urla l’istruttore aggrappato alla gigantesca ruota del timone da dove si ha ampia vista sulle cucine della barca e sugli alloggi dei marinai perché sul ponte ci han costruito un casottone alto due metri.

L'equipaggio vero che sta in disparte sogghigna e il motivo é subito chiaro nella prua ben messa al vento e nelle vecchie vele che sbattono come brutte lenzuola mal stese.

Si torna al vento con una bella puggiata e poi l’istruttore si sgola:

- Cazza! Cazza! Cazza... cazzo, non vira... - L'orgogliosa goletta ha rimesso la criniera al vento.

Mi levo il sangue dalle mani e i legnetti che ci si sono piantati provenienti dai rudi canapi che fanno da scotte e guardo la Sgnuffi: é sospesa in aria, a mezzo metro dal ponte. saldamente aggrappata alla scotta della quadra, e sventola anche lei allo stesso ritmo della vela. Fortuna che ha i pantaloni.

- Pronti per la strambata!- l’urlo di ripiego dell’istruttore.

Allora non lo sapevo che quella riesce sempre e ci fu un applauso al sangue quando il Makatea, imponente, girò il culo al vento trascinando con sé i disgraziati che da punto di scotta diventavano punto di mura.

Scendendo dal Makatea avevo imparato molte cose preziose quel primo giorno di navigazione a vela: primo, il motore fa rumore, puzza ed è uno schifo che ti riporta a casa dopo ore e ore di poesia e di vela.

Secondo, la randa può avere il bordo di legno anche in alto e allora si chiama "aurica" e spesso ha sopra un triangolino che si chiama "controranda". Se il triangolino é cucito direttamente sulla randa allora la randa si chiama "marconi".

Il secondo giorno il mare é un po' mosso. Una bella onda lunga che ci alza di un metro e mezzo quando ci passa sotto.

- Pronti alla virata! – l’istruttore ci deve aver pensato tutta la notte perché adesso grida - Fiocco a collo! -

La Sgnuffi molla la scotta e salta sul ponte sistemandosi i fiocchetti della cuffia con cui ha impiùgionato l’aureola bionda. Ma non sono mica quelli i fiocchi che vanno messi a collo e alla terza manovra l’abbiamo capito tutti.

Fiocchi a collo, vuol dire semplicemente lasciarli cazzati sopravvento quando la prua della barca tenta di girare, così spingono come dei bravi buoi e la costringono a girare anche se punta i piedi.

Naturalmente una barca non gira mai, una barca vira. Il Makatea no, non gira e non vira. Tiene di nuovo le sue antiche vele fileggianti al vento con patriottico orgoglio in linea perfetta con la bandiera nazionale.

Ma l’istruttore ha il colpo segreto: il controtimone. Quando i fiocchi avranno di nuovo preso collo, lui, l’astuto, ruoterà velocemente la ruota in senso inverso in modo da facilitare il passaggio nel letto del vento della barca che starà indietreggiando.

Adesso siamo tutti tesi, come per una scommessa contro il Makatea.

Noto preoccupato il sorriso sornione dell'equipaggio vero che ci osserva con distacco.

- Cazza, cazza, cazza... a collo, a collo, a collo... contro- timone !!!! –

Sprack!

La grande ruota gira libera dalla catena. Le antiche vele asciugano la muffa al vento di Fiumicino incerto tra petrolio e fogna.

Stavolta 1'equipaggio vero si deve muovere. Il Makatea è abbandonato sulla molle onda lunga.

Il capitano mena martellate con la testa infilata sotto pagliolo. Vedo bene adesso la differenza tra un terragnolo e un uomo di mare. Ù capitano si mena una tal botta sul pollice da farsi saltare l’unghia e schizzare sangue sui pantaloni bianchi di un allievo che é primario al Policlinico. Niente mortacci o bestemmie. Nemmeno un guaito. Un'occhiata distratta al dito sfregiato e poi subito di nuovo martellate alla catena. Deve essere che sul mare nessuno osa sfidare dio o i morti.

Dura un'ora e quaranta la giostra alla deriva sull'onda lunga e naturalmente é una strage. Su quaranta allievi, trentotto rimettono un pasto dopo l’altro fino all'ultimo Natale. Trentotto. Anche la Sgnuffi che ha accettato la premura galante di un marinaio che le ha offerto un caffè: dentro e fuori nel giro di secondi.

L'altro che non rimette è un bell'uomo alto, biondo con gli occhi azzurri. L'ho visto tante volte al corso e so che si chiama Glauco.

Mi avvicino e subito ci lega la simpatia dei refrattari e l’odio dei vomitanti.

- Che ne dici di un panino e una birra? -

L'urlo, gorgogliante dei vomitanti sembra venire dritto dal Bounty.

Così il Makatea, con le vele nuovamente strette sui pennoni, scarica sul molo di Fiumicino una torma di esseri pallidi e con le gambe molli.

Al momento dei saluti il capitano della goletta ci consola:

- Il Makatea non vira più a vela da quando ci hanno fatto le sovrastrutture. Troppo peso e troppa superficie esposta. Noi andiamo sempre solo a motore -.

Viva la faccia. Potevano dircelo prima. Ma no, se no che gusto c'era.

E’ stata una bella lotta e ha instillato nella Sgnuffi l’idea fondamentale: la vela è una bella cosa soltanto se c'é sotto un gran motore.

Considerazione che porta dritto al motorsailer. Dire motoveliero che è più bello, sembra però troppo importante. Voglio comprare un motoveliero! Ooh, e che sei, Onassis ? Voglio comprare un motorsailer. Ah sì? E che roba è?

Così adesso sulle riviste sfoglio le pagine dedicate ai "cabinati a vela" e comincio a tralasciare i "cabinati a motore". Naturalmente per l’estate ormai prossima c'è il solito problema: ancora gommone? No, assolutamente no.

Intanto bisogna dare l’esame. Il grosso informatissimo corso di Cardea tende al brevetto a vela per le 50 tonnellate, legge dell'epoca. Ma sembra che per darlo gli allievi si debbano presentare con veliero proprio o del proprio circolo e che gli esaminatori vogliano sapere cose curiose come:

- Se dovesse mettersi alla cappa quali ordini darebbe? -

Niente, Cardea sulla cappa non ci ha detto niente. lo e la Sgnuffi sfogliamo disperati i nostri due volumi in elegante brossura blu e rivediamo sfilarci davanti strumenti, calcoli e grafici. Cappa niente. Tanto, se debbo comprare una barca a motore con un po' di vela, basta la patente da motoscafo dove la cappa é quel telo che si mette sopra di notte.

Son carabinieri che mi fanno l’esame sul Tevere. Da un po' i carabinieri si vedono sul mare, ma allora per me un carabiniere era il simbolo più terragnolo possibile. A cavallo al massimo riesco ad immaginarmi un carabiniere.

Sono poi guastato da cattiva letteratura: "stupido come la merda di un carabiniere" é battuta corrente ai piedi delle Alpi e nessuno ci può far niente.

Salgo sul Boston Whaler di tre metri e mezzo col carabiniere e un istruttore.

Il carabiniere é chiaramente preoccupato per la stabilità del barchino e per il colore di quell'acqua gialla che lo circonda. A poppa c'è un fuoribordo da venti cavalli coi telecomandi.

Brum avanti, brum indietro.

- Uomo in mare! - E’ invece un salvagente che la fogna Tevere sta portando alla deriva.

Bruum, ripescato. Fine della prova pratica che mi autorizza a portare barconi di tredici o quattordici metri in giro per il mondo.

Altro carabiniere, prova teorica.

- Un idrovolante alla fonda che luci mostra? - Luci di stupore perché chi li ha più visti gli idrovolanti alla fonda? –

Il carabiniere è a disagio e sventola il libretto. La domanda l’ha presa di là ma la mia risposta non la trova.

Meno male che, ancora fresco degli esami universitari mi sono preparato alle domande idiote e così snocciolo quei tre o quattro o cinque fanali bianchi rossi e verdi.

Rassicurato il carabiniere firma il verbale e sono patentato. Solo motore naturalmente.

Ma è già scoppiato il caldo. Anche se avessimo i soldi, chi ce la da più una barca per 1'estate? Tanto vale aspettare Genova, tanto più che hanno anticipato il salone all'autunno.

La Sgnuffi dice che va bene. In fondo sono io il patito delta barca. A lei sta bene anche lo scoglio piatto e artefatto, giù da Alfonso, sotto il Faro.

E sarà un'estate di spinnate delta madonna. Il gommone giace piegato e negletto nella legnaia. Il é HP Johnson, pieno d'olio extra vergine minerale, riposa in pace sotto una cappa di nylon ben piantato sull'apposito cavalletto. Muta, pinne e fucile e la Sgnuffi sempre più in bikini abbandonata sugli scogli alla torbida ammirazione dei turisti.

Fortuna che i pargoli stanno crescendo e fanno buona guardia.

E’ evidente che siamo giunti ad un punto di rottura. Il gommone e stato ufficialmente ripudiato. La prossima estate ci DEVE essere la barca. Sono mesi di frenetici conteggi: da una parte il libretto degli assegni con il saldo Comit e dall'altra il catalogo del mare di Mondo Sommerso coi prezzi. Forse a qualcosa intorno ai sette metri ci si arriva tirando la cinghia. 0 chissà, un usato da nove.

Via le pinne e su le scarpe. Scarpinate delta madonna per i cantieri del centrosud. Dall'Argentario a Torre del Greco. Bidoni, bidoni, bidoni.

C’è un Alicudi a cinque milioni, ma è scomodo per quattro. Poi di legno: e la manutenzione?

Ma dove si trova un usato, quasi nuovo in vetroresina, motore di nota affidabilità albero di alluminio vele in dacron quattro cuccette di cui almeno una di due metri visto che io, lo skipper, tiro, un metro e novantadue?

Non resta che Genova. Ma stavolta decisi: o si compra o si muore.

Li vediamo tutti quelli che più o meno, sono motorsailer: dal Banjer, al MS 33, al Nauticat, al Vagabond, al Firmsailer, ai vari Viksund.

Ci infiliamo sotto i paglioli del Tortuga, del Fenicia, dell’Euros.

Incuranti dei prezzi in questa prima scelta. Alle quattro del pomeriggio abbiamo i piedi gonfi e la testa vuota. Questo via che tanto costa venti milioni, quest'altro via perché ha solo un gran cesso e poi é tutto, corridoietti con spigoli mortali, quest'altro via pure perché non c'é posto per la Sgnuffi lunga distesa ne' nel pozzetto ne' sulla tuga e non posso essere accusato di volerle far prendere la tintarella a strisce.

Riprendiamo il giro. I pargoli frignano ma siamo già in clima di marineria e gli ordini alla ciurma sono secchi e perentori.

C'è una barcona, panciuta, nello stand della Multimare. Tutti e quattro su per la scaletta.

Il pozzetto, e' un pozzone. Roba da tre metri per due. Enorme e solleva l’entusiasmo della futura ciurma che si sbraca sulle ampie panche. Dico che

troppo grande, se entra un'onda di poppa e lo riempie...

- Autovuotante, signore - é sbucato un giovanotto dagli interni moquettati. E mi indica quattro fori grandi come monete da cento. Autovuotante ma con calma, penso, facendo un grossolano conto del volume del pozzetto e della capacita di scarico dei fori.

Ma le grida di entusiasmo della Sgnuffi provengono già dall'interno: finalmente sembra che abbia trovato una cucina dove si può cucinare, un tavolo dove si pub proprio pranzare, delle, cuccette dove si può proprio dormire, un lavello do- ve ci si può davvero lavare.

Io entro e vedo il sorriso permanere sulla faccia del venditore. Di solito, il sorriso smuore per via della storia dell'altezza d'uomo. Non ci sono barche ad altezza di un uomo come me. Barche con uno straccio di vela, dico.

E invece questa ce l’ha. Anzi avanzo perfino quattro dita dal soffitto. Chi lo sa che cos'è che ti fa sentire che hai trovato. Come un ricordo dal futuro. A me succede anche quando cerco casa. Giro per appartamenti anonimi, appena intonacati, freddi ed estranei e poi, all'improvviso, apro una porta e "sento" di esserci già stato. Non e' vero, è la prima volta. Eppure sento l’abitudine dietro i miei gesti: quella è la cucina, lo so, quante volte sono entrato, a prendere un bicchier d'acqua, a far friggere un uovo, a scaldarmi il caffè... quella è la stanza da letto, perbacco, lo so! Quante centinaia di ore favolose ho già passato guardando quel soffitto, nascosto da quelle mura... quello è il soggiorno, e sento nell'aria il calore delle serate passate con gli amici.

Io lo chiamo ricordo del futuro. In fondo che il tempo vada a senso unico deve essere un'illusione.

Comunque sia, "sento" che ho trovato la barca. Adesso restano, i dettagli: ordinarla, pagarla, attrezzarla.

Viste le intenzioni serie, spunta il costruttore, l’ingegnere. Simpatico, di quelli che sanno che si pub vendere una cosa senza dover dire che é perfetta e che di meglio non ce n'é.

Gli occhi ce li abbiamo tutti anche se non tutti sanno vedere le stesse cose per mancanza di esperienza. Dall'ingegnere al rappresentante per Roma che è Petrini. Almeno allora lo era.

In linea di massima sì, ma un residuo di pudore (costa quattordici milioni!) mi fa sollevare delle riserve: voglio provarla a vela. Bene, l’ingegnere dice che da Petrini, di lì a un mese, ci sarà un esemplare da provare.

La barca ha una denominazione di vendita e di cantiere: si chiama Multi 96. Multi perché la fa la Multimare, e perché è lunga nove metri e sessanta. Ad una mia misurazione accurata poi risulterà solo 9,58 ma non sono così pignolo, da chiamarlo Multi 95 e 8…

Ce la guardiamo e cerco l’approvazione negli occhi di tutti.

Mi sembra troppo grande per le mie capacità nautiche. Ha una pancia di tre metri e trenta, bella lucida sana, sembra pregna. Comoda é comoda, quello lo vede anche un cretino, ma sarà marina?

Ho letto i libri dei grandi navigatori e i manuali di navigazione, tutti, da quelli dei Glenans fino a quelli tascabili della Mondadori. Ma non ho capito bene che cos'è una barca marina.

La prima risposta. sembra ovvia: è marina una barca che va per mare e non affonda.

Mica vero: affondano, fior di petroliere e di incrociatori.

Affondano mercantili e Andrea Doria e non affondano quasi mai barche da diporto.

Certo, quando il mare è brutto sono quasi tutte sotto i capannoni e come fanno ad affondare? Comunque la risposta non è soddisfacente.

E allora leggo "Lo Yacht" di Sciarelli. Un libro di cultura. E lì vedo che sono stati marini barchini corti e piatti, barconi larghi e piatti, slupponi stretti e fondi, marine certe prue dritte come un filo a piombo, marine le prue ad incrociatore, marine le poppe a canoa, marine le poppe tronche, marini i cavallini positivi, marini anche quelli negativi.

Insomma è stato più o meno marino tutto quello che ha galleggiato sui mari dai tronchi alla Michelangelo.

Così sono al punto di prima. In ogni modo mi han detto che: chiglia lunga significa stabilità di rotta, poppa appuntita significa tranquillità col mare in poppa, prua a incrociatore vuol dire morbidezza di impatto sull'onda. Il Multi ha tutte queste qualità. Poi ha un serbatoio di trecento litri per il gasolio, e un bel diesel Aifo FiaE’nel pancione, seicento litri d'acqua distribuiti con autoclave, e cuccette lunghe due metri.

Ma voglio sapere, se va bene a vela. Il bello è che non so esattamente quello che deve fare il Multi per andare bene a vela. Ma la frase serve per prendere fiato e tempo e rifare i conti.

Quattordici milioni che poi, ormai lo so già, diventano quindici per poter navigate. La Multimare fa una lista di optional coi prezzi: ecoscandaglio Seafarer montato lire centomila. Lo prendo come esempio. Lo strumento, costa ottantottomila alla Finder. Quindi é onesto.

Però io non ci arrivo. Bisogna inventare qualcosa per non passare, un'altra estate a spinneggiare.

Petrini accetterebbe qualche cambiale. Lasciamo, perdere gli optional il più possibile. Proviamo con il Prestitempo della Merit.

Fino a tre milioni non ci sono ipoteche, poi bisogna aggiungerci tre o quattrocentomila lire di spese.

Tira molla, aggiungi il dodici per cento. Forse vendendo il canotto col fuoribordo. Già, ma un barchino, ci vuole quando si ha una barca come il Multi.

Un mese dopo Genova arriva a Roma l’ingegnere e si esce col Multi.

Siamo in diciotto sopra, tra aspiranti compratori e aspiranti venditori. Il mare é appena increspato, il vento debole debole. A motore si va che é una meraviglia, il suo bel chiglione la manda via dritta dritta finché taglia le onde di prua col mascone, rolla un po' se le becca al traverso sulla pancia.

Su il genoa.

Grande bianco come una promessa di pace. Due giri sul winch per far scena perché non serve. Winch é il nome snob degli arganetti per le scotte. Quelli sul Multi sono piccoli e vezzosi, con la campana in vetroresina, da quattro soldi. Sono gli stessi che la Multimare monta sui Superjet. Ma sono difetti di gioventù, ammette l’ingegnere.

La barca si appoggia sull'onda e adesso rolla meno anche con il mare al traverso. Funzione stabilizzatrice della vela: quante volte l'avevo letto in giro, ma adesso la sento con tutto il corpo.

Saranno almeno cinque nodi. Non si può dire che vada male, in fondo ha soltanto quaranta metri di vela tra randa e genoa e disloca quasi cinque tonnellate che con tutti noi a bordo sono più di sei.

Proviamo a virare. Abbiamo messo la barra per guidare dal pozzetto, perché la timoneria principale é interna. Si stringe il vento, cazzando il genova e la barca perde velocità per mettersi poi prua al vento. Se non avessi fatto qualche giretto sulle derive della scuola di vela del Circeo direi che é un comportamento tipico delle barche a vela.

L'ingegnere é meno capoccione dell'istruttore della Lega e rinuncia subito per evitarsi magre: c'é poco vento, certo non é una barca a vela pura fatta per bordeggiare di bolina. Quando il vento é di prua si mette motore. ù

- A quanti gradi riesce a stringere il vento? – l’ho fatta io la domanda in tono mondano, tecnico-mondano. L'ingegnere mi guarda e in fondo mi sembra di scorgere un brillio di ironia.

- Sessanta -. La gente intorno a me annuisce: é un buon angolo per un motoveliero.

Si torna a Fiumara che é quasi buio e fa freschetto. Qui bisogna decidere. Li abbiamo portati a spasso per un mese, ci han portati a spasso per due ore. Adesso o sì o no.

Che fosse sì l’avevo capito dal primo incontro con la barca per via di quella strana sensazione di già vissuto. C'é il problema quattrino.

L'ingegnere sorride: devo trattare con Petrini. Lui mi può garantire la consegna, se ordino, subito, per giugno. Di Multi il cantiere riesce a farne uno al mese e quello di Maggio é già stato comprato.

Petrini caccia un modulo in macchina e comincia a battere: nome, cognome?

Quasi in un sogno dò tutti i dati. Credo di stare ordinando la barca.

Ma tutto scivola via come se non dipendesse già più da me.

L'anticipo é potabile: mezzo milione. Ma é per la firma del compromesso. Poi al contratto sono tre milioni. Ahi. E poi quando metteranno il motore sono altri quattro e mezzo. Ahi, ahi. Ù resto alla consegna: parte in contanti e parte in cambiali.

Mi trovo la biro in mano. Che posso fare ormai? Firmo. Per gli optional niente, ci voglio pensare. E’ l’unica concessione che riesce a strapparmi la mia coscienza.

C'é anche chi mi invidia: amici del pomeriggio che hanno navigato per due ore con me e la Sgnuffi e che adesso non possono decidere sempre per il maledetto quattrino.

Tornando, a Via Veneto, compro la mia prima rivista inglese: sono o non sono uno skipper? E allora in barca voglio la mia copia di Practical Boat Owner.

Ma come sarebbe a dire che l’ecoscandaglio Seafarer costa 24 sterline? Ma la sterlina non sta a milletrè? Ma sì, lo dice anche Espansione di questo mese. 1300. Porca l’oca: allora a Londra il Seafarer costa 31.é90 lire!!!

Sfoglio la rivista con emozione crescente: c'é un log elettronico per 40 sterline con tanto di speedometer! Ma guarda l’Hitachi, il radiogoniometro, quello che in negozio, vogliono 75.000 lire, si può avere dalla Comet per 19 sterline! E il gas detector? L'anemometro? Ma anche gli estintori, e le cime per le vele, e il telemetro, e la bussola, e il megafono... Ma costa tutto un terzo, un quarto di quello che chiedono in Italia!

Mi calmo: ci deve essere il suo perché. Forse la dogana. 0 il trasporto. 0 chissà che cosa.

Novanta lire di francobollo per chiedere direttamente alle ditte che si vantano di vendere per posta "world wide", quanto il mondo é largo.

Dieci giorni e la risposta é sulla mia scrivania: one pound for postage charges. Una sterlina.

Acchiappo un foglio e ordino nel mio inglese maccheronico. Posso comprare tutto con quello che a Roma o a Civitavecchia avrei speso per uno solo di questi marchingegni elettronici.

Magari non servono neppure tutti, però danno, un senso di sicurezza e anche mi fanno sentire più marinaro, perché dovrò montarmeli da solo.

Il primo viaggio a Donoratico, dove si fanno i Multi e' proprio per portare gli scatoloni arrivati felicemente da Londra, per posta normale, senza un soldo di dogana.

Il cantiere é un cantierino, simpatico, però. E simpatici anche i titolari e gli operai. Una specie di cooperativa, mi sembra di aver capito e hanno avuto la garanzia dalla Multimare di un Multi al mese.

Mi indicano un guscio ancora spontato: eccola! Così, da sotto l’invaso, mi sembra enorme. Una mezza balena che io dovrò portare a spasso per i mari.

La sfioro con la mano. Quel suo bel pancione lucido. E’ il primo contatto quello che conta. Una barca, anche mezza barca, risponde.

Infilo le dita nei suoi buchetti torniti: prese d'acqua, scarichi, foro per l’ecoscandaglio. Ne ha di buchi e di vario diametro. Ci infilo il dito e sembra già una presa di contatto più intima.

- Salga, dottore, salga! - mi chiama l’operaio che spunta toscano da sopra il bordo del pozzetto con una bustina di traverso e lo sguardo ceruleo. Anche gli altri mi incitano. La Sgnuffi guarda la mezza barca con un po' più di diffidenza. Anche a lei ho l’impressione che sembri troppo, grande adesso.

Nel ventre della "mia" barca ferve il lavoro dei falegnami che stanno preparando i punti di appoggio per le paratie in legno e tutto l’arredamento.

La Sgnuffi mi stringe un poco un braccio e mi mormora in un orecchio:

- Ce la fai a portare una barca cosi? -

Che deve rispondere un poveraccio pieno di debiti proprio per colpa di quella barca? Io sorrido di sufficienza e infilo una mano in un barattolo di copale.

Le donne hanno meno pudori. E’ una mia vecchia teoria maturata sulla spiaggia di Chiavari ai tempi della prima cotta. Infatti la Sgnuffi chiede "alcune piccole modifiche" agli interni. Tranquilla, con la beata incoscienza di chi non ha mai letto Nautica o Vela e Motore, chiede le sue "piccole modifiche".

E quelli ascoltano. Ascoltano e annuiscono. Uno prende perfino nota.

E brava la Sgnuffi! La nomino, sul campo vicecomandante, vicecapitano, viceskipper. Ah no, si dice: capitano in seconda.

Mesi di febbre. Di corse da Roma a Donoratico in auto: quattro ore per arrivare in cantiere, dare una guardata e via, quattro, ore per tornare a casa. Ma la barca c'è. Le hanno messo la tuga. Tra poco le ficcano in pancia il motore.

Già, e scade la rata grossa da pagare. Fortuna che la Merit accoglie la domanda di prestito e mi molla un assegno circolare di tre milioni. Per il resto bisogna intensificare il lavoro, che per me significa passare più notti alla macchina da scrivere per mettere insieme storie da film. Passo la primavera con Bud Spencer e James Coburn che devono assaltare un'imprendibile posizione sudista, poi a Pasqua, pagato da Ponti, squarto tre ragazze i cui corpi recano tracce di violenza carnale, torno nel West con VanCleef per un grande duello e poi faccio un salto a Milano e scopro che trema perché la polizia vuole giustizia.

Cosa non si fa per andare in barca! Giugno stringi il pugno e a luglio poi fa quel che vuoi. Infatti la promessa consegna per giugno salta regolarmente alla fine di luglio. Ma significa anche un mese di respiro per l’ultima rata.

Poi finalmente telefona l'ingegnere: domenica mattina, a Porto Baratti, le consegnerà personalmente la barca.

Gulp!

Anche Petrini chiama: bisogna saldare. Ma... prima di vedere la barca finita? Sì, prima.

- Se io non do il benestare e dico all'ingegnere che tutto e' pagato quello non vi dà la barca. - Alla faccia della fiducia!

Gli ultimi soldi e le prime cambiali passano di mano. Petrini scuote la testa:

- Fatevela mandate col camion. Costa settecentomila lire ma io ve la faccio, trovare tutta bella pulita al mio centro nautico. -

Inflessibile su questo punto per vari motivi, non ultimo che le settecentomila lire non le ho più e che comunque mi sembrano un po' tante e rendono l'insistenza sospetta, ma soprattutto perché o sono in grado di venire in barca da Porto Baratti fino al Circeo o che cavolo mi sono rovinato a fare.

Non che dentro non ci sia un po' di rodimento: in fondo il mare mare chi l’ha mai visto? Cardea, Cardea aiutami tu! E passo la notte a rileggere di rotte e di rilevamenti.

La Sgnuffi dorme accanto a me il sonno placido del capitano in seconda che si affida al capitano in prima. E io, capitano in prima, a chi mi affiderò?

Mi faccio coraggio: l’ho fatta tante volte in macchina la strada fino a Donoratico, la potrò fare anche una volta in barca no?

Ho comprato alla Finder le lettere per il suo nome. Le minuscole le avevano finite e così ho comprato tutte maiuscole con svolazzo: le devono già avere avvitate a poppa della "mia" barca. Se le han messe nella giusta sequenza si dovrebbe leggere LA SGNUFFI.

La barca é femmina, l’ho sentito la prima volta che l'ho toccata.

Poi così lucida, soda e tornita non poteva avere un altro nome per me.

Capisco perché molti skipper chiamano la loro barca con nomi di donna. Oh, stavolta skipper mi e' venuto proprio spontaneo. Mi sto già marinizzando.

Sono undici colli. Due valigie e nove sacchi. Colmi. Pesanti.

Ho deciso di partire di sabato quando ho saputo che La Sgnuffi (quella con una sola poppa e norvegese per giunta) sarebbe stata in acqua già da sabato.

Il varo, però sarà segreto ed effettuato a Piombino. Il cantiere non vuole nessuno perché il porto di Piombino non e' leggiadro, la sua acqua é nafta e volano scorie di carbone nell'aria. Vezzo tipicamente toscano volere consegnare il frutto di tante ore di lavoro umano in una cornice adeguata.

Piombino é a sud di Porto Baratti, più vicino a Roma e al Circeo. Niente: la barca va in acqua a Piombino perché la c'é la gru, però poi girerà intorno al promontorio e verrà consegnata nella fiorita archeologica baia di Baratti. Okay.

Viste le finanze e anche per una specie di acclimatazione prima della grande avventurosa traversata, si decide di partire di sabato e dormire già in barca. Così la giornata di domenica trascorrerà con l’ingegnere nel controllo di tutto e anche in qualche giro di scuola guida.

Ho nelle mani il ricordo del volantino con cui ho preso la patente e poi quello grosso del Multi che ho provato a Fiumicino. Come passare da un'automobilina dell'autoscontro a un autotreno.

Due valigie e nove sacchi e soltanto quattro, mani: due mie e due della Sgnuffi (quella con due poppe). Il taxi ci scarica a Termini e vado, a fare il biglietto.

- Baratti, Baratti... - l'impiegato cerca svogliato nel prontuario. Ce n'è uno in provincia di Torino. No, troppo al nord. Ma non ce n'è un altro.

Mi guarda sospettoso: sono sicuro di non voler andare in quel Baratti lì?

- Sicuro. Vado a ritirare una barca. Ci deve essere il mare. –

Sfoglia irritato e poi chiude il libretto: mi sbaglio di sicuro. Se vuole mi fa il biglietto per Baratti - Torino.

La Sgnuffi mi guarda incerta e devo rassicurarla: la Multimare è una ditta troppo nota per fare un bidone così nero. Adesso compro una carta dell'Italia e 'sto Porto Baratti salterà fuori.

Un salto in tabaccheria e dopo cinque minuti spiattello la carta sotto il naso dell'infastidito impiegato ferroviario:

- Eccolo. Porto Baratti, scritto fine fine ma leggibile, proprio a nord del promontorio di Piombino.-

Si infila gli occhiali ed esamina con sospetto la carta d'Italia.

Dà un'occhiata in fondo alla ricerca del nome dello stampatore, la guarda per trasparenza come se fosse falsa, poi me le restituisce:

- Per noi fa testo il libretto. Porto Baratti non c'è. 0 almeno non ci va il treno. -

- Ecco, forse. Veda un po' dove il treno passa da quelle parti. Ù più vicino possibile. -

Come si fa a chiedere ad un pover'uomo di lavorare così! E’ l’espressione della sua faccia mentre la reimmerge nelle sozze pagine del libretto. Poi dice:

- Populonia. -

- E Populonia sia. -

- Ma bisogna cambiare a Marina di Campiglia. -

- Pazienza. -

Tuuuuut! Si parte. Si va a prendere la Sgnuffi (quella con le vele) con la Sgnuffi (quella con l’aureola bionda).

Marina di Campigliaaaa! Un tuffo al cuore. Giù le valige! E i sacchi! Dallo scompartimento al predellino, con le valigie sbatacchianti contro le mie e le altrui gambe. Com’è colorito il toscano quando i toscani ci si mettono d'impegno!

La Sgnuffi comincia a passarmi i sacchi dal finestrino. Siamo, al quarto che il treno si muove. Ù mio urlo é più forte del fischio del locomotore che si ferma di nuovo. Accorre uno della stazione e mi aiuta ad abbrancare i sacchi che adesso qualcuno butta dal finestrino mentre la Sgnuffi appare, stralunata e capelli al vento, sul predellino. Lascio perdere un sacco che con bella traiettoria si spiaccica sulla banchina liberando pentolini e rotoli di carta igienica che sollevano la perplessità dell'addetto:

- O che pensa, che noi ci si pulisce con le dita?! - Aspira e domanda.

Abbranco la Sgnuffi per la vita e la poso delicatamente in mezzo alla carta igienica.

Per Populonia c'é un vecchio treno che aspetta. Ma c'é tempo. Non parte finché non passa il Piombino che viene da Livorno.

Così posso tranquillamente fare i quattro o cinque viaggi con sacchi e valigie scavalcando. binari e traversine e caricando il tutto sul vecchio treno dall'aria vagamente western. Uffa, deve essere una deformazione professionale, però se adesso di là scende Terence Hill vestito di stracci non si stupisce nessuno.

Al bar della stazione mi guardano con sorrisetti strani.

- Che, va a Populonia? -

- Sì. Anzi no, vado, a Baratti. -

- 0 mamma senti? Gli e' un altro che va a Baratti!! -

Si affaccia una signora grassa con lo zinale e mi sorride:

- Il treno arriva a Populonia alle otto e mezza. - Mi informa in tono definitivo. Ma io non riesco a captare il significato lugubre della battuta e resto col cappuccino in mano a guardare la simpatica cicciona che chiarisce:

- Da Populonia a Baratti son cinque chilometri da fare a piedi.

- Perché a piedi?

- Perché sulle ginocchia é peggio. - Spiritosi questi eredi di Dante.

- E allora che devo fare? -

Si stringe nelle spalle e la ciccia si arriccia verso il collo:

- A San Vincenzo ci sono i taxi. Ma di la i chilometri sono venti e gli viene a costare trentamila lire.

Imbrunisce già. Guardo il vecchio treno.

Forse conviene scaricare e cercare un albergo. La Sgnuffi garrula mi saluta dal finestrino: non ha voluto venire al bar per fare la guardia ai bagagli: oh grulla quelli han visto che c'é solo carta igienica!

Già, e la bussola da rilevamento? E le carte nautiche? E le squadrette e il compasso che ci ha fatto comprare Cardea?

Bravo capitano in seconda: resti di guardia. E adesso vado lì e le dico scarichiamo tutto? Col cavolo.

Populonia sia. Il treno si mette in moto dopo un quarto d'ora e nel giro

di trenta minuti: Populoniaaaaa! Due valigie e nove sacchi. Oplà! Oplà! Oplà!

La catasta si ammucchia là dove finisce il ghiaione e comincia l’erba.

Tuuuuut! Il trenetto se ne va e si lascia dietro una stazioncina ina ina, isolata nel verde, con la pensilina in legno traforato.

Hai la vita appesa a un filo, Jack! Bam! Bam! E la ColE’sparisce in fondina. Questo é West, ragazzi!

Lascio la roba ammucchiata col capitano in seconda di nuovo di guardia e mi incammino verso la stazioncina. Oltre lo sportello, giuro, c'é un vecchietto con la scoppoletta. Proprio quella da veeeecchio John, telegrafista di Cheyenne.

Saluto con un cenno di mano, perché il vecchio ha sollevato il ricevitore di un telefono di quelli in ottone arabescato a sta dicendo qualcosa la' dentro.

- Per andare a Baratti, c'é qualcosa? –

- Le gambe, figliolo. Gli è una passeggiata. –

Ma non con undici colli e la Sgnuffi. Non che la Sgnuffi non cammini visto che é stata campionessa di ginnastica artistica e appena può lo fa sapere a tutti, ma siamo già stanchi e abbiamo anche fame.

Idea: telefono all'albergo che mi han detto esserci a Porto Baratti e mi faccio venire a prendere da qualcuno. Un albergo avrà uno schifo di macchina.

Il vecchietto posa l’antico ricevitore sulla forcella e mi dice querulo:

- Non abbiamo telefono, figliolo! –

Punto un dito accusatore contro il vistoso apparecchio modellato da un ammiratore di D'Annunzio, ma il vecchietto scuote di nuovo la testa:

- Questo e' della Ferrovia, figliolo. Non e' collegato con l'esterno. –

L'espressione di pena é così evidente sul mio visto che il vecchietto si leva la scoppola e si affaccia torcendosi verso l’alto, là dove c'è una verandina di legno tutta coperta di fiori:

- Vincenzooooo!- Si affaccia una donna. Vincenzo non c'é. Forse é al Circolo.

Il vecchietto mi informa: Vincenzo é il figlio del capo stazione e spesso da uno strappo ai disgraziati che scendono a Populonia nell'illusione di arrivare a Porto Baratti.

E’ un bravo ragazzo Vincenzo, ma non c'é. Però posso provare al Circolo. Impossibile sbagliare: dietro la stazioncina c'è uno slargo e poi una breve main street. Dieci case da una parte e dieci dall'altra. Sull'angolo, ci sarebbe il telefono pubblico ma chiude alle sette. In fondo a destra c'è il Circolo. Provare a chiedere di Vincenzo.

Rassicuro il capitano in seconda: qualche cosa inventeremo.

Intanto e' chiaro che a Populonia non c'é da dormire. A] massimo possiamo lasciare il bagaglio in stazione, che tra poco chiude, e incamminarci per Porto Baratti.

Entro nel Circolo che e' poi un mezzo bar con un flipper e due tavoli dove otto stanno giocando a scopa. Guardo il barista e chiedo a voce alta:

- C'é Vincenzo? - Il barista mi fa di no con la testa:

- 0 che Vincenzo non gli é andato a Baratti, non gli é andato? -

Chiede a tutti e nessuno risponde. Poi uno caccia un sospiro così profondo che sembra partire da sotto la sedia e si alza:

- Vi accompagno io. -

E’ una bella NSU Prinz quella che riempiano coi nostri sacchi e valige, dentro e fuori, sotto e sopra e poi imbottiamo coi nostri corpi quel poco, che resta.

Il signore che ci accompagna é molto gentile: no, nessun disturbo. Solo per le nove vuole essere a Piombino.

Sto meditando il prezzo. Quanto ci chiederà questo distinto signore per portarci fino a Baratti?

Il tramonto scivola nel buio e ai lati della strada si stagliano le favolose tombe etrusche. Un posto affascinante. Laggiù la baia di Baratti piena di barche. Un brivido: là in mezzo c'é la nostra Sgnuffi!

Il distinto signore guarda l’ora: alle nove vuole assolutamente essere a Piombino perché c'è la riunione del consiglio comunale di cui fa parte e dove vuole proporre con rinnovata insistenza la necessita dell'istituzione di un Pullman che colleghi Populonia con Baratti. E’ una questione di civiltà: arrivano i turisti col treno e mica sempre lui o Vincenzo possono essere lì ad aspettarli!

Nella semioscurità non mi pare che ci sia l'inconfondibile sagoma panciuta della Sgnuffi (quella con la chiglia, per carità!).

Il distinto signore rifiuta l'invito a cena: che altro posso fare con un consigliere comunale? Allungargli un deca? Sbarchiamo dalla NSU che inverte la marcia e esploriamo con angoscia crescente la doppia fila di barche in rada: non c'é più dubbio! La Sgnuffi non c'è!!!!

Quella a forma di chitarra mi guarda con occhioni umidi da gazzella. Pagato abbiamo pagato. Ti ricordi di quell'amico biondo al corso, che ci aveva detto di essere stato bidonato 1'estate prima? Tre milioni di acconto e ancora aspetta la barca!

Ma no! Via! Ci sarà stato un contrattempo, ecco tutto. Certo l'ingegnere avrà cercato di informarci. Andiamo in quell'albergo laggiù in fondo, forse sapranno qualcosa.

E’ un bell'alberghetto con ristorante sul mare. Profumo di spaghetti cucinati alla pescatora e stomaco, in movimento di protesta. Un momento, abbiamo cose più urgenti no?

Niente. Nessuno ha lasciato detto niente per nessuno. L'albergo é esauritissimo e non ci può ospitare neanche in cucina. Mangiare si, dormire no .

La cosa si fa seria e la notte nera.

Vinicio! Come mi viene in mente il nome dio solo lo sa. Devo, averlo letto su un qualche articolo sperduto in chissà quale rivista. Uno diceva che a Porto Baratti c'é un certo Vinicio che é un sant'uomo e risolve tutto. Se mi ricordo giusto, naturalmente.

Con la determinazione di chi comincia a sentire la sorda irritazione di essere stato, preso per grullo, affronto il problema e chiedo, seccamente:

- Dove posso trovare Vinicio? -

Nessuna sorpresa. L'ho azzeccata. Mi indicano, una casa che si affaccia sulla rada. Oltre i vetri, una tavola imbandita e un televisore acceso.

Mangiano. Beati loro.

La Sgnuffi é rigida, accanto alla montagna di sacchi e valigie, in attesa di ordini, Sillaba al mio passaggio:

- Ho fame. -

Busso ai vetri. Un uomo grande e grosso alza la testa da un gigantesco piatto di spaghetti e mi guarda. Cerco il mio sorriso migliore. Lui mi dice con la mano: aspetta, vengo.

Torno verso la Sgnuffi che mi sillaba:

- Ho freddo. -

Vinicio, esce con l'ultimo boccone tra i denti. Gli spiego la situazione.

Conosce l'ingegnere, ma non si é proprio, visto. Vagamente, molto vagamente gli pare di aver sentito dire che forse dovevano arrivare con una barca. Ma non sono arrivati.

Ah.

Vinicio ci guarda. Guarda il cumulo di sacchi e capisce al volo. Per dormire bisogna arrivare a Piombino. Lì, alla fine di luglio, non c'é mai posto.

Ah.

Vinicio ci guarda di nuovo come se stesse valutandoci, poi decide:

- Prendete la mia macchina. - E sventola un mazzo di chiavi.

Intanto, é uscita una donna che cerca di intromettersi: forse e' meglio che cl accompagni lui e... Vinicio taglia corto e mi ficca in mano le chiavi:

- La macchina gli e' un po' arrivata ma funziona ancora. Ci vediamo domattina.-

Grazie Vinicio, grazie.

Piombino. A Biella, quando andavo a scuola, un professore aveva soprannominato così una mia compagna. Piombino. Perché aveva, poca elevazione sotto canestro. Piombino. In fondo, esiste davvero un posto chiamato così.

Tralicci di alta tensione e ciminiere fumanti. Aria sporca ma simpatica.

Aria quasi di casa perché anche a Biella le ciminiere mica scherzano.

Attracchiamo all'albergo Moderno che di moderno ha solo il nome ma anche i prezzi sono vecchi e questo é quello che più ci serve.

Volevamo dormire in barca e ci tocca un lettone matrimoniale stile parto della bisnonna.

E’ molto tardi e riusciamo a fare uno spuntino, in un ristorante vicino. Lì il telefono c'é naturalmente ma non serve a niente perché, adesso che ci penso, scopro di non avere mai avuto indirizzo e telefono dell'ingegnere.

Al cantiere, chiaro, a quell'ora non risponde nessuno e il cantiere é a Donoratico qualche dieci chilometri più a nord. Domani é domenica e al cantiere non c'é speranza di risposta. Ma domani mattina a Baratti troveremo certo la barca.

Ci addormentiamo con questo sogno abbracciati, io e il mio capitano in seconda.

Il cielo é azzurro. Il mare splendido. L'aria tiepida. I pini secolari disegnano, nel cielo i loro fitti ricami scuri. Le antiche tombe punteggiano il verde del declivio come sentinelle in attesa di qualcosa: forse, l’arrivo della Sgnuffi (quella con la prua).

E anche noi, circondati dai nostri sacchi, diligentemente ricchi di nodi da marinaio, imparati nelle notti di inverno, scrutiamo il mare.

Sull'acqua della baia, oltre le barche, galleggia, zavorrato, un grosso bidone: che sia un simbolo?

Vinicio accoglie la sua auto con signorile noncuranza: no, l’ingegnere non si e' visto.

Passano le ore e la mattina invecchia.

Le antiche tombe son sempre ritte di sentinella. Noi invece ci siamo accasciati su una panchina.

- Signor Gastaldi! -

La voce... questa voce... ma sì! E’ l’ingegnere!

Come il cuore si apre alla vista di un vecchio amico che si credeva perduto, o di un biglietto di lotteria vincente, così io e la Sgnuffi ci spalanchiamo alla gioia di tanta vista: l’ingegnere ci corre incontro atteggiando la faccia espressiva al codice desolato-chiedo-scusa.

Il varo non e' avvenuto. Causa un ritardo nell'arrivo dell’albero di Canclini. Oggi é domenica e non può avvenire. Non per le gru del porto, ma per via della Stradale. Perché la barca dovrebbe viaggiare con la scorta della Polizia dal cantiere fino a Piombino. La Polizia chiude un occhio, ma solo all'alba dei giorni feriali. Non di domenica. Troppo traffico anche all'alba. L'austerità é ancora lontana.

Per dimostrarci la sua simpatia e farsi scusare con maggior benevolenza, l’ingegnere ci invita a pranzo nella sua bella villa che si affaccia proprio sulla spiaggia di Donoratico. E poi la sera ci presta la sua auto per tornare a dormire a Piombino.

Visto che ormai l’effetto coreografico e' piuttosto, rovinato cerco di convincere l’ingegnere a consegnarmi la barca a Piombino e buonanotte.

Dice di sì, ma non mi sembra molto convinto. In ogni modo il varo e' per l’indomani tra le nove e le dieci.

Il guaio é che la Sgnuffi ha sentito e non posso più dirle che dobbiamo essere al porto per le otto, unico modo per arrivare appunto tra le nove e le dieci. Così arriviamo sulle enormi banchine alle undici.

Il sole picchia già con ferocia. La grande gru é immobile. In acqua si dondolano due barche, ma non la Sgnuffi. Ahi.

C’é un guardiano sonnolento seduto da una parte e lo sottopongo a stringente interrogatorio: no, non sa nulla. Ah sì, sa che smonta a mezzogiorno. E torna a sonnecchiare.

Se non hanno varato allora vuol dire che sarà successo qualche altro contrattempo.

La Sgnuffi (quella con due gambe da fischio) guarda le acque nere del porto: che sia colata a picco appena varata? Ti ricordi di quell'amico che ci aveva raccontato di quel varo dove la carena della barca aveva il buco per il log che poi non era stato montato?

Uffa! Oggi è lunedì e al cantiere risponderà qualcuno. Infatti mi risponde un operaio in perfetto toscano aspirato:

- O che dice che non gli é arrivata la barca??! Ma se é partita da qui che saranno state le cinque! -

Le cinque. Anche a spingerla a piedi per le sei era nel porto. Sospetto: quelli hanno varato in fretta e furia e si sono precipitati a Baratti per la cerimonia della consegna. Maledetti toscani!

Saltiamo sulla macchina dell'ingegnere e via a tavoletta fino all'elettrauto. S1, perché si é accesa la spia rossa del generatore. Questa mi si ferma in aperta campagna e quest'inseguimento alla Sgnuffi non finisce più.

La Sgnuffi bionda ride: la Sgnuffi con l’elica le sta proprio simpatica.

Perché mi fa correre correre correre proprio come a suo tempo ha fatto la Sgnuffi senza elica.

Fin dove può arrivare la presunzione delle donne?

L'elettrauto non ha fretta. Poi mi cambia un fusibile. Poi controlla chissà cosa. Parte la cinquemila. Pazienza. Uno skipper non può mica lesinare su queste quisquilie.

Centocinquanta all'ora: oooooh!

Fin dall'alto della strada vedo, in un trionfo sfolgorante di sole, la Sgnuffi dondolarsi al centro della baia. Ha tutta la luce di un miraggio.

Ficco, la macchina nel primo buco di parcheggio, e mano nella mano io e la Sgnuffi ci precipitiamo sul pontile facendo grandi gesti di saluto alla nostra barca.

Qualcuno equivocando ci risponde salutando da sopra la nostra barca.

Poi un barchino si stacca da qualche parte e un marinaio viene a prenderci remando. Guardo l’ora che scocca sul quadrante della Storia: sono le dodici esatte del giorno 24 di luglio del 1972, anno del Signore.

Tre minuti dopo monto sulla Sgnuffi (quella con una sola poppa, chiaro!) e stringo la mano dell'ingegnere che ricambia la stretta ma non sorride.

La sua faccia espressiva ha di nuovo un significato nel codice delle smorfie: ci-é-capitata-grossa-chiedo-scusa.

Ignoro perché devo dare la mano alla Sgnuffi dalle belle gambe che ora ne sta passando una oltre il bordo del pozzetto entusiasticamente aiutata dal marinaio rimasto nel barchino. Guai del bordo libero un po' alto.

L'ingegnere, compito, sfiora la mano, del capitano in seconda con le labbra e poi si permette un sorriso con un terzo della bocca:

- Abbiamo avuto un piccolo guaio. -

Il cuore mi si ferma mentre il mio sguardo smarrito vaga verso i lucidi fianchi della Sgnuffi (quelli in vetroresina) col terrore di vedere un qualche orrido squarcio, una sconcia rigatura, una macchiolina indelebile. Ma i fianchi sono splendidamente torniti, orgogliosamente candidi.

- Abbiamo perso l’elica. - Lo ha detto bene l’ingegnere, con estrema simpatia, quasi con affetto: abbiamo perso l’elica.

Adesso le due Sgnuffi sono già più eguali: nessuna delle due ha l’elica.

Il racconto del fatto ci viene sorriso col pudore di una nuvola di fumo di sigaretta: gradisce? No grazie, non fumo mai senza elica.

E’ stato a due o trecento metri dalla rada. Il varo é andato benissimo e poi a sette nodi, con due terzi di giri motore, intorno al promontorio. Bello il promontorio, così a picco. Anche il mare splendido.

Ah già, l’elica. Be’, quando il marinaio ha messo in folle, si é sentito il motore salire di colpo di giri. Forse l’elica era stata fissata male e quando é cessata la pressione dell'acqua sulle pale si é sfilata. Nel passaggio al linguaggio tecnico l’ingegnere acquista sicurezza: in ogni modo é già partito D'Artagnan per Milano e tornerà prima di sera coi gioielli della regina presi da Orvea.

- Il folle passando in folle e sentendo l’aumento dei giri non ha pensato a buttare qualcosa di vuoto, la sua testa per esempio, per segnare almeno il posto dove ha perso l’elica? – amaro sarcasmo.

No, il folle la testa ce l’ha ancora sul collo. Forse gli servirà in un’altra occasione.

Strano. L'incidente non mi dispiace. Capisco anche il perché. Davanti al costruttore della tua barca ti senti un po' come davanti al padre della donna che stai per sposare: lui conosce tutti i pregi e i difetti di quello che ti sta per appioppare e tu no. Be’, é una posizione scomoda.

Ma se il padre della sposa perde l’elica... le cose cambiano un po', in chiave psicologica voglio dire. L'ingegnere che perde l’elica anche se ha fatto la Cape Town - Rio de Janeiro da meno soggezione.

Comincio a slegare un sacco: quel nodo savoia che si slegava sempre é diventato maledettamente duro, comunque ecco muta, maschera e pinne.

L'ingegnere guarda con distacco, conversando con la Sgnuffi che sta dando un'occhiata alla barca' odorante di coppale.

- Posso provare a cercare l’elica. - affermo brandendo le mie lunghe pinne, memore di quelle spinnate della madonna che mi portavano lungo le scogliere del Circeo e fino alle secche.

Questa volta l’espressione non é neppure in codice, proprio papale papale:

- L'abbiamo cercata per quattro ore. Ma trovare una cosa sul fondo del mare é molto più difficile di quanto sembri. Si passa e si ripassa magari dieci volte sullo stesso posto e mai un metro più in là. Poi l’acqua non é limpida e ci sono le alghe. -

Ha ragione e non va contraddetto. Ha anche svagato da tempo che non sono Chichester e so per esperienza che la gente interpola volentieri l'ignoranza del prossimo in un settore a tutto lo scibile traendo confortanti conclusioni di superiorità.

Però dobbiamo aspettare D'Artagnan e fa caldo. Faccio il bagno.

Prima del tuffo agguanto il marinaio che ha perso l'elica.

- Dov'é successo più o meno? - Mi indica una goletta alla fonda al largo:

- Tra quella barca e la punta del promontorio della rada, cinquanta metri più, cinquanta metri meno. -

Lascio, la Sgnuffi che sfodera già il suo minibikini seduta sulla Sgnuffi senza elica e comincio la spinnata.

Il fondo é sabbioso con grandi ciuffi di posidonie e l’acqua si va intorbidendo mentre procedo verso il largo della rada. Il fondo scende lentamente e resta quasi orizzontale sui dieci metri per un bel tratto.

Sono quasi in zona, ma adesso il fondo non si riesce più a vederlo.

Si indovinano i folti di posidonie dal colore più scuro, ma bisogna sommozzare per dare un'occhiata chiara.

Così é davvero improbabile che capiti proprio sull'elica, ma se ci riuscissi... be’, non si vive di solo pane, vero?

Fortuna che pesco in apnea e che al saliscendi per ore sono abituato.

Adesso il fondo é a dodici metri. Mi tiro dietro il mio pallone segnasub perché in rada passano anche i soliti cretini coi motoscafi lanciati a sessanta all'ora. Non che il pallone li tenga tutti lontani, anzi c'é sempre quello che ha vinto la coppa dell'idiozia e che ci punta sopra il suo cento cavalli fuoribordo per venire a vedere che cos'é quel coso arancione che sembra alla deriva.

Agli affettati resta la soddisfazione di essere in regola con la Legge.

Su e giù per un paio d'ore lungo la linea immaginaria che unisce quella bella goletta al promontorio.

Sommozzo più verso la goletta che verso il promontorio calcolando che uno che porta una barca, in rada tende a tenersi il più possibile verso il centro della stessa.

Già, proprio là dove é più fondo. Le posidonie sono folte e molto sviluppate. Se l’elica si è sdraiata in mezzo ad una di quelle praterie, amen.

Dopo due ore sono già stanco. Strano, pesco magari per cinque o sei ore senza stancarmi. Si vede che il ritmo é meno intenso o forse la pesca mi diverte e mi stanco meno.

Purtroppo il fondale di Porto Baratti non é neanche bello: solo sabbia, posidonie scure e qualche vecchio barattolo.

Ma oltre la nebbia gialla che intorbida l'acqua, oltre il confine ondeggiante di un mazzo di posidonie, intravedo una forma inconsueta: come due gnacchere studiatamente inclinate una rispetto all'altro. Altro, che gnacchere, gente! Quella é 1'elica della mia Sgnuffi piantata fino al mozzo con una pala nella sabbia e le altre due dritte come le orecchie di un cane da guardia.

Porco mondo, come pesa! La svello, dalla, sabbia e mi poso con lei sul fondo. Pinneggio con rabbia e mi sollevo di due metri. Devo lasciarla andare o ci resto anch'io con le orecchie dritte come un cane da guardia.

Fortuna che la legge ha inventato il segnasub. E io so che serve. Non per gli idioti affettatori ma per portare i pesi. Vado giù con la sagola del pallone e la passo nel mozzo dell'elica: dove va, adesso?

Ù pallone vien giù di due spanne sott'acqua ma porta quasi tutto il peso. Mi aspetta una spinnata di trecento metri con elica da sessanta centimetri di raggio in bell'ottone lucido.

E’ per questo che sono senza fiato quando arrivo sotto il bordo della Sgnuffi che mostra la barra dell'elica nuda, orrenda come una mutilazione.

E’ lei la prima a rabbrividire di piacere nel vedermi con l’elica in braccio.

La seconda a rabbrividire di piacere é la Sgnuffi bionda che sta conversando con l’ingegnere. Scrutano le acque al largo, nella rada, pensando che io sia ancora là e l’ingegnere dice:

- Suo marito si sta stancando inutilmente, signora. E’ impossibile trovarel’elica là in mezzo.-

Ooooh, issa! L'elica a tre pale emerge grondando acqua, ancora imbragata con la sagola del pallone e il peso mi spinge sotto. Ma la mano e l’elica restano fuori mentre pinneggio con disperato vigore.

Qualcosa deve avvenire fuori dall'acqua perché dopo un po' il peso mi viene tolto ed io emergo come un tappo, sbuffando come un tricheco ma come un tricheco felice.

Alle brevi esclamazioni incredule dell'ingegnere si uniscono quelle dei marinai, ma poiché ostriche a tre pale non crescono in fondo al mare, tutti devono ammettere che si tratta proprio dell'elica perduta.

Bene, gente, a questo punto quando i marinai mi chiamano skipper non mi sembra più che mi prendano per i fondelli. Anche se tutto questo non c'entra un tubo, col saper navigare. Ma sapete già com'é: la gente é portata a interpolare...

Superato lo stupore anche l’ingegnere é soddisfatto: dopotutto un'elica così costa un'ottantina di mila lire! E ci compra il gelato.

Dopo un paio d'ore arriva il Carmignani: un tecnico preziosissimo visti i festeggiamenti. Ha le bombole in spalla e mugugna che mica si va e si viene da Milano così in fretta e contava di montare l’elica in serata.

I mugugni diventano bolle e l’elica torna sull'asse con chiavetta ben serrata. Almeno tutti lo speriamo.

E’ il momento della verità: forza Sgnuffi! L'ingegnere mi fa vedere come si fa. Qui si infila la chiavetta e gira. Subito il motore si accende e ronfa. Si innesta il comando morse e si va avanti.

Cosa che la Sgnuffi fa stupendamente proprio come se avesse fatto il corso alla Lega.

Il Carmignani é a bordo con noi e di tanto in tanto si sporge a poppa per poi annunciare, non senza orgoglio, che l'elica c'é ancora.

Purtroppo l’ingegnere ha degli impegni e il giretto di collaudo é corto. Si torna all'ancora dopo un'oretta.

Strette di mano e saluti.

Per caso do un'occhiata alla bussola di rilevamento e poi a quella impiantata Sul cruscotto: una delle due dà i numeri. C'é un divario di sessanta gradi! Mi sposto con la bussola di rilevamento in pugno: niente.

L’errore é su quella del cruscotto.

L'ingegnere asserisce categoricamente che la bussola montata come al solito e che nessun cliente si e' mai lamentato. Mi ricordo delle foto pubblicitarie del Multi: ne mostrano uno che naviga sotto spi nel lago di Garda. L'avrà mai guardata la bussola quello skipper?

Osservo pacatamente che é un peccato che l’errore sia soltanto di sessanta gradi: se l'ago faceva tutto il giro sarebbe stato perfetto e senza bisogno di compensare.

L'ingegnere ammette che sessanta sono un po' tantini e che forse gatta ci cova.

Ormai Carmignani é andato via. Domattina ce lo rimanda e ci sistema la deviazione di sicuro.

Di nuovo strette di mano e saluti. Guardo Vinicio che porta a riva l'ingegnere e gli operai del cantiere.

Io e la Sgnuffi con due poppe siamo soli sulla Sgnuffi monopoppica.

Siamo, soli sulla nostra barca!

Avrà l’elica facile, perderà spesso la bussola, ma già le vogliamo bene.

La nostra barca. Che voglia di rovistarla tutta! Su i paglioli! Giù i materassini! Mani nei gavoni con voluttà.

Spazio. C'é una sensazione di spazio che nelle altre barche non c'é. Sembra uguale agli altri Multi eppure sento che é sottilmente diversa: più femminile, che ne so, civettuola.

Intanto sculetta sull'onda molle della rada, un po' mignottella come le femmine femmine. Quelle che portano alla rovina fior di gentiluomini.

Quindici milioni per montarci sopra é un bel pagare, dopotutto...

Guardo il capitano in seconda un po' preoccupato: non vorrei che quello sculettio le desse fastidio. Va bene che é un esercizio in cui il capitano in seconda non é secondo a nessuno, ma... No, la Sgnuffi bionda sembra prenderlo bene. Così decidiamo di cenare a bordo e di non scendere.

Spaghetti al sugo e carne in scatola,. Sorge la luna che inargenta tutto l’inargentabile. Poesia. Meglio prenderla a piccoli sorsi, però. Forse una passeggiata sul lungomare dopotutto non ci farà male.

Riemerge il bravo gommone dalla consunta sacca blu e gli do un sacco, d'aria col soffietto. Si gonfia tutto come nuovo, anche lui é contento di tornare a galla.

Il sei cavalli é legato così bene nel pozzetto che sarebbe un peccato scioglierlo.

Due colpi di remo e via, neri nella notte guardando la sagoma chiara della Sgnuffi che continua a sculettare mentre l’onda le accarezza la poppa.

Riusciremo a dormirci sopra? Non ce lo chiediamo, apertamente ma giriamo intorno all'argomento.

- Io quando, cambio letto non dormo, mai. –

E anche:

- Chissà che umido ci sarà. E’ come farsi un buco nell’acqua e dormirci dentro. -

Sarebbe comico se dovessimo portare i sacchi a pelo sulla banchina. Meglio tornare subito e levarsi il pensiero.

Le cuccette sono comode e non c'é poi tutto quest'umido.

Splasc. Splasc. La prima notte in barca. Splasc. Splasc.

Sto fermo, sdraiato di schiena sulla gomma morbida del materasso, ma quello che c'é dentro lo stomaco ripete il ritmo dell'onda: splasc. Splasc.

Non mi piace mica. Eppure da piccolo piangevo se non mi cullavano. Questa é una culla che non si ferma mai. Splasc. Splasc.

Fatto mai l’amore in una culla? Comunque aiuta a non ascoltare l’onda.

Io e la Sgnuffi bionda abbiamo, i nostri modi di inaugurare letti.

La luna e' alta nel cielo. Un silenzio non ascoltato da tanto. Non si muove nulla nella rada che non sia mosso da quest'onda molle e accarezzante. Splasc! Splasc!

Anche le quattro chiacchiere affettuose con la Sgnuffi dalle lunghe gambe hanno termine e il capitano in seconda torna nella sua cuccetta.

Ah sì, perché la matrimoniale basta appena per me. Non ascoltate i venditori quando, vi dicono, che le cuccette devono essere strette per essere comode, altrimenti non si riesce a dormite sopravvento. Non li ascoltate se non avete in progetto i quaranta ruggenti.

E se li avete in progetto non starete certo ad ascoltare gente che novanta su cento dorme per trecentosessantacinque notti all'anno in giganteschi lettoni matrimoniali con testiera e le uniche onde che hanno mai avuto sotto il sedere sono ondaflex.

In realtà le cuccette sono strette perché vogliono stiparne sette dove ce ne andrebbero quattro e perché in due o tre metri di larghezza fuori tutto sarebbe davvero un guaio se le cuccette per essere comode non dovessero essere strette.

Ma stavolta ho la soluzione ottimale: cuccette il più larghe possibile e due belle asole nel materasso a dieci, quindici centimetri dal bordo per lasciare passare le eventuali cinghie che vi terranno a cuccetta anche nei quaranta ruggenti.

Il capitano, in seconda non dice niente, ma non dorme mica. Deve sentire anche lei quella bolla nello stomaco che fa splaso splasc! Anzi, io sono più refrattario al mal di mare...

Dormicchio. Mi sveglio di colpo. Un colpo. Forse qualcosa ha urtato la barca o qualcuno... Mi alzo piano. Una sbirciatina fuori. Grigio. I vetri sono appannati dai nostri fiati. Socchiudo la porta della cabina. Grigio lo stesso. Siamo avvolti da una nebbia grigia. Deve mancare pochissimo, all'alba. I contorni della rada sono cancellati. Vedo la prua del motoscafone ancorato dietro, a noi e la punta della banchina con la sua collana di barchini e barcarozzi.

Un silenzio ovattato come in una baita di montagna affogata di neve. La Sgnuffi dorme. Ce l’ha fatta, allora. Un'occhiata all'orologio montato a paratia: quasi le quattro.

Mi sdraio di nuovo. Lo diceva quel manuale che il sonno dello skipper é leggero! Almeno in questo mi sono adeguato. Anzi adesso e' così! leggero che resto con gli occhi aperti a pensare.

Mai pensare alle quattro di mattina sdraiati sulla barca nuova non pagata che per un terzo o giù di lì.

Bene, ora la barca c'é. Ma in fondo non e' che mi servisse proprio. Figuriamoci, per andare alla secchetta davanti al porto... Be’ no, adesso con la barca posso arrivare a pescare a Ponza. Già, quel tale mi ha detto che Palmarola e' la fine del mondo, acqua da bere tant’è limpida. Poi magari esagerava. Chissà.

Ci potevo comprare un appartamento. A Roma siamo ancora in affitto. Ma si vive una volta sola. E poi cos'é questa mania della proprietà immobiliare! Una stupidata, un'illusione! Poi si crepa e la terra e la casa restano là. Migliaia di persone diverse, guardando un pezzo di terra, hanno detto compiaciute: questa e' mia. Mica vero. La terra é sempre là e non ci sono più loro. Almeno la barca la adopero e me la scasso io. Già, niente di più facile visto che non ho mai provato neanche una manovra di ormeggio.

Oh dio, domani si parte. Ripassiamo un po’: primo tiro su l'ancora facendo leva sull'arganetto a mano che c'è a prua. 0 prima mollo il traversino che mi lega alla catenaria? Ce n’e' uno anche a poppa mi sembra. Be’ me lo farò spiegare da Vinicio.

Tirar su la vela neanche a parlarne. Magari dopo, se tutto va. bene. L'ingegnere dice che la Sgnuffi va come una sposa con randa e mezzo motore. Eh sì, la randa stabilizza e aiuta un po'.

Per tracciare la rotta sulla carta nessun patema. Vorrei vedere, dopo sei mesi di Cardea. Ma a tracciarla poi con la prua sul mare magari sarà un altro discorso.

Ormai si deve ballare. La rotta più breve sarà la mia. Mica starò a preoccuparmi se non si vede più terra. Anzi, in tutti i manuali c'é scritto che i pericoli sono sempre a terra e mai in mare. Doppiamente vero, nel mio caso. Ma prima o poi dovrò accostare a qualcosa, una banchina, un molo... Speriamo che ci sia qualcuno a darmi- una mano. C'é o non c'é questa mafia dei porti? Mi costerà un cinquemila o un diecione?

Il sole fa capolino oltre le tende arancio. Chi dorme più adesso dopo queste pensate antelucane?

Il sole é già caldo quando la Sgnuffi si stiracchia e pensa al caffè mattutino. Del Carmignani neanche l’ombra.

Una bella remata fino al telefono dell'albergo per chiedere notizie al cantiere. Il solito violento accento toscano giura e spergiura che alle ore 08.00 é partito dal cantiere un "moschettiere" per Piombino allo scopo appunto di agguantare il prezioso Carmignani.

Il mio orologio dice sono le11l.00 tempo locale: evidentemente il moschettiere deve avere incontrato qualche malefica guardia del cardinale ....

Sono le 12.00 esatte quando un pallido stralunato mezzo toscano coi capelli rossicci e arruffati gesticola in banchina. Un'altra bella remata e me lo trascino a bordo gustandomi il messaggio:

- Il Carmignani, da Piombino, dice che l’errore bussola non é dovuto all'impianto elettrico... –

Che vista, gente, che elicottera!

Il pallido e scarno moschettiere cerca di dare un senso ai suoi viaggi e smonta il pannello del quadro, degli strumenti e mi guarda di traverso:

- 0 che lei non doveva partire stamattina? –

- Già! Invece sono partiti bussola, autoclave, log e speedometro. –

- 0 gli é curioso! Un funziona nulla... -

Sollevato il pannello, lo stupendo intrico dei fili sgargiantemente colorati solleva altre esclamazioni di meraviglia del moschettiere mezzo toscano:

- 0 che non gli é bellino?! –

Effettivamente e' bellino: il solito dilemma tra arte e scienza. Ma questa non e' terra di dilemmi di questo tipo. Da secoli qui si usa chiamare arte anche la tecnica.

Il mezzo toscano si torce a cavatappi ed entra nell'armadio. Non per un attacco, di vergogna ma perché levando il fondo dell'armadio con due contorsioni doppie e una giravolta semplice si può accedere al vano pieno di fili colorati che sta sotto il pannello degli strumenti.

Tra una bestemmia e l’altra, il moschettiere biascica a se stesso che lui gli é un pratico, mica un teorico. Lui 'un capisce un cacchio, scusi signora, di tutti quegli strumentini. Ha fatto sl l’impianto elettrico della barca ma senza tante teorie e soprattutto senza schema. Pero' gli ha da essere tutto a posto, gli ha da essere! Suda e si storce uscendo coi capelli irti dall'armadio per vedere quello che ho appena estratto dal ventre della Sgnuffi (quella con l’elica ovviamente!): la ruota a pale del log diligentemente verniciata di antivegetativa.

Sgrana gli occhi e mi guarda: giurerei che e' parente del povero Stanlio, proprio una di quelle magnifiche espressioni alla Cric.

Si dà anche una gratta al cespuglio per completare la somiglianza e osserva giudizioso:

- Bisognerebbe farsi tutto da soli! Glielo abbiamo detto al ragazzo che pittava di risparmiare l’ecoscandaglio e l’elichetta del log! -

Sul fatto che bisognerebbe farsi tutto da soli comincio a concordare, coniugando però il 'verbo un po' diversamente: bisognerà farsi tutto da soli.

Tanto incamero in un angolo del cervello: ripassarsi i principi fondamentali dell'elettricità abbandonati alla beata età delle medie superiori.

Il mezzo toscano gratta un po' di vernice dal log e poi soffia come una dannato sulla ruotina a pale che gira vorticosa. Ma la lancetta sul quadrante resta ferma nella sua idea: zero.

Mezzo toscano, scuote la testa, poi mi guarda con aria accusatrice alzando verso di me lo strumento:

- Ma che, é inglese sto cosetto? -

Ammetto che é inglese. Ghigna soddisfatto come se avesse trovato la soluzione del guasto:

- A me gli inglesi non mi piacciono manco quando dormono. –

E su questa sentenza torna a cacciarsi, avvitandosi, in mezzo ai fili colorati. Per un attimo la testa spunta oltre il groviglio nel buco lasciato dal pannello, poi si tuffa nella sentina. Mugugna insonorizzato dai paglioli, poi riaffiora:

- L'autoclave gli é apposto. Si era solo allentata lo stringitubo. Lo sa che ci vorrebbe? Un fioccbetto rosso!

- Per lo stringitubo?-

- Mica al posto dello stringitubo! Un fiocchetto rosso sulla barca, contro la jella...-

Oh guarda. La barca é ferma e la bussola gira. Spostando la matassa di fili elettrici si é mossa. Controllo. Adesso 1'errore su questa indicazione é di soli 25 gradi. Alla faccia del Carmignani che sta a Piombino.

L'artista venuto al suo posto smonta la bussola in un baleno e comincia a girare per la barca per trovare un posto non disturbato. In cucina, per esempio, ha pochissima deviazione. Probabilmente anche nel cesso.

Ma per fare certe cose mica si ha bisogno di calcolare la rotta: come va, va. E va quasi sempre in centro.

Il tecnico sospira:

- Qui ci vorrebbe un tecnico...

E’ chiaramente una frase conclusiva. Si pulisce le mani e richiude la borsa dei ferri. Lui ha finito. La bussola sbaglia sempre di 25 gradi.

Il log e lo speed continuano a non funzionare.

Mi tocca riportarlo in banchina, due volte perché alla prima si accorge di avere dimenticato le chiavi della macchina in barca. Durante il secondo tragitto intono un canto della laguna, da gondoliere: quando faccio, una cosa mi piace farla bene, io! E ci metto tutto su quell'io.

Il pallido, stanco moschettiere mezzo toscano un po' artista e po' tecnico mi guarda con i grandi occhi sporgenti cerchiati di tristezza.

Cala la tela sull'operazione approntamento Sgnuffi e cala anche il sole. Neanche un applauso.

Tornando indietro mi consolo: vista dal canotto la Sgnuffi é superba.

Sia quella in due pezzi sulla tuga che si mostra all'ultimo bacio del sole, sia quella in un pezzo solo (spero che duri così!) con la sua pancia e doppia prua. Non che sia precisamente elegante ma mi piace.

Poi spaghetti, luna e gioie di bordo.

 

PRIMO GIORNO DI CROCIERA

L'alba umida vissuta in mare. Oblò appannati come se fuori ci fosse latte. Stanotte é andata meglio della passata. Dormicchiatine di due o tre ore, con la Sgnuffi bionda che si é fatta invece tutta una tirata da mezzanotte al bollettino dei naviganti delle ore 06.24. Il mio Hitachi nuovo fiammante parla di alta pressione (barometro 1030) mare quasi calmo. Dodici ore successive: senza variazioni. Allora si parte!

Ma il log e lo speed? Se li hai comprati servono no?

- Come facciamo senza? -

Bevo il caffè e faccio la mia prima dissertazione da skipper partendo dalla nostalgia di quando si navigava guardando le stelle e portandosi dietro soltanto piede e senso marino.

Noi invece navighiamo senza piede e senza senso con un guazzabuglio di ritrovati tecnici che non funzionano.

Mi sembra di averlo detto bene e adesso devo proprio iniziare la manovra del disormeggio. Meno male che siamo lontani dalla banchina e nessuno fa caso a noi. Sarebbe stato troppo provare la prima partenza davanti al pubblico delle banchine che so invidioso e malignamente critico.

Prendo accordi col capitano in seconda: via le tendine dagli oblò. Uh, che scarsa visuale! La prua monta nel cielo e nasconde un bel tratto di mare davanti. Poi c'é un bell'angolo cieco per via dell'ampio montante della tuga. Bisognerà farci l'occhio. Spero di non farci anche il naso andando a sbattere da qualche parte.

Allora, l’ingegnere ha detto: si gira la chiavetta. Ah no, prima la leva va messa in folle a accelerata. Ecco fatto. Giro la chiavetta.

Evviva! Il motore risponde e si accende: non si e' accorto di nulla.

Non ha notato il cambiamento di mano.

Adesso non resta che tirare su l'ancora e mollare il traversino.

Il capitano in seconda, volenterosamente comincia a pompare sull'argano facendo ingoiare catena al gavone di prua. Dieci colpi, venti, trenta. Dal mio, posto di comando, mani sulla ruota, posso godere il notevole panorama del capitano in seconda piegato in due che punta verso il sole le sue splendide rotondità guizzanti per Il lavoro muscolare adesso perché smette? Mi guarda da prua e scuote l'aureola bionda: non ce la fa più. Il motore romba, la leva e' sempre in folle, penso di poter lasciare e fare un salto a prua.

Le altre trenta energiche pompate toccano a me e finalmente la Danforth affiora addobbata di alghe.

Momenti di suspense. Non siamo più ancorati. Uno sguardo di apprensione a trecentosessanta gradi. Tutto pacifico nella luce solare che sta scorciando le ombre del mattino.

Dietro c'è il motoscafone. A sinistra, molto più avanti, la goletta.

A destra, a venti metri c'è uno sloop gigantesco in legno con una donna sdraiata sul bompresso che prende il sole.

Coraggio. Via il traversino! Butto in mare la grossa cima e mi precipito in cabina.

Crash!

L'alluce, il ditone, proprio di punta calcia con violenza il bordo inferiore del vano d'ingresso. Tre stellette nere mi si accendono davanti agli occhi. Sono stato io, sono stato io a farlo fare cinque centimetri più alto per avere un baluardo migliore nel caso di allagamento del pozzetto!

Ma non c'è tempo neanche per bestemmiare. La barca non è piu' attaccata a niente e c'è un venticello che si alza dal mare. Certo staremo già scarrocciando. Bisogna ingranare l’elica!

Incastro la leva e spingo con cautela, abbrancato alla grande ruota. Si muove!

La Sgnuffi ronfa e si muove. Meglio andar via dritti fino al largo e poi virare a sud oltre il promontorio. Ma perché vira? Ma perché vira questa barca femmina traditrice?

- Drizza il volante! Drizza il volante! - è l’urlo avvilente e autostradale del capitano in seconda che è rimasto nel pozzetto aggrappato al bordo e che ora fissa con terrore la prua dello sluppone con tanto di bompresso verso il quale la nostra prora sta puntando malignamente desiderosa di un contatto quasi carnale.

Non sottilizzo e ruoto la ruota tutta a dritta finché si blocca contro il fermo. Niente: caparbia, solenne, autodecidente, dispettosa la Sgnuffi dalla bianca poppa continua il suo avvicinarsi al fallico pennone del bompresso del virilissitno sluppone.

Un avvicinarsi strano, a semicerchio. Aggrappato alla ruota tutta girata sulla dritta fisso con occhi appannati e cervello in subbuglio quel mostruoso avvicinarsi e l’ineluttabilità dello scontro mi mette acqua nelle gambe, come un accettare una fatalità che toglie ogni forza di reazione.

Come flash bruciati al magnesio le meningi consumano ciò che sanno: è con la barra che per virare a destra si mette a sinistra, con la ruota no, porca barca, con la ruota è come in macchina: a destra per andare a destra e a sinistra, per andare a sinistra! E io sono a destra, tutto a destra! Perché mai questa disgraziata va a sinistra? E ci va come se fosse... LEGATA!

Balzo fuori come un pazzo mettendo in folle.

La signora sdraiata sul bompresso e' già passata dalla posizione sul gomito significante distaccato interesse a quella sulla mano: inizio di preoccupazione. Ma adesso scatta in piedi con occhi sbarrati mentre guarda la prua della Sgnuffi che, portata dall'inerzia, sta andandole addosso.

Ecco cosa non ha questa benedetta barca! Non ha i freni! E invece uno ce l’ha. Un bel freno di corda che il buon Vinicio in un momento di chissà quale profonda distrazione ha rintorcinato intorno al basamento del portacanne che ho fatto montare in previsione di chissà quale big game.

E’ il maledetto traversino, teso come una corda di chitarra, che ha costretto la Sgnuffi a girare in tondo ignorando i buoni consigli del timone. Ma adesso è il benedetto traversino che frena lo slancio impudico della prua e impedisce il contatto con lo sluppone, lasciando il grosso bompresso fremente a non più di venti centimetri dalla bocca di rancio. (Per i più alpini: bocca di rancio non ha niente a che vedere con la bocca dei burba, ma è il buco dove scorre la catena dell’ancora).

E’ fremente anche la donna in bikini che ci fissa incerta: è stato uno scherzo per farle paura o un incredibile errore di manovra?

Gli erculei sforzi di tutto 1'equipaggio compreso il capitano in prima e in seconda per cercare di allentare il traversino, tornato maledetto, di quel tanto che si deve per svincolarlo, cominciano a farla propendere per 1'errore di manovra. Ci guarda e non fiata, nel senso che, non parla, perché per fiatare fiata e a ritmo accelerato per la fifa presa.

- Vinicio mentre mi parlava era un po' imbarazzato e ho visto che attorcigliava, questa corda qui, ma... -

Un ruggito sordo che mi trema nella gola contratta lascia esitante il capitano in seconda. Il pollice della destra mi va sotto il traversino che comincia allegramente a segarlo aiutato dal movimento del bordo della barca. Stringo i denti e insisto nello sforzo disperato, memore dello sprezzo per il dolore mostrato dal capitano del Makatea. E alla fine il traversino è a mare. Insieme a mezz'etto di pelle delle mie dita.

La signora dallo sluppone dice qualcosa, ma già la Sgnuffi (quella con l’elica) sta derivando di nuovo verso l’acuminato bompresso e non c'è tempo per rispondere.

Con un balzo colpisco in pieno con precisione invidiabile il bordo inferiore di quello schifo di buco da cui bisogna pur passare per entrare in cabina: lo colpisco nello stesso posto e con lo stesso dito. Stavolta le stellette nere sono almeno sei: quasi una promozione sul campo.

Ululando come una sirena da nebbia mi attacco alla leva dei comandi e innesto una furiosa marcia indietro. Riesco ad impedire l’irreparabile.

Come un marito che riesca in estremis a trascinare indietro la moglie infedele aggrappandosi alle sue anche già nude per sottrarla all'amplesso disonorante, così riesco a tirar via la Sgnuffi da quell'erto bompresso e a conservarle virginea la prua e il fianco.

La rabbiosa marcia indietro, con il timone tutto a destra, mi porta ad un'uscita dalla rada unica nel suo genere: semicircolare all'indietro a tutto gas. Bellissima.

La signora dello sloop si rimette a cavallo del suo intatto bompresso e grida qualcos'altro. La Sgnuffi in bikini risponde qualcosa di confuso per me che sto cercando di moderate il gran cerchio indietro che mi sta portando verso il promontorio. Ruoto tutto a sinistra e lascio un po' di pelle di nocche della mano destra sul bordo tagliente del cruscotto: c'è poco spazio tra la ruota e il cruscotto dalla parte destra.

Annoto mentalmente irridendo alle vampe di dolore che salgono dalle nocche. Sento che e' davvero cominciata una vacanza tutta speciale.

La Sgnuffi dalla bianca poppa si sta raddrizzando e prima di ingranare la marcia avanti sento il mio biondo secondo che urla alla signora che monta il bompresso:

- Andiamo al Circeo!!! –

Ingrano una bella marcia tutta avanti e la barca mi sculetta sotto compiendo un altro bel semicerchio, stavolta docile come una sposa, e puntando obbediente verso l'immenso azzurro.

Chissà se c'è stata risposta da parte della signora del bompresso: voltandomi l'ho vista farci uno strano gesto con la mano, come di minaccia. Per la nostra incoscienza se ci ha creduti, per la nostra faccia tosta se ha pensato di essere presa in giro.

Ma la barca va. E finché la barca va eccetera. Se non fosse per il ditone gonfio e il sangue che mi cola dalle nocche fin sulla moquette potrei già parlare della poesia dello sconfinato mare, della tersita del cielo e delle bellezze di Piombino fumante carbone e ruggine che mi sta trascorrendo, sulla sinistra.

Faccio un segno alla Sgnufffi con due poppe:

- In barca c’è una sola corda, quella della campana. – sentenzio.

Dal libro di bordo: partenza da Baratti ore 08.05 rotta bussola 190° vento forza 2 foschia.

La rotta bussola non è quella della bussola rotta ma quella della bussola da rilevamento che impugno di tanto in tanto per controllare quella che segna 225° o giù di lì..

E adesso Cardea, a noi! Compasso e squadrette, matita, gomma e libro delle tavole.

Ore 10.05: rilevamento Cerboli per 255'. Punto stimato a 4 miglia sulla Rv da Piombino. Il calcolo dà una velocità di sette nodi.

Riprendo la ruota soddisfatto e do un'occhiata gongolante alla Sgnuffi che mi guarda perplessa dando a tratti significative occhiate verso la costa che va sfumando nella foschia trasformando Piombino in un'isola e il mare davand a noi in un infinito oceano misterioso.

Indago nella sua perplessità ma sfugge trillando:

- Ci facciamo un panino? - ma dopo qualche secondo, a tradimento, dalla cucina:

- Davvero vuoi tagliare dritto? La prima volta forse e' meglio costeggiare...

Fortuna che le ho letto il libro di Moitessier e il suo dialogo con la moglie circa la "rotta più logica". Se lui ha convinto la moglie a girare da Capo Horn, io posso sperare di riuscire a convincere la mia a tirar dritto per Punta Ala. Fatte le debite proporzioni, sono grande anch'io perché la Sgnuffi mi passa il panino e addenta il suo. La bocca piena tace e solo nello sguardo da cerbiatta resta quell'umida nostalgia di terra e di verde.

Mezz'ora dopo ci siamo: mare davanti, mare a dritta, mare a sinistra e mare dietro. E noi, soli, in mezzo. Che non sia l'oceano Pacifico è difficile da dimostrare.

La Sgnuffi ronfa (quella con l’elica, chiaro) e tiene la rotta come chi ha messo, definitivamente la testa a partito. Posso mollare la ruota e andare a finire il mio secondo panino sulla tuga insieme al mio favoloso capitano in seconda.

E’ proprio fatta! La mia barca, la mia donna, il mio mare! I possessivi gonfiano il cuore di grandezza.

Dura un quarto d'ora e poi, dritto a prua, si delinea già la prima ombra di terra.

La genuina meraviglia del mio secondo in bikini mi dà la dimensione del suo coraggio. Come il marinaio di Colombo, balza in piedi e punta l'unghia laccata verso quel sospetto di mondo che emerge dalla foschla e lancia il grido che deve essere risuonato dall'inizio dei tempi sul mare:

- Terra! Terra! –

La dimensione del suo coraggio: ha mangiato tre panini pur covando in cuor suo la quasi certezza che davanti a noi non avremmo trovato che acqua per l'eternità!

Con movimenti ormai carichi di significato faccio il punto nave sulla carta e scrivo nel libro di bordo tre quarti d'ora dopo: ore 11.02 Scoglio Sparviero al traverso, e già Punta Ala trascorre e la prua punta ancora sull'orizzonte.

Ma ormai è routine. Il diesel diventa un suono naturale per l'orecchio e scandisce i suoi 1.700 giri al minuto con la perfezione del grande solista. La barca tira la sua rotta sull'acqua calma e azzurra proprio come io l'ho gia tirata sulla carta.

Un nodo mi si scioglie dentro. Solo adesso mi accorgo che anch'io, giù in fondo, dove non arriva lo sguardo della coscienza, ho sempre dubitato. Di cosa? Ma... forse di tutto. Dubitato che la Terra fosse tonda, che la bussola facesse poi proprio quello che diceva Cardea, che la barca si spostasse sul mare proprio come diceva l'ingegnere, che le coste fossero proprio come sono disegnate sulle carte. Dubitavo, certo soprattutto di me, nato fra le cime alpine, con le mani arrogante mente strette intorno alla ruota di un timone.

Le coste dell'Argentario fanno sorridere la Sgnuffi dalla pelle dorata. Non c'è più quella bella meraviglia nel vederle sorgere dalle acque, ma ancora un refolo di sollievo esce dalle sue labbra carnosette e ben disegnate.

Scrivo sul libro di bordo; Punta Avoltore ore 15.57.

Non c'é proprio onda e piazzo il capitano in seconda al timone: mi sento montare un'onda di sonno: è quell'improvvisa stanchezza che coglie i grandi dopo il culmine di storiche prove.

Dormicchio steso sul divano della dinette. Andarmi a ficcare proprio in cuccetta, a prua, con la Sgnuffi che timona, chissà, ancora non me la sento.

Fa caldo. Porto Clementino è un paesetto senza porto e io credo di riconoscerlo nella già rosata luce del tramonto, puntandoci sopra il cannocchiale.

La Sgnuffi, guidata dalla Sgnuffi, continua a fendere l'onda del Tirreno. Meta: Civitavecchia.

Controllo la bussola rotta: rotta bussola con 10' di errore! Vuoi vedere che finirà per andare tutto a posto da solo? Accendo il log e lo speed.

A quanti miracoli credi di avere diritto? Log e speed dicono che siamo immobili come il Cervino della mia infanzia.

Comunque ora si accosta e si costeggia fino a Civitavecchia. Riprendo il timone e con lui anche le mie preoccupazioni: sto per entrare nel mio primo porto!

E non è un porticciolo grazioso, su misura di barchini. E’ il porto di Civitavecchia, roba da transatlantici.

Acchiappo le schede che ho riunito staccando le copertine dell'Enciclopedia del Mare della De Agostini e mi piazzo davanti il fotocolor del porto di Civitavecchia.

Chi sei sconosciuto ideatore di quei fotocolor? Che tu sia benedetto, perché se avessi dovuto usare solo gli schizzi del Portolano...

Il nervosismo è in aumento in misura direttamente proporzionale al sole che scivola sempre piu verso l'acqua. Ci mancherebbe pure che diventasse notte prima di essere dentro!

Sì, sì, qualcuno mi ha detto che si entra meglio di notte nei porti per via dei fanali colorati, ma io voglio che sia giorno.

Non è né giorno né notte quando arrivo nei pressi dei giganteschi bracci che invitano ad entrare nel porto.

Due incredibili sagome fosche torreggiano sul mare dirigendosi verso quell'abbraccio di cemento. Nelle onde di poppa dei bestioni diventiamo, acciughe in una pentola che bolle. I bestioni fischiano cupo e qualcuno va in loro, soccorso per tirarli dentro.

Guardo, la Sgnuffi che si è vestita legandosi un foulard sui fianchi e che non stacca gli occhi da quelle cose gigantesche che abbiamo davanti.

Le luci verdi gia accese sono cinque o sei e altrettante sono quelle rosse: verde a destra e rosso a sinistra. I porti van presi cosi. E prendiamolo.

Il bestione davanti sembra risucchiare l’acqua contro il molo di sopraflutto e poi si dirige sulla sinistra.

La sera diventa sempre più fosca. Motore al minimo e fifa al massimo.

Siamo dentro ma dove andiamo? E dove e come ci si ferma?

Luci, molti interni, sagome di piroscafi. Tuf, tuf, tuf. A dritta. Dov'è quel maledetto porto vecchio che serve per i trabiccoli come il nostro?

Lo vedo solo gru e gru e gru e tubi enormi e banchine da rocciatori ornate di bitte grandi come il tavolo dell'Ultima Cena da cui partono catene dagli anelli grandi come automobiline della "rumba".

- Là! - urla la Sgnuffi aggrappata al pulpito di prua, dito teso e ondeggiando il foulard coi fianchi.

Appiattito dalla luce grigia del vespro, forse a sinistra c'è veramente un anfratto, qualcosa che permette all'acqua densa e nera di nafta di incunearsi di più tra i muraglioni sudici.

Pescherecci e una trentina di barche. Neanche un centimetro di banchina visibile tutt'intorno.

Metto in folle e la Sgnuffi entra dolcemente nel vecchio bacino.

Pescherecci tristi, bui. Yacht legati come spelacchiati cani alla catena ormai rassegnati al loro avvilente destino. Non una luce, un movimento: olio nero sotto e nero che cala dal cielo.

Azzardo un colpetto di marcia indietro per impedire alla Sgnuffi di infilare la prua fra quello sfasciume di legno.

Eccoci al centro del guaio: che si fa? Io non oso certo avvicinare la barca alle altre, manovrare, calcolare l’abbrivio, dare e togliere gas, invertire la marcia. So tutto in teoria, ma qui davvero non posso permettermelo, anche se ho pagato una sventola di assicurazione per metterci dentro proprio tutti i rischi.

Due ombre scure si muovono sulla prua di un peschereccio. Resta una cosa sola da fare: chiedere aiuto.

La Sgnuffi in bikini si sbraccia e nonostante la notte ci riesce: nessun merito, mai visto, che non sia riuscita ad attirare l’attenzione di qualsiasi cosa appena appena maschile.

I pescatori guardano, e io urlo:

- Non so manovrare! Come faccio per attraccareeeee!? –

Mai confessione fu più urlata senza alcun pudore. E i bravi pescatori si drizzano sulla prua e uno di loro comincia a guidare la manovra:

- Ruota tutta a dritta. Indietro a tutto, gas! –

Eseguo, ma, esito, un po' nel gas.

- Più gaaaaaaas!!!!

Niente da fare. Passato il comando, passata la responsabilità. Da skipper a mozzo, ma bisogna pur cominciare. Do il gas.

La Sgnuffi sculetta e indietreggia spostando lentamente la poppa, sulla destra. Ma certo non bastera per infilarsi tra le prue di quei due pescherecci!

- Senza toccare la ruota, tutto gas avantiii! E chi la tocca! Giù gas!

- Basta! Di nuovo indietroooo! Sbruuum! –

Incredibile: la poppa della Sgnuffi (quella in vetroresina, ovviamente!) è quasi al punto giusto.

Il bravo pescatore ci butta una cima. La Sgnuffi di carne la agguanta e il pescatore urla:

- Le dia volta, signora! Spenga il motoreee! –

Il dito, parte felice a premere il bottone che comanda il solenoide dello stop.

Che bel silenzio! Là, in quelle acque ristrette il rumore del diesel non era più amichevole, era qualcosa di non obbediente, che da un momento all'altro poteva mordere.

Schizzo fuori e stavolta il ditone urta il bordo dalla parte interna:

-…aaaaah! - ma riesco a trasformare l'urlo in saluto, e suona: - Aaaaaah, grazie! -

Do volta alla cima e il pescatore tira, tira e ci porta sotto la sua altissima prua.

- Parabordi! -

Sono già tornato skipper. Il secondo obbedisce e butta fuori bordo palloni e cilindri di gomma.

- Mezzo marinaio! –

Ordino e lo afferro, puntandolo contro la chiglia del peschereccio. Riesco a far scapolare alla poppa della Sgnuffi quella ruvida chiglia e poi salto sull'altro lato a spingere contro il fianco dell'altro barcone.

Siamo fermi, ormeggiati, anzi incastrati.

- L'ancora non serve! - ci grida ancora il pescatore.

Questo l’avevo capito anch'io. Siamo fermi ma piccoli movimenti ci sono: bastano, per fare rotolare via i parabordi dai punti più esposti lasciando che la tenera, Sgnuffi dalla vetroresina candida entri in contatto coi quei rudi scorridori dei mari.

Il salvagente, una matassa di corda, tutto quello che riesco a trovare diventa parabordo.

Il pescatore ora vuole una cima nostra e gliela butto. Salta dalla sua barca ad uno sfasciume marcio che sta ormeggiato proprio in banchina. Ci lega là.

Sono passate le 21.00.

Stanchi morti ma affamati. Mi ricordo che al porto c'e' una trattoria specializzata nella zuppa di pesce. Ci muoviamo per tentare la scalata della banchina che torreggia alta su di noi, quando la voce dell'amico pescatore ci ferma ancora:

- Che, ve ne andate? -

- Sì, andiamo a mangiare.

Ride. Poi, bonario, ci ammonisce:

- Oh, qui state proprio nella mala mala, eh! Qui ci rubiamo tutto pure tra di noi. Se ve ne andate tutti non trovate più manco la barca. -

Si sentono delle risate lugubri provenire dal buio. Guardo quelle sagome possenti che ci sovrastano, il marciume che abbiamo a poppa, il buio sulla banchina altissima. Meglio fare uno spuntino a bordo, non si sa mai.

Ma al posto del frigorifero a bordo c'è un bel buco, dove abbiamo stivato le borse. L'ingegnere ce l’ha mostrato sorridendo: il frigo e' compreso nel prezzo ma ancora non è arrivato. Ve lo manderemo da Petrini. Già, ma non abbiamo acqua fresca. E se c'è una cosa che avvilisce 1'equipaggio sulla Sgnuffi è non avere acqua fresca. Soprattutto il secondo ne fa una malattia.

Ma sotto la rude scorza dello skipper pulsa un cuore generoso.

Ci sono due strade per arrivare a terra: arrampicarsi lungo la cima tesa fra noi e lo sfasciume, oppure il Laros fino ai piedi della parete e poi chiodi, scarponi, corda doppia e martello.

Da buon alpino scelgo la seconda soluzione. Scalata memorabile sfruttando gli intarsi del tempo scavati tra blocco e blocco di granito.

Attento a non scivolare sullo strato di grasso che dovrebbe spingere gli archeologi a sapienti scavi per studiare le miscele oleose al tempo della repubblica romana e forse anche diventare edotti sui grassi che usavano gli etruschi per ungere le cime.

Ho certo addosso un campionario di tutto quando riesco a piantare la bandiera sulla vetta, emergendo, dal limbo nero sottostante nel pallido alone di un lontano fanale.

Scalata memorabile ma nessuno mi applaude né mi intervista. Accantono nella mia mente il vergognoso progetto di andare ad acchiappare l’assessore al turismo di questa città e fargli ripetere la scalata.

Mi faccio una sgambata di un chilometro per arrivare al primo bar, una sgambata col cuore in tumulto: sarà stato prudente lasciare la Sgnuffi sola? Mica la barca, via, quella col foulard. Quella se lo mette in un modo che proprio fa venire voglia di strapparglielo via.

Da grandi navi con la pancia aperta scendono autocarri. Pompe gigantesche riempiono le loro, pance d'acqua.

A me basta una bottiglietta da un litro, fresca però.

Ne trovo una appena freschina e galoppo sulla strada del ritorno. C’é un marinaio ubriaco che vaneggia sulla banchina. Altri due cantano abbracciati con facce vagamente cinesi: dite quel che vi pare di Mao, ma due marinai dalle facce vagamente cinesi mettono sempre un brivido di preoccupazione.

Riconosco il profumo da trenta metri: sughetto fatto dalla Sgnuffi! Profumo di sugo, tutto bene. Difficile che una violentata faccia il sugo per gli spaghetti.

Infatti è ancora "vestita" col foulard sulle anche e armeggia con la pentola di smalto per scolare gli spaghetti senza colapasta nel lavello inox che sembra diventare più piccolo quando serve per simili bisogne.

- Uhuu! - saluto sventolando la bottiglia. La risposta un clangore di smalto e acciaio inox. Addio spaghetti! La Sgnuffi saltella succhiandosi un dito ma gli spaghetti sono, quasi tutti salvi, ancora nella pentola.

Inizio la discesa: perigliosa, difficilissima per via della bottiglia imperlata dalle goccette della rugiada della notte sul vetro più freddo dell'aria.

Mi siedo sul bordo della bancbina, ignorando sputi catarrosi, carte usate per cose innominabili, placche di grasso, aloni di petrolio, latte arruginite, teste di pesci che sembrano uscite da "Tutti i pesci del Mediterraneo" e altre schifezze di più difficile inventario.

Ma ci sarà un assessore al turismo a Civitavecchia?

Ho le gambe più lunghe d'Italia (più o meno) ma non arrivo al primo bordino, bisogna proprio che mi metta a pancia sotto.

Eseguo e adesso posso ammirare le delizie stratificate sulla banchina da non più di tre centimetri dal naso. Spenzolo le gambe nel buio aggrappato al bordo della banchina e alla bottiglia il cui vetro, si va gia asciugando per il venticello tiepido della notte.

Stendo come posso il ditone gonfio e dolorante e finalmente, proprio con l’unghia raschio il sudicio depositato sul bordo che sporge di quasi due centimetri a metà della parete strapiombante sul mare.

Bisogna osare.

Mollo un poco il peso del corpo. Il ditone preme sul bordo, scivola, annaspo disperatamente. Artiglio la pietra, mi puntello col mento, scivolo giu' col corpo. Il ditone trova presa e grida tutta la sua rabbia per quella scalata.

Poi, con mosse dolci struscio ben aderente alla bancbina fino ad arrivare coi piedi sul Laros. Ci sono.

Due colpi di remo in mezzo allo sfasciume, alla nafta e alla scumma e schifezza e fetenzia e purcaria, come dicono a Napoli, e sono gloriosamente a bordo. Pronto per la doccia che per fortuna è montata in.un gavone del pozzetto.

Gli spaghetti fumano nei piatti. Presento alla Sgnuffi la bottiglia di acqua minerale come D'Artagnan i gioielli della regina (ognuno fa riferimento alla cultura che ha) e la Sgnuffi accetta, graziosa, l’omaggio di tanta fatica, di tanto rischio, di tanto sprezzo per ogni tipo di lebbra.

- Me la apri? - cinguetta. Poso la forchettata scolante sugo ed obbedisco. Mescio (voce del verbo mescere) e la Sgnuffi alza il bicchiere di carta alla sua deliziosa bocca. Si bagna appena le labbra e poi le storce di disgusto:

- E’ calda. - dice. Come se la regina avesse detto a D’Artagnan che i gioielli erano bigiotteria.

La gioia della sigaretta steso nel pozzetto a mezzanotte. A pochi centimetri da me, l'immondezzaio del mondo galleggiante sul concentrato di una pubblicità sull'inquinamento, eppure nella mia barca tutto il lindore e il calore di un'alcova, di un nido che passa tra le cose del mondo senza sporcarsi, senza deteriorarsi, senza perdere calore e sicurezza. Sono i primi pensieri da tartaruga della mia vita.

C’è quella grossa cima che ci lega allo sfasciume putrido della carcassa del peschereccio, ormeggiato in banchina, quasi un odioso cordone ombelicale col marcio di fuori. Ma bisogna tenerselo. Dico:

- Sai i topi che ci saranno la sopra. Magari stanotte vengono giù per la cima.

L'umidità è alta. Bisogna dormire perché domani ci aspetta un'altra grande traversata fino al Circeo.

La Sgnuffi si sdraia sulla brandina di tela, a pullman, e io sotto nella comoda dinette. Questa scelta Pha fatta il secondo, perché dice che nella cuccetta superiore sente meno claustrofobia avendo tutto il finestrino all'altezza del corpo per guardar fuori. Che serve naturalmente anche agli altri per guardar dentro: un'attrice ama la vetrina e i gusti son gusti.

Chiudo la porta a chiave. Visto mai che qualcuno pensi di approfittare del nostro sonno del giusto?

Il dolce sciabordare della nafta sotto la carena mi fa scivolare in un vischioso dormiveglia che diventa sempre più nero e pesante man mano che ci sprofondo dentro.

Un urlo disperato squarcia il denso velo che sigilla le palpebre.

La Sgnuffi urla!

Scatto a sedere prima ancora di svegliarmi e batto una capocciata tremenda contro il tubo d'acciaio che regge la cuccetta della Sgnuffi stesa sopra di me.

Un secondo urlo tremendo, mio stavolta, squarcia adesso la notte.

- Un topo! - e' di nuovo la Sgnuffi a prendere la parola.

Quando la parola la prendo io è per maltrattarla e farla diventare una parolaccia.

- Un topo, un topo! - insiste con la pelle d'oca tutta sparsa sul bel corpo nudo, gli occhi sgranati di ribrezzo. Con una botta decisa chiudo il vetro del finestrino: se c'è un topo e' in trappola.

Non resta che cercarlo mentre la Sgnuffi si dilunga, in particolari:

- Dormivo ma appena appena, quando ho sentito sul braccio titic titic.-

Titic titic sarebbe il rumore, la sensazione, delle zampette incerte del topo che prova a camminare sul tornito braccio del mio biondo secondo.

La Sgnuffi mi guarda coi suoi occhioni bambini pieni di interrogativi e di paura di non essere creduta. Paura forse che cresce in lei man mano che vede crescere in me la ficozza sulla fronte.

Non nego: un piccolo brivido ce l'ho mentre afferro con due dita il bordo del cuscino della Sgnuffi e lo sollevo di colpo.

E se c'è il topo che fo? Lo afferro e lo stritolo con virile brutalità per farla subito finita, oppure lo tengo leggermente e lo porto fuori con romantica delicatezza d'animo? 0 con una manata spiccia lo faccio volare fuori affidandolo alla sua buona fortuna? Ma fortuna che il topo non c'e'. Almeno non sotto il cuscino.

- Titic titic e poi tititititic! - e con le dita affusolate simboleggia sulla sua pelle dorata il cammino del topo verso il perfetto turgore del seno.

- Forse hai sognato. Prima io ho detto... –

- No! Ho sentito la pelliccia. –

Argomento conclusivo. Se ha sentito la pelliccia... perché di pellicce la Sgnuffi se ne intende. Se ne intenderebbe anche di più se non avessi comprato la barca dirottandoci anche i soldi del vagheggiato visone (via, col visone che ci fai? E’ anche fuori moda! Con la barca invece ci navighi no?).

Comunque meglio non battere sul tasto pelliccia e cercare il topo.

Finora la Sgnuffi è stata uno splendido secondo.. Bella al timone, bella a prua, bella in cucina e bellissima in cucetta. Neanche una sillaba di lamento. Speriamo cbe duri e cerchiamo il topo.

La barca non è poi tanto grande, anzi diciamo che è un quinto di stanza come cubatura, però è il posto meno adatto per cercare un topo.

- La nave affondaa! - grido e la Sgnuffi balza giù dalla cuccetta spaventata.

Le faccio l'occhietto e segno di star zitta: è per il topo. Lo sanno tutti che quando la nave affonda i topi scappano.

- Ti dico che ho sentito la pelliccia! - insiste la Sgnuffi e io ficco la testa sotto i paglioli.

Quel bastardo d'un topo figlio di topo chissà dove si ficcato. Direi che ha il nido nel cervello della Sgnuffi ma meglio non contrariarla troppo.

La lascio all'ipotetico cammino fatto dalla bestiola: titititic e poi titic e ancora titititititic... e forse è scappato di nuovo fuori quando, ha urlato... e intanto mi metto una pezza bagnata d'acqua sulla ficozza e mi ritrovo a guardarmi nello specchio dell'armadio da bagno (be’ stanza non si può proprio chiamare, ma non è scomodissimo): ma che ci faccio io con questo straccio, bagnato in testa alle due di notte?

Che razza di domande si trovano in uno specchio, a volte! Meglio piuttosto cercare di dormire un altro po’ perché il bolletrino delle 0é.24 bisogna proprio sentirlo prima di partire.

Facile da dire, non da fare. A luce spenta si sentono infiniti tritic e poi titic e anche cùuuuù... Sarà il topo?

Ancora non lo sapevo, ma il dubbio ci avrebbe seguito per tutta l’estate.

Anche l’alba è sporca nel porto turistico di Civitavecchia. E anche la radio: scariche e scariche e scariche. Roba che tra la merda sull'acqua e i rumori delle onde hertziane mi viene voglia di guardare il cielo temendo di scorgere lo sfintere del gigante che ha eletto qui il suo "comodo".

Tra una scarica e l’altra però il bollettino non è più roseo come a Baratti: dice che sono possibili temporali e che il mare sarà fra due e tre.

Per navigatori come noi questo dovrebbe significare una gita in collina.

Ma il porto che ci attornia è più incitante di una fanfara che suoni la carica: partire a qualunque costo! Via di qua!

Però devo fare gasolio. Per prudenza. Basterebbe fino al Circeo ma proprio appena. Con un mare che si prospetta tre meglio avere delle scorte.

Lo so che nei quaranta ruggenti il mare tre è calma piatta, e che lo è anche per i ruggenti navigatori di pontile, ma qui, gente, i quaranta sono belanti in tutti i sensi. E "meglio un giorno da leone che cento anni da pecora" è sempre stato il motto di chi sperava di vivere cento anni da leone.

Allora, pecorotti di Mompracem, leviamo l'ancora! (per la questione culturale, vale quanto già detto a pag. 72).

Prima però facciamo nafta! Il sole scalda già quando riesco ad agganciare alla voce un fannullone mattiniero cbe bighellona in banchina:

- Come faccio per fare nafta? - urlo. E quello mi indica in lontananza l'insieme terrificante di tubi e cisterne dove vanno a servirsi i transatlantici.

A parte che non troverò più il pescatore per la manovra, ho la sensazione che sarebbe come andare con un accendino a far benzina ad un distributore dell'autostrada.

- Oppure? - ci sarà un'alternativa. C'e'. Oppure si aspetta il guardiano.

Toh, c'è un guardiano! Infatti il guardiano arriva alle 07.30 e guarda le barche con le mani sprofondate nei pantaloni blu: forse le conta. Così, per sapere se ci sono ancora tutte, come i pastori con le pecore.

Ariecco le pecore! Sarà che son di Biella, città laniera. Mi sbraccio e urlo come un piroscafo. Lentamente volge il capo e mi guarda: nafta! gasolio! Duecento litri! Annuisce e se ne va.

Lo seguo con sguardo ansioso e preoccupato: due amici lo bloccano su un pontiletto. Ahi! Gli offrono da fumare. Accetta. Si appoggia. Siamo fregati. Al Circeo arriveremo di notte.

Lui arriva con le taniche alle 08.30 e facciamo il trasbordo col Laros. Pago munificamente e mollo l’ormeggio.

Uscire è infinitamente più facile che entrare e me la sento. Poi che me la senta o no, voglio disperatamente uscire da questo pozzo nero.

Il motore romba al minimo ed esco dall'antico bacino per immettermi nel maggiore, poi tenendo la dritta comincio a costeggiare il molo di sottoflutto: la' fuori il mare non è pù quello di ieri.

C’è schiuma e grandi gobbe che entrano fin dentro la bocca del porto facendoci già ballare. Il cielo si va ingrigendo. Nuvolaglia.

Forza e coraggio: su la randa che stabilizza! Affido la ruota alla Sgnuffi, metto quasi in folle, giusto per controbilanciare la spinta che viene dal mare con la risacca e mi arrampico sulla tuga. Tuga alta: comodo sotto, meno comodo sopra. L'oscillazione ha raddoppiato la. sua altezza. Stringo i denti, e le mani intorno all'albero. Non voglio guardare il mare, devo concentrarmi sulla vela.

Abbraccio il boma come se ne fossi perdutamente innamorato e libero la vela del suo ragno elastico. Infilo la manovella del winch di dritta e isso.

La vela comincia a salire. Ma si blocca. Che succede? Il fermo della canaletta dove scorrono i garrocci di plastica ha dei bordi da limare. Bisogna accompagnare garroccio per garroccio con la mano.

Il boma ondeggia maligno allentando la scotta che lo tiene sul fondo del pozzetto. Questo non è più quello sculettio simpatico e mignottello: questo e' un dimenarsi bello e buono e la poppa della Sgnuffi si alza e si abbassa e si sposta di due metri a destra e poi a sinistra.

Su con la vela!

La barca si sta lentamente traversando. Batto un piede sulla tuga, urlo affinchè il timoniere drizzi la barca, ma so che non può sentirmi nè capire. Mollare la vela mezza su proprio non posso. Solo sbrigarmi e tirare.

Senza stecche, pazienza. Per la prima volta va bene anche senza stecche!

La randa arriva in cima all'albero, e strozzo la drizza con rabbia facendomi sanguinare di nuovo le nocche per lo sfregamento brutale contro la galloccia a piede d'albero.

Salto giù e do gas.

La barca si assesta e si affaccia, prua alle onde, fuori dal porto. Si balla un po'. Una pentola rotola fuori dall'armadietto. Bisognerà sistemare qualcosa per fissare gli oggetti di cucina che rollano dentro l'armadio. Le bottighe si possono ficcare nel lavello che le tiene ben ferme.

Sono le ore 08.45. Il barometro é sceso di tre punti. Sarà stata l'acrobazia in tuga, o l'affanno o tutt'e due le cose condite dal non aver dormito abbastanza, ma cos'é quel senso di unto in fondo allo stomaco?

L'onda c'é ma e' monotona e sempre uguale. Non c'é proprio nessun pericolo, ma questo mare non deve essere ancora mare tre. Non c'é quasi per niente schiuma.

Lascio il timone alla mia bionda e la scruto senza parere: macché, vispetta e sorridente non ha nessun sintomo. Ma non era lei che soffriva il mare?

Boh! Disteso sto subito meglio e le palpebre si fanno presto pesanti. Quando le riapro il sole entra in cuccetta con un angolo che tende già ai novanta gradi. La Sgnuffi vista cosl al timone in controluce mi appare di colpo diversa: una donna vikinga dominatrice del mare.

Ma certo! La mia siciliana slanciata e formosetta, i capelli biondi li deve avere pur rimediati da qualche parte! Un violentatore normanno si é certo fatta una qualche sua trisnonna!

- Odinoooo! –

Il mio urlo vikingo la fa sobbalzare ma mi guarda sorridente,

- Lo sai che ci stavo proprio pensando! –

Mi metto a sedere e sbadiglio. L'olio nello stomaco é passato ma una certa cefalea è rimasta.

- A cosa? -

- Ai vikinghi. –

Gente, quando, si dice della comunità dei corpi e delle anime!

- Tu stai un po' male, vero? - chiede soave.

Mi drizzo e mi devo afferrare ad un maniglione per non essere sbattuto da una parte dall'onda che passa quasi di traverso sotto la chiglia.

Gonfio le gote assumendo una certa aria approssimativa, dubbiosa:

- No... male... no, é che non ho dormito. Colpa del topo. –

Piccola vendetta buttata là sulle spalle vichinghe del secondo.

- Io sto benissimo invece. Strano perché ho sempre sofferto il mare. Chissà perché guardando le onde tutte bianche ho pensato ai vikinghi. –

Sarà quel vecchio film che han fatto alla TV… Onde bianche?

Plumffete! Lo schizzo arriva sul vetro della tuga. Oh, ma la tuga é ad un metro e mezzo dall'acqua!

Mi affaccio: non é terrificante ma le onde sono orlate di bianco.

L'acqua é molto più scura adesso, quasi volesse far risaltare meglio il ricciolo bianco delle onde.

La barca avanza dritta e sicura. La randa é ben tesa, il boma stretto quasi al centro del pozzetto. Sbadiglio: io quasi mi rimetto a dormire. Vuoi vedere che ho sposato un marinaio?

Dandoci un po' il cambio al timone e in dispensa (ho scoperto che mangiucchiando sempre, mandando giù, si impedisce l’instaurazione del senso contrario) alle 13.15 siamo al traverso della boa di Fiumicino, cioé del terminal dell'oleodotto. Il cielo si mantiene imbronciato, le onde ci mantengono in ballo ma ormai ci stiamo facendo il callo. Ci stiamo facendo il callo nella parte esterna alta delle cosce che ci servono da paraurti quando d spostiamo per la barca.

A ovest il cielo sta diventando ancora più nero. Non ho niente per controllare la forza del vento, però le raffiche cominciano a farsi sentire e inclinano a tratti la Sgnuffi. Ma l’ingegnere mi ha detto che é poco invelata e che ha il centro velico basso così non mi preoccupo. I cordini blu attaccati ad un terzo della randa ciondolano e svolazzano. Si chiamano matafioni e servono per prendere i terzaroli. Lo so benissimo. Ho letto della manovra centinaia di volte. Io poi sulla Sgnuffi ho anche la manovella che fa ruotare il boma.

Ma visto che vado essenzialmente a motore e che la randa dovrebbe stabilizzare, anche se fa quel che può col mare quasi al traverso, perché arrampicarsi sulla tuga per tentare quella faticosa manovra?

Un angolo del cervello prende nota: sintomo di mal di mare, svogliatezza. E dopo aver preso nota, controllato che il formoso secondo sta saldamente e serenamente attaccato al timone, mi stendo beato sul divano della dinette, lascio ciondolare un braccio verso il pagliolo dove mi puntello con la mano quando la barca sbanda sulla dritta: ma per far questo non ho bisogno di svegliarmi.

Le cannonate della madonna della mia dolce infanzia. Le bombe. Le smitragliate dei partigiani. Gli squarci di fuoco a Torino in quelle notti inglesi. E gente impiccata ai balconi di Novara nei festosi giorni della Liberazione. Le scarpe ondeggiavano noiose all'altezza dei volto di chi passeggiava e qualcuno, seccato, le scostava. Strano che nessuno abbia mai fatto un film su quelle giornate di maggio. Hai la vita appesa a un filo, Jack! Bam! Bam! Bam!

Il rombo fortissimo riempie l’aria e i lampi dei colpi riempiono le mie pupille assonnate. Nelle orecchie la lontana flebile voce della Sgnuffi supermolleggiata:

- Non volevo svegliarti ma non ce lo faccio più... guarda! –

I rombi non sono le cannonate dell’infanzia, né le bombe su Torino, né la Colt di Terence Hill: sono signori tuoni preceduti e seguiti da un guazzabuglio di lampi.

Burrasca, gente! Burrasca, vera!

Il ballo é più violento, adesso non sembra avere ritmo. Nulla accompagna la barca nelle sue ricadute nel cavo delle onde: ci sbatte proprio a brutto muso e tonfa con un suono tra il cupo e lo schiaffo.

Scosto la Sgnuffi dalla ruota col gesto di chi dice: ghe pense mi. E di nuovo nei suoi grandi occhi bambini la paura di non essere creduta. Spalanca le braccia, ma subito deve usare le mani per aggrapparsi: voleva descrivermi l’altezza dell’onda tremenda che sembra aver colpito la barca poco prima

che mi svegliassi. Un'onda tremenda e un colpo di vento che le ha fatto fare un giro intero.

Un giro intero é un giro intero: anche se é fatto per così invece che per cosi. Insomma é capitato ai più grandi navigatori dei quaranta ruggenti di fare il giro intero lungo l’asse longitudinale, a quelli dei quaranta belanti succede di farlo, sempre intero, ma lungo l’asse trasversale: stai a guardare il capello!?

Il mare é brutto, però. Adesso schiuma ce n'é proprio tanta. Un'occhiata alle tabelle descrittive: evviva, é almeno tre!

Sorrido, alla Sgnuffi per rincuorarla: stiamo avendo il nostro bravo mare tre e navighiamo! Navighiamo come se niente fosse! La Sgnuffi si aggrappa più forte al tientibene. Ricomincia il tentativo di spalancare le braccia per mostrarmi quant'era grande l’onda che l’ha spaventata e che ha investito tutta la barca passando sulla tuga, ma deve subito aggrapparsi di nuovo.

Impeditele di recitare e si arrabbia. Stringe le labbra e guarda le onde con odio. Gli schizzi lavano i vetri e li appannano. Fortuna che ho fatto émettere un tergicristallo non ascoltando l’ingegnere che diceva che non serviva. Invece serve. Nelle nostre modeste burraschine, ingegnere, serve.

E, tra una spazzolata e l’altra che indico alla Sgnuffi il promontorio di Anzio:

- Anzio - grido, per superare il rombo dei tuoni, del motore e del mare.

- Fermiamoci, allora, fermiamoci. Guarda come diventa ancora più nero! –

Fermiamoci. Una parola che odio: vuol dire entrare m'altra volta in un porto sconosciuto. Cerco di riunire i brandelli dei ricordi delle due volte che l’ho visto dalle banchine. Niente, non riesco a immaginarlo tutto. E le copertine dell’Enciclopedia non sono ancora arrivate a questo porto. Mi ricordo anche che ha dei bassi fondali all'ingresso da qualche parte. Entrare con quel mare non mi fido.

Ma questo ragionamento lo tengo per me. Al secondo mostrate sempre sicurezza e buonumore. Sta scritto sul corso dei Glenans, mi pare.

Quindi sicurezza:

- Ma se andiamo benissimo! Si sa che il mare ha le onde! –

Buonumore:

- Se scappiamo davanti a un modesto mare tre, allora non potremo che fare giretti davanti al porto. -

- Ma se aumenta ancora? Hai visto che nero laggiù? –

- Se aumenta, ciccia. Siamo ad Anzio, fra tre ore siamo al Circeo. Cosa vuoi che succeda in tre ore, il maremoto? –

Il secondo fa il suo dovere: tace. Anche lei ha letto i Glenans: mai discutere gli ordini dello skipper. Però di nascosto riduco il gas. Un po' meno di forza contro quelle onde ricciute di schiuma, un po' più lungo il viaggio ma meno scomodo. Ormai devo tenere il timone fino al Circeo.

Mi sento riposato per le belle dormicchiatine fattemi anche se mi dispiace di essermi perso quella famosa onda alta cosl e quel groppo di vento che ci ha fatto girare così….

Sono le ore 16.05 quando mi lascio Anzio al traverso per tuffare la prua nelle infinite vallate d'acqua che mi separano dal Circeo.

Su e giù. Su e giù. Su e giù e per la val Camonica non si sente, non si sente...

Per me lega benissimo: mare e canti di montagna.

Il mare sembra già meno cattivo anche se a volte mi manda a sbattere il cocuzzolo contro la tuga foderata di skay anticondensa.

La barca regge benone, non fa una piega. Anche la randa non la fa ben tesa dal vento anche tra una raffica e l’altra. Rivoli d'acqua che colano lungo i passavanti arrivano a tratti nel pozzetto che li ingoia nei suoi quattro buchi restituendoli al mare.

Zampe di gallina di fuoco partono dal nuvolone nero che sta avanzando veloce dando l’impressione che corra verso di noi.

Il parafulmine non c'é. E l’albero scarica in tuga. Poi c'é un piantone metallico, di rinforzo che fa da forte e io ce l’ho a due spanne dalla ruota. Se il fulmine centra l’albero e viene giù non può scaricarsi, vedrò un bell'arco voltaico stabilirsi tra me e quel maledetto piantone.

Bisognerebbe avere una catenella da mettere a festoni intorno alla barca mettendo a massa sartie e stralli. Ma io non l’ho. Sarebbe una jella se il fulmine venisse proprio sulla punta del mio albero al mio primo temporale. Confortato dalla statistica che mi parla di improbabilità vado avanti tranquillizzato.

Piove. Sembrano secchiate. Adesso l’ingegnere ha ragione. Il tergicristallo non serve più perché ce ne vorrebbero due e forse non si vedrebbe niente lo stesso. Fortuna che non c'é traffico. Ah già, non c'é traffico.

Ma non parlavano tutti di boom della nautica? E siamo alla fine di luglio. Se non c'é traffico adesso quando naviga la gente?

Sospetto la risposta ma la respingo: il solito pivellino che già si sente più bravo di tutti. Però sul mare non c'é nessuno. Spero che non sia un brutto segno. Ma no, anche ieri che era bello non c'era nessuno. Qualche vela davanti ai porti e quel disgraziato di vaporetto che andando all'Elba mi ha fatto venire un coccolone perché mi é spuntato tre metri sulla dritta proprio nell'angolo cieco della tuga.

Il nuvolone nero passa. La pioggia smette e là in fondo, l’inconfondibile profilo della maga Circe.

Come l’emigrante che rivede dopo una vita di lavoro il profilo della sua terra, la commozione gonfia i nostri cuori. Il secondo si stringe al primo e tutti e due esclamiamo estasiati:

- Il Circeo! -

Chissà da dove arriva: ma ci prende da dietro. La poppa si solleva come il culo di un cavallo al rodeo, poi tutta la barca va in alto e ruota su se stessa, come se avesse un perno sotto la chiglia, prima di ricadere di schianto nel burrone scavato dall'incredibile onda, lasciandoci abbracciati, contusi, in un mare di pentole, bottiglie, torcia, bussola da rilevamento, binocolo, compasso, carte, squadrette, piani dei porti, portolani, mele, pesche, panini, biscotti, cuscini, maglioni.

La prima cosa che riesce a dire la Sgnuffi spalancando le braccia è come la "sua" onda al largo di Anzio fosse moooolto ma mooolto più grande e di come la barca avesse fatto il giro intero, non un mezzo giro come stavolta.

- Tre volte il fè girar con tutte l’acque. - Sembra proprio come ha detto Dante: appena abbiamo visto l'alta montagna noi ci allegrammo ma tosto tornò in pianto perché dalla nuova terra un turbo nacque e percosse la nave in primo canto.

Ma é stato solo una scopoletta amichevole di saluto che ci ha dato la maga. Un'affettuosa pacchetta sul deretano per significare: eh bravi, eccovi qui. Di questo ne sono sicurissimo e infatti dopo la scopoletta il mare comincia a spianarsi e l'onda si fa lunga.

Ancora un po' di lotta per doppiare lo sperone di Torre Paola, poi ecco Punta Rossa e il Faro!

E la', dietro al Faro, chi rosseggia timida nel verde della macchia?

La minuscola casetta in cui abbiamo quattro minuscole stanzette tutte nostre! La salutiamo felici come bambini.

E in fondo c'é il porto. Ma questo lo conosco bene e non mi fa paura. Anche perché so che sul pontile c'é Peppe che mi aspetta.

Peppe é il marinaio con cui ho preso accordi per la guardanìa della Sgnuffi. Non ho mai potuto permettermi il lusso di un guardiano per la Sgnuffi ad un tanto al mese (chi vigila i vigilanti?), ma stavolta la Sgnuffi con le vele un guardiano ce l’avrà.

Sono, le 20.15 quando mi attacco alla sirena entrando nel porto del Circeo, porto non segnato sul Portolano perché in costruzione, ma gremito di barche in tripla fila lungo tutti i pontili di legno abusivi ma autorizzati che arredano lo specchio d'acqua.

Metto al minimo e l'ansia cresce: c'é Peppe? Già imbrunisce e là sul pontile c'é qualcuno ma non sembra Peppe.

Metto in folle: la barca si ferma a una decina di metri dalle prue delle consorelle ben ormeggiate. Giù la randa che deriviamo maledettamente! Fuori i parabordi!

Il secondo, scatta come può con la grazia che le ha elargito la natura. Ma sono io che mi devo attaccare  alla randa e il secondo si attacca alla sirena. Finalmente ecco uno che si sbraccia: ha una maglia blu.

E’ Peppe!

Che vuol dire con quei segni?

C’è un motoryacht a metà banchina e adesso Peppe sta manovrando a spinta delle barchine per farci un posto. E’ riuscito a ricavare due metri al massimo ma ci fa segno di ficcarci là dentro.

Eppure glielo avevo detto che non so manovrare! Peggio per lui!

Tutta la ruota a dritta, una sgassata. La barca inizia un ampio giro e mi trovo con la poppa volta alla banchina ma non in linea col buco di Peppe, dieci metri più a terra.

Marcia indietro. Rabbiosa. La Sgnuffi mi si traversa. Tutta la ruota a sinistra, colpo avanti, poi indietro. Oh dio, adesso la ruota da che parte è? Tutta a dritta o tutta sinistra?

La prua del motoryacht è gia così vicina!

Ma la prua del motoryacht non é più deserta: un'intera famiglia ci si sta radunando, armata di mezzi marinai, parabordi, cime da ormeggio. Quelli han capito subito che razza di marinai siamo. Beh? Siamo marinai che la prima volta che han messo piede su una barca l’han portata da Piombino al Circeo, bene o male. Anzi, più bene che male, direi.

Cerco di tirarmi su di morale, ma la Sgnuffi fa i capricci e non mi dice da che parte sta il timone. Provo a forzare sulla sinistra. Non gira, allora é tutto a sinistra. Un colpetto indietro: sì, maledettamente troppo a sinistra! La poppa sembra voglia infilarsi oltre il motoryacht, nella pancia candida di un Nicholson. Peppe urla:

- Nooo! Avanti di nuovooo! –

Ma perché non viene lui? E avanti di nuovo. E poi indietro ancora. La Sgnuffi si é armata di mezzo marinaio e sta sulla punta del pozzetto a poppa, pronta a tutto.

Indietro. Una gran sgassata indietro. La barca parte bene, sembra filare dritta nel buco ma dopo un po' si piega a destra. Troppo a destra, troppo a destra, verso la pancia di quel Baglietto!

Devo dare gas avanti, dio, avanti o lo sfondo!

Di nuovo quel senso di acqua nei muscoli che si chiama masochistico piacere della rassegnazione all’ineluttabile. No! Avanti!

- Ferma! Fermaaa! - la voce di Peppe é disperata e io premo il pulsante nero. Il motore tace di colpo. Mollo la ruota e balzo fuori.

Dal motoryacht due donne, una ragazza, un bambino e un pappagallo mi guardano, mentre cordiale e sorridente balza a bordo un bell'uomo abbronzato dalla faccia simpatica e mi tende la mano. La stringo, quel volto lo conosco ma nel trambusto del momento non riesco a mettergli sotto un nome o qualche avvenimento che lo distingua nel magazzino della memoria.

La Sgnuffi intanto sta andando in banchina tirata sapientemente da Peppe e da un suo aiutante che sono riusciti a buttare una cima alla ben pettinata ondina che ancheggia leggiadra nel pozzetto.

Agguanto l’ondina e la tiro in cabina: chi é quel signore?

- Ma é Pigna, quello della televisione! –

La domenica sportiva! Porca miseria, certo che l’avevo visto ma non ricordavo momenti vissuti in comune! Chissà che paura per la sua barca quando ci ha visto fare quel po' po' di slalom la davanti!

Raccolgo un po’ di roba urgente e riemergo. Si é radunata gente in banchina: la solita gente invidiosa e maligna.

Peppe tira e la Sgnuffi si fa largo coi fianchi conquistandosi il posto tra il Bagatelle di Pigna e il Baglietto sulla dritta.

Peppe tira e possiamo passare direttamente dal pozzetto in banchina, dove posso annunciare all'inclita, col petto gonfio di giusto orgoglio:

- Veniamo da Piombino. -

- Mica lontano - fa uno.

 

CON UNA BARCA NUOVA PUO' SUCCEDERE

La processione dei parenti e degli amici lungo le abusive banchine di legno, dura per giorni. Vengono, a vedere la barca, ad ammirare apertamente e a disapprovare segretamente ma non tanto.

- Ti potevi comprare un villino. -

- Sai quante vacanze coi fiocchi ti ci pagavi con questi soldi. -

- Beato te che hai trovato il modo di guadagnare tanto senza lavorare. -

Ho un solo amico che va a vela, gira davanti a Torre Astura con un Vaurien e lui non viene. Gli altri li divido, in tre categorie: quelli che restano sulla banchina e guardano la barca di là trovando le più strane scuse per non salire a bordo, quelli che salgono a bordo ma trovano le più strane scuse perché non li porti a fare un giro, quelli che vogliono fare un giro ma alla prima onda fuori dal porto urlano di tornare indietro.

D'altra parte succede così quando si é originari delle Alpi e parenti e amici hanno sempre diffidato di quella cosa acquosa che non riesce a star ferma.

Non è poi che io muoia dalla voglia di staccarmi dalla banchina per giretti di pochi minuti perché ogni volta che devo tornarci sono costretto a dare spettacolo mentre Pigna e famiglia, pappagallo compreso, sono costretti a tender fuori dalla loro barca piedi, mani, parabordi e mezzi marinai.

La vita in banchina ha un suo fascino, qualcosa che si insinua nelle ossa come una vischiosa pigrizia: la barca é lì, il mare là fuori. Il mare é bello, azzurro, invitante. Ma la barca é lì e intorno ci sono tante sorelle e ognuna sopra ha il suo bravo skipper dall'aria chichesteriana che sembra sempre sul punto di salpare, per chissa' quale crociera perché é invariabilmente impegnato a opere di grande revisione.

A prua parte dell'equipaggio prende il sole sorseggiando coca cola o whiskv scambiando a tratti battute con le altre prue che servono da prendisole.

Lo skipper emerge armato di enormi cesoie o della chiave numero 18 o del flacone del lubrificante spray.

Scompare, riappare, scompare di nuovo, poi riappare a prua a bersi un bicchierino sudato e soddisfatto: per salpare ormai e' tardi, anche solo per andare a Ponza. Domani, se il tempo regge: e tutti si voltano verso occidente per scrutare il cielo e trarne l’augurio metereologico.

Ma cirri e rosso di sera lasciano presto il posto a interrogativi più gustosi: dove si va a mangiare stassera? E magari salta su Peppe che si offre per una spaghettata gigante con due chili di peperoncino e qualche filo di spaghetti e l’aggiunta di due pescetti che il ragazzo di fatica è riuscito a tirar su dall'acqua del porto.

Si mangia, si beve e si fa tardi. Certo il meteo delle 0é.24 domattina non lo sente nessuno.

Così in fondo ad ogni skipper di banchina si annida un complesso segreto di colpa che gli impedisce di stendersi semplicemente anche lui a prendere il sole con gli altri, ecco perché domattina brandirà il cacciavite e insisterà per farsi issare in testa d'albero.

Di lassù la colpa é più lieve: chi va in testa d'albero marinaio deve esserlo per forza.

Io sono un neofita di tutto, anche della banchina. E la mia primogenita mi offre un alibi coi fiocchi: un bel braccio ingessato per quaranta giorni. Portare fuori una bambina col braccio ingessato e' segno di imprudenza e l’imprudenza é proprio il contrario del saper navigare.

Ma Alfredo al quinto giorno ci coglie senza visitatori. Siamo io, la Sgnuffi morbida, primogenita e secondogenito.

- Noi si va a Ponza. Venite anche voi! -

- Beh... sì... si potrebbe, però noi andiamo piano. Sette nodi col motore. Il tuo Bagatelle quanto fa? -

- Sedici, anche diciotto. -

- Pensa un po'.

- Ci si vede a Cala Inferno. Vi aspettiamo lì. - e il Bagatelle salpa.

Decido di lasciarmi incastrare. Poso la chiave inglese che avevo appena impugnato per stringere quel bullone sulla testata del motore e decido che si parte.

Amarilli, l’ingessata, verrà legata sulla cuccetta pullman in modo che non sbatta il braccio rotto.

Peppe, dubbioso, ci scioglie a poppa. Io avvio iE’motore e sfilo con cautela oltre la prua delle altre barche. Bella manovra.

Un colpetto di ruota e piego sulla destra verso l’imboccatura del porto. Giro un sguardo compiaduto sull'equipaggio in cerca di ammirazione e consensi.

La Sgnuffi sventola il pareo a prua tirando i parabordi, Costantino sta facendo correre una macchinetta sui cuscini della tuga tutto intento alla sua manovra, Amarilli sta fissando romanticamente la punta dei suoi piedi dove deve avere un'unghia spezzata.

Ma perché Peppe corre e si sbraccia sulla punta delta banchina?

Diminuisco i giri del motore per sentire meglio:

- Dottò! Per Ponza la rotta e' centonovanta graaaaaadi!!!! -

No, Peppe, questo non me lo dovevi fare. Centonovanta gradi sulla carta e duecento sulla mia bussola di rotta, rotta. Dieci gradi di deviazione: non mi sembra più, tanto rotta e comincio a fidarmi: ad aver fede nella sua linea di fede.

Mare perfetto di blu tintura. Cielo azzurro laziale. E l’ombra di Ponza abbastanza chiara all'orizzonte e la piramide di Zannone perfettamente stagliata a delimitare qualunque impossibile errore di rotta.

Cedo la ruota alla Sgnqffi dribblando Costantino che chiede se puo' guidare lui. Pero' mi fa piacere che si interessi.

Alzo la randa. C’é una brezza che me la tiene tesa e anche se non spinge e non stabilizza fa però moltissima scena e rende più bello il giocattolo.

Anche Costantino arriccia iE’naso e gli occhi per guardare ammirato quella grande ala bianca che ho alzato contro il cielo.

Mi rimetto al timone e fischietto: rieccomi sul mare. Dopotutto Cardea e soci la fanno molto più difficile di quanto non sia e comincio a pensare che un po' tutti i marinai si divertano a parlare di coraggio e pericoli per rendersi più interessanti e magari anche per limitare l'affollamento.

Un timore che mi appare prematuro perché a un miglio dal porto anche oggi non si vede anima sul mare. Il Bagatelle è scomparso lontano e sarà già quasi a Ponza: il mare e' nostrum.

Cala Inferno é una spettacolare insenatura di Ponza, la prima dopo l’isolotto di Gavi, con una costa strapiombante su cui si leggono gli strati della, terra.

Ma per arrivarci bisogna superare la fila di dentini neri che unisce Zannone a Gavi. Dentini neri che spuntano dal mare come dalla mandibola di un gigantesco pescecane sommerso. Dentini neri che da almeno mezz'ora sono la mia preoccupazione. Dove sarà meglio passare? Rasentare Gavi? Oppur passare tra il primo e secondo, dente, o tra il secondo e il terzo? 0 addirittura allargare per Zannone?

L'ecoscandaglio non serve perché adesso il fondo è ancora ben oltre i novanta metri che sono il suo massimo. Le carte disegnano batometriche rassicuranti tra un dente e l’altro, ma quello che ha fatto quelle righe che ne sa se qualche nuovo roccione é caduto in mare o uno dei denti si è spaccato sotto i colpi delle onde dell'ultima burrasca?

Risolve il problema il traghetto di Ponza che mi viene incontro a tutta velocità e che passa con la sua mole gigantesca rasente a Gavi. Passa lui ci passo anch'io.

- Attento agli scogliii! - urla la Sgnuffi da prua indicandomi le maligne cuspidi nere che ormai abbiamo quasi al traverso.

L'ecoscandaglio segna trenta metri. Proprio come dice la batometrica. Mi devo convincere che queste carte nautiche italiane sono una delle poche cose serie che ci sono rimaste.

A Cala Inferno ci sono due puntolini vagamente sagomati in forma di barche, ma sono talmente vicini alla scogliera da sembrarmi in secco. Metto al minimo e mi avvicino, timoroso: le rocce strapiombanti sono a duecento metri e già mi levano il sole! Come sarà il fondo? Chi le segna le rocce che contornano le rive? Rallento ancora: quelle due barche sono certamente in secca, troppo a riva per galleggiare. E io, in secca non ci voglio andare. Un bel giro di ruota e prua al largo.

Dalle due barche che tengono la poppa contro la scogliera si leva un furibondo ululare di sirene.

Porca miseria, ma allora uno é il Bagatelle! Rigiro la ruota e ritnetto la prua contro la scogliera: a destra una frana ciclopica che finisce in mare mi parla di fondo, martoriato e pericoloso, a sinistra lo strapiombo quasi negativo, parla di crolli titanici possibili da un momento all'altro.

Proprio al centro c'é forse un orlino di sabbia: speriamo che andando dritti dritti...

Dalla prua del Bagatelle c'é gente che si sbraccia e grida qualcosa. In folle, per sentire. Alfredo col megafono mi urla di non avere paura e di andare verso la sua barca: c'è fondo.

Fiducia nei nuovi amici: prua su quelle barche che sembrano sugli scogli e gas.

Adesso vedo bene Alfredo e gli altri. Alfredo mi fa segno di girare a cerchio. Megafona:

- Mettiti con la prua parallela alla mia e accosta senza paura! -

Io guido dalla timoneria interna e rispondo come posso dal finestrino. Comodo il megafono però, un accessorio che ancora mi manca.

Calcolare il cerchio per affiancarmi al Bagatelle col rischio di speronarlo non é per me una manovra tranquilla e in fondo non so se stupirmi o compiacermi della fiducia di Alfredo: io, a uno come me una manovra d'accosto alla mia barca non gliela farei fare.

Ma Alfredo insiste alla voce e ormai siamo a cinquanta metri e non c'é più bisogno di megafono. C'e' bisogno di sangue freddo e sicurezza.

- Vira! - urla Alfredo ad un certo punto e io faccio fare i tre giri che la ruota mi consente: la Sgnuffi dalla bianca poppa evoluisce superba e si affianca al Bagatelle, subito afferrata da mani esperte e volenterose.

- Spegni il motore! -

E’ sempre con sollievo che indirizzo il dito al bottone nero che comanda lo stop al motore. Lo pigio. Poi lo pigio di nuovo. E infine lo schiaccio terrorizzato: non succede, nulla. Il motore continua a rombare come se niente fosse.

Controllo che la leva sia in folle. Sì, lo é. Posso lasciare e saltare fuori nel pozzetto per dire:

- Il motore non si spegne. -

Alfredo mi fissa corrucciato, indagatore:

- Come non si spegne. -

Punto l’indice verso di lui e rifaccio il gesto di pigiare il bottone e ripeto:

- Non si spegne. -

Alfredo esista un attimo e poi grida a qualcuno che sta sull'altra barca:

- Ehi, ingegnere, qui il motore non si spegne! Vieni un po' a dare un'occhiata!-

Io intanto torno dentro a pigiare quel vigliacco di bottone nero che si fa pigiare ma non reagisce in nessun modo.

L'ingegnere e' un giovanotto fresco di laurea che salta a bordo con aria efficiente. Viene anche lui a pigiare il bottone nero, con lo stesso risultato già ottenuto da me. Gonfia le gote perplesso e poi sentenzia:

- Manca corrente. Il solenoide non funziona e non spegne. Da dove si arriva al motore? -

Vado ad alzare gli enormi paglioloni in plastica sul fondo del pozzetto dopo aver convinto, la morbida bionda Sgnuffi a spostarsi. Cosa che fa passando dal pagliolo di destra a quello, di sinistra.

- Devi levarti anche da lì.-

Sopporta e torna su quello, di destra.

- Via! - ringhio e la Sgnuffi mi guarda offesa, poi getta indietro i bei capelli biondi e si arrampica verso, prua nell'atteggiamento classico di una papera aristocratica costretta a passare fra un branco di oche.

Il motore, anche vedendosi scoperto, continua a battere.

L'ingegnere cala la mano verso il mistero delle intricate condutture di metallo giallo verniciato, verso il blocco caldo del motore irto di incomprensibili spuntoni terminanti a volte in anelli, a volte in grossi dadi, a volte in incomprensibili cappuccetti di gomma.

E’ come una mano calata per uccidere qualcosa, per spegnere.

- Se lo spegne poi... - Troppo tardi. Ha tirato la leva fatale. Un singhiozzo sordo e il silenzio. L'ingegnere mi guarda sorridendo interrogativo e io posso con calma finire la mia frase, anche a bassa voce. Ormai lo sfondo é solo il sciabordare dell'ondina sulla scogliera:

- ...non lo posso riaccendere se manca la corrente.-

L'ingegnere non si drizza subito. Resta lì inginocchiato sul buco del motore e rigonfia le gote, perplesso. Poi annuisce: é d'accordo.

Provo da avviare la chiavetta e nulla si degna di rispondere. Neppure un rumorino ino ino, una scorreggetta, un vaff vaff vaff. Niente.

- Batterie a terra - é la voce condolente dell'ingegnere. Sta volta annuisco io e lo sguardo mi corre al mare: visto mai che si mette a fare i capricci proprio adesso?

L'ingegnere scompare e mi ritrovo davanti Alfredo sorridente: niente di male. Adesso mi darà uno strappo Ifino al porto di Ponza e lì troverò un meccanico.

Mi abbandono all'efficienza di Alfredo, poi dicono dei napoletani!

In un baleno la Sgnuffi si trova imbrigliata, presa per il naso, e trascinata dal Bagatelle verso l’ampia rada antistante il porto dell'isola.

Posso anche accompagnare la manovra con un po' di timone.

Ma che succederà quando Bagatelle butterà l’ancora? Non gli andrò addosso per l’abbrivio? Sempre la mancanza di questi maledetti freni.

La mia prima entrata nella favolosa rada di Ponza avviene al guinzaglio, eppure la scenografia é cosi impensabilmente perfetta che non può non sollevare l'animo dall'oppressione.

- Giù l’ancoraaa! – E’ Alfredo, il salvatore della patria.

Quella maledetta frizione! E’ sempre stata docile e adesso... La frizione dell'argano dell'ancora che non molla! Ma giro nel verso, giusto? Ma sì, accidenti!

Trac!

Urto con le nocche in coperta proprio sulla crosta dell'altra volta, ma la frizione ha mollato e la Danforth piomba nelle acque limacciose della rada.

- Dai catena per trenta metri! - Ancora lui, il salvatore. Obbedisco. Come Garibaldi.

Siamo ancorati. Il Bagatelle si ancora trenta metri più a terra.

Come ringraziare? Come scusarsi? Come sottrarsi all'etichetta di rompiballe marino dopo aver rovinato uno splendido pomeriggio a gente che per mare ci sa andare e che si apprestava ad una battuta di caccia subacquea in una pittoresca

baia?

Meglio occuparsi delle batterie. E gonfiare il canotto per andare a terra.

Bruum! Un rombo allegro e il naso di gomma del canotto del Bagatelle si struscia amichevole sui fianchi vergini della Sgnuffi. Il sorriso divertito di Corrado, figlio undicenne di Alfredo, incrocia il mio sguardo avvilito:

- L'accompagno io. Facciamo prima. –

Facciamo prima sì.

Costantino saltella di gioia:

- Posso venire anch'io? -

La mia autorità di skipper é molto compromessa e annuisco.

La Sgnuffi in bikini, becco in aria e fianchi dondolanti, chiede con distacco quello che deve fare lei.

- Stai di guardia - le rispondo calandomi sul canotto mentre sento le proteste di Amarilli levarsi dalla cuccetta a pullman: chiede se può essere slegata, la poveretta.

Può.

Le banchine di Ponza sembrano la via Veneto di felliniana memoria.

C’è di tutto e il tutto tiene a sottolinearsi. Vanno e vengono senza parlare di Michelangelo le donne dalle passerelle lunghe cinque metri tese come leggiadri ponti levatoi dai sogni di Sonny Levi, Harrauer, Caliari, Baglietto e C. che spostano le loro brave tonnellate d'acqua nera galleggiando con le terrazze di poppa volte alle botteghe che si susseguono, volutamente anguste, scavate nel muraglione rosato che sembra sostenere il paese appeso nel cielo e nel verde come un vecchio scenario. Vanno e vengono anche giovanottoni abbronzati, giovanottoni canuti, hippy panciuti come otri infilati in bluejeans fatti su misura, ciabattanti miliardarie mimetizzate in camicette stinte e sdrucite da Mary Quant, marinai azzimati ed elegantissimi e le donnette vestite di nero sedute davanti alle botteghe fanno la parte dei vecchi indiani di legno immobili davanti agli "stores" di una certa America.

Di tanto in tanto l’acqua del porto si muove per un'onda e le passerelle arano i piedi della folla scorrendo sulla banchina in un moto perpetuo di avanti e indrè.

Abili scooter slalomeggiano tra la gente e le ruote delle passerelle, tamburellando continuamente sugli afoni clacson.

A tratti la folla si apre, gli obesi hippies commendatoriali tirano disperatamente indietro la pancia addossandosi alle antiche mura e i giovanottoni canuti e non, saltellano sul bordo della banchina tirandosi dietro le sdrucite miliardarie per lasciar passare un'auto che avanza testardamente sempre sul punto di far scoppiare un ciccione o scaraventare qualcuno nell'acqua nera del porto.

E’ uno zoccolìo continuo, un incrociarsi di saluti e di inviti per "un whisky in barca stasera" e tutti sembrano conoscersi ed essere felici

I barconi dei pescatori, emarginati, grossolanamente marini, stanno pazientemente a guardare ostentando puzza di pesce.

Un ragazzino corre abbracciato ad una stecca di ghiaccio per qualche barchino miserabile senza frigo o per gli invitati di quel sogno di goletta che vogliono farsi una grattachecca supplementare.

C’è di tutto, ma uno che carichi le mie povere batterie, no.

Davanti alla spelonca del meccanico, certamente arredata a grotta da qualche grande arredatore, c'é ressa.

Il meccanico é un gigante bruno dalla tuta meravigliosamente unta che ostenta davanti alla caverna magica grossi bidoni dove gruppi di fuoribordo fanno il pediluvio.

Corteggiato da gruppi di aspiranti clienti, da leggiadre signore che vogliono farsi controllare le aspirazioni, da servi di commendatori che vorrebbero fargli dare un'occhiata alle condutture di scarico degli odiati padroni, ammirato in silenzio da torme di miserabili possessori di barchini che non osano avanzare i loro problemi da cinque cavalli, il meccanico di Ponza decide delle vacanze di moltitudini con brevi cenni del capo:

- Vengo - e il sole torna a splendere.

- Non vengo - ed é notte.

Un'ora e mezza dopo essere entrato nel gruppo degli aspiranti al colloquio, riesco a piazzare due parole sulle mie povere batterie.

Mi guarda corrusco per tre secondi e poi il verdetto:

- Ci vuole l’elettrauto. Non é il mio campo - e già é sommerso dai seicento cavalli Cumminghans di un milanese.

L'elettrauto c'é ma non c'é. C’é la bottega ma lui no.

- E’ in giro, aspettate che viene. -

Fortuna che il passeggio é molto vario. Trascorrendo con gli occhi dalle poppe delle signore a quelle delle barche, entrambe scoperte, ecco quella bianca della Sgnuffi. Trasalisco: la Sgnuffi non é sola!

La Sgnuffi é circondata da marinai! Laggiù, in mezzo all’abbacinante baia che ora si sta incendiando al sole del tramonto, due, tre, quattro marinai in divisa stanno montando sulla Sgnuffi!

Scorgo a poppa Amarilli col braccio teso come la statua della libertà e la mia bionda in bikini che discute coi marinai.

Poi la Sgnuffi di vetroresina viene legata ad un barchino della capitaneria e trascinata più a terra.

Guardo impotente la manovra col cuore in tumulto. Corrado mi tira per un braccio:

- E’ arrivato l’elettrauto. -

I marinai ancorano di nuovo la Sgnuffi e se ne vanno. Sospiro di sollievo. Amarilli sembra salutarli romanamente ma io so che é solo il gesso.

L'elettrauto ascolta distrattamente i sintomi che gli descrivo da profano, ascolta con una piega di incredulità: sono venuto dal Circeo a motore e l’alternatore carica o almeno la spia non si é accesa, eppure le batterie sono a zero. Talmente a zero che non hanno avuto la forza di spegnere il motore. Fa spallucce e poi la diagnosi:

- Allora c'é un guasto. Ma io al massimo posso venire più tardi a darle una scossa. - E si infila nel suo antro, assalito da una turba vociante amperora.

La bravura di Corrado con quel motorino: avanti, indietro, a zig zag, sopra il cavo, sotto la cima, fa guizzare il canotto nel mare di barche e mi riporta in rada contro i fianchi dondolanti della Sgnuffi.

Alfredo, stoico, ci invita a cena. Ma dobbiamo aspettare l’elettrauto. Fa niente, fa un giro e poi tornerà a prenderci.

La Sgnuffi si veste per la sera annodandosi il pareo sullo slip del bikini e mi narra della sua avventura coi marinai della Capitaneria che hanno spostato la barca per far spazio alla manovra del grosso traghetto in arrivo.

Sta calando la sera e la cupa disperazione quando urta riguardi i fianchi candidi della mia barca un rozzo barcone che ha una terrazza di batterie per paglioli. A poppa siede l’elettrauto: due ragazzi in tuta balzano a bordo con due cavi e morsetti. Scoprono le mie batterie senza alcun riguardo e collegano i morsetti.

Con ampio gesto, senza neppure alzarsi, l’elettrauto, pieno di dignità senatoriale ordina di avviare il motore.

Balzo in cabina per precedere i due unti ragazzotti e il mio alluce bacia con violenza per la terza volta quel maledetto bordo, che ho fatto rialzare per sicurezza. Le stelle splendono doppie nel cielo già scuro di Ponza ma arrivo primo alla chiavetta e la ruoto. Il motore singhiozza disperato e si avvia.

Già il barcone si sta discostando. Mi aggrappo alla battagliola e:

- Ci sarà qualcosa a massa. Quello gira ma non carica. Non può dare un'occhiata?-

Il senatore a poppa dice dignitosamente di no con la testa.

Uno dei ragazzotti stacca i morsetti e mi chiede:

- E’ amico di Pigna, vero?-

Ammetto.

- Vabbeh, allora mi dia ventimila. –

Non ho mai avuto il coraggio di chiedere ad Alfredo cosa diavolo avesse fatto a quel pover'uomo per essere tanto malvisto.

In ogni modo adesso, il motore ronfa e il velo della disperazione é meno denso.

Consulto il mio equipaggio: forse sarà meglio tornare subito al Circeo.

La Sgnuffi é incerta e osserva con encomiabile realismo che si sta facendo buio. Costantino, sbuffa: siamo appena arrivati! Amarilli dichiara che vuole fare un giro col canotto di Corrado.

Mai cercare di dividere le proprie responsabilità.

Alfredo torna col canotto, ma come si fa a lasciare la mia Sgnuffi accesa in mezzo alla rada e andare a cena?

Amarilli da sopra il gesso, fagli occhi dolci a Corrado che non resiste al suo fascino e le offre un giro in canotto. Si siede col braccio teso sulla prua e solca la rada come Cleopatra.

Alfredo mi sconsiglia di partire. Mi ricorda quei dentini neri che di notte sono ancora più neri e non si vedono. Mi ricorda che senza elettricità sono anche senza luci di via.

- Senti a me. Tieni acceso tutta la notte e te ne vai domani. -

E pensate, che la barca più vicina era la sua!

Accetto il consiglio cercando di dimenticare gli innumeri articoli letti sulle riviste circa il galateo nei porti, là dove si dice sempre di non rompere caricando le batterie.

Ma io non sto caricando un bel niente. Però credo proprio di rompere.

Cena a bordo alla luce fioca fioca che a tratti riesce ad animare la lampada della dinette. E il ronfare del diesel come accompagnamento.

Così per tutta la notte e io che a tratti rompo la monotonia del concerto cambiando il numero dei giri perché mi ricordo un altro articolo dove si dice che il diesel in rodaggio non deve girare molto in folle e soprattutto non troppo a lungo al minimo.

La prima notte della mia vita nella romantica rada di Ponza con la famiglia al completo passa con l'Aifo che mi parla in un orecchio, orecchio a cui di tanto in tanto dò il cambio girandomi ora su un fianco e ora sull'altro.

A prua i pargoli riescono a dormire. La Sgnuffi sonnecchia nella cuccetta a pullman e io aspetto l’alba.

Sono le 04.30 quando la nebbia umida della notte si imperla di grigio ad est subito mi muovo.

Esco nella guazza del pozzetto: che bella Ponza!

Il mio ron ron si stempera nella nebbiolina che si sta sollevando scoprendo via via giri di case sempre più in alto sugli scalini perfetti del grande anfiteatro.

Le barche dormono. Si sente proprio che dormono, non solo chi c'è dentro, ma proprio loro, le barche. Un barchino con un uomo e un ragazzo avanza sotto la spinta molle dei remi, vanno, certo a pescare.

Metto in acqua il mio gommone e cerco un foglio bianco per lasciare un messaggio ad Alfredo che dorme col Bagatelle poco lontano.

Almeno spero che sia riuscito a dormire. Remo anch'io senza rumore, sospeso nell'ovatta dell'alba immobile.

Arrivo alla poppa del Bagatelle e appendo il mio messaggio: grazie di tutto, arrivederci a presto, firmato Ernesto il Molesto.

Tutti dormono anche sul Bagatelle, meno male. La Sgnuffi si sta stiracchiando in pozzetto e mi dà una mano all'ancora.

Ho ancora attimi di paura al momento in cui l’ancora sale e la barca é in folle, ma comincio a farci l’abitudine.

Metto un giro di timone e innesto il Morse. La Sgnuffi docile rimette prua al largo e prende la strada del ritorno.

La luce sulla dinette splende vivida. Le batterie sembrano cariche!

E chi ci capisce niente?

Ma adesso ho solo un pensiero ficcato in testa: se si spegne il motore siamo fregati. Chi me la da' una scossa da ventimila lire in mezzo al mare? E anche Sant'Alfredo é lontano...

Oh dio, ho le vele. Ma non ho mai provato solo con le vele e sarebbe proprio brutto provare per forza.

Ma il motore cammina allegramente e benedico il signor Diesel che con questo motore ha evitato le scintille e tutto l’armamentario elettrico. Questo motore, una volta partito, se ne fa un baffo delle batterie!

La bussola cerca di convincermi che sto facendo rotta per 75° ma io non le bado e ascolto quella di rilevamento che continua a ripetermi che sto facendo rotta per 10°, come vuole la carta nautica e dopo un'ora, nella luce del primo sole, scorgo a prua il promontorio del Circeo. Casa dolce casa!

Sono quasi le nove tempo locale quando entro, nel porto del Circeo.

La solita manovra confusa per costringere la Sgnuffi a infilare la poppa in spazi angusti, patemi, traumi, tremarelle e poi la cima salvatrice di Peppe.

Pigio il bottone nero. Niente. Ci risiamo. Il motore non si spegne.

Il problema mi si presenta sempre più curioso: in folle il motore carica, in moto scarica. Ma non c'é differenza, alcuna per il motore tra i due stati!

Eppure una differenza ci deve essere. Anche stavolta bisognerà cercare un elettrauto.

Tremo all'idea delle prossime ventimila: se avere una barca significa, questo dovrò venderla subito.

Possibile che sia proprio vera la storiella che paragona il gusto dello yachting a quello di strappare biglietti da diecimila stando vestiti d'inverno sotto una doccia gelata?

Peppe ascolta le mie traversie e scuote la testa: é che .1avorano, coi piedi, ecco, cos'è, coi piedi! E io penso ai piedi dell'ingegnere della Multimare.

L'elettrauto del Circeo é più simile ai normali elettrauto, di città. Si incolla le batterie scariche e me le restituisce cariche l’indomani.

Ho passato la notte rigirandomi nel mio letto: non l’ho mai trovato tanto scomodo con quella rete ondaflex e dodici centimetri di permaflex. Laggiù nelle calme acque del porto c'é la mia barca malata.

Malata di una misteriosa malattia: come se a navigare le venisse l'esaurimento nervoso.

Percorro con la mente l’intrico dei suoi nervi elettrici liberamente tirati senza schema da quel mezzo artista toscano. Ma sono bei cavoni neri. I morsetti sulle batterie bene ingrassati e con perfetti contatti, i fusibili che non fondono nella scatoletta della Fiat inchiodata sul retro dell'armadio sotto il cruscotto, poi tutti quei fili colorati più sottili che si innestano sicuri nei misteriosi buchi di tanti strumenti.

Alle tre di mattina arrivo ad una conclusione: per scaricare una batteria qualche filo deve essere a massa.

E qualche filo di puttana, che deve essere a massa solo quando il motore e' in moto. Però il motore é un diesel e non usa la corrente dopo essere stato avviato, e allora non può entrarci un accidente. Eppure...

Alle quattro di mattina mi alzo per vedere l’alba. La notte non porta consiglio, porta stanchezza se la si passa a pensare.

Scoramento: la natura si sveglia, gli uccelli cinguettano nel loro mondo semplice fatto, di rami e di cielo. Sant'Agostino voleva capire Dio e quel bambino voleva mettere tutto il mare nel suo buchetto sulla spiaggia.

Come posso io capire la Sgnuffi nella sua complicata sconosciuta essenza? E’ più lei che ha comprato me che viceversa.

Poi i santoni di Ponza e del Circeo hanno, scosso il capo. Nessuno, azzarda una diagnosi qualsiasi per il suo male. In fondo sono, certo che pensano che il suo male sia io.

Per la decima volta mi processo: che ho potuto f are alla mia barca per farle venire 1'esaurimento nervoso dopo così poco tempo? Niente. Candido come un agnello: la voce della coscienza. Ma tanto lei é là, sola, panciuta e bianca e malata.

E qui si dorme .

Beh io no. Mi vesto e filo al Porto. Ci sono solo le barche. Gli skipper dormono tutti nelle loro ville con l’aria condizionata e i guardiani dormono nelle loro baracche con l’aria di chi si guadagna il faticato pane.

Meglio: voglio essere solo con lei. Dondola umida di rugiada ben legata alle sue briglie.

Salto nel pozzetto, deciso. Magari la sventro ma devo operarla e salvarla.

Allora cominciamo: le batterie...

Alle undici fa un caldo boia e ormai. Il porto é in piena animazione: le barche del giretto quotidiano stanno mettendo alla vela, i poderosi mille cavalli di chi va a fare il bagno dall'altra parte del molo rombano possenti.

Le prue cominciano, a popolarsi di aspiranti alla tintarella e dal fondo dei paglioli si sentono i colpi di martello degli skipper.

Io sono ficcato nell'armadio, seduto su filo di un compensato da un centimetro che mi sta dividendo il sedere in quattro, spicchi: deve ormai sembrare una torta pronta per quattro. Con la doppia contorsione necessaria e sufficiente per ficcare la testa sotto il cruscotto sto analizzando ogni contatto.

Di là sotto non capisco un tubo, ma posso tirare dolcemente un filo alla volta per vedere se é bene innestato anche se non so se é al posto giusto. Tutto a regola d'arte, maledetto toscano!

Che fare?

Oso. Comincio a spostare qualche contatto con cautela: che vampate la corrente continua a 24 volt! E certamente fusibili fanno il loro dovere perché saltano uno dopo l'altro e io pazientemente li sostituisco.

La dentro si soffoca ma ho giurato che non ne uscirò prima di essermi chiarito almeno l’impianto. La possente vite senza fine della ruota del timone ingrana perfettamente col telecomando.

Posso vederne chiaramente il funzionamento. Sfffffrggg!

Gente! Qualcosa sfrigola! Qualcosa sfrigola!

Batto una capocciata memorabile sul bordo interno del Morse che spunta tagliente sulla sinistra ma ecco il suono ripetersi: sffffrgg!

Trattengo il fiato. Adesso forse girerò il foglio e troverò l’assassino... Che sia quel maledetto, topo di Civitavecchia? Vengono in mente tutte in certi momenti.

Ed ecco, la scintilla, il maledetto benedetto lampetto azzurro! Ecco il punto incriminato! Un morsettino, di ottone che spunta da un indecifrabile strumento fa l’amore elettrico con la vite senza fine della ruota!

Si vede bene sulla ruota il buchetto di fusione del metallo con l’alone nero.

Elementare Watson! Le batterie si scaricavano non QUANDO c'era il motore in moto ma QUANDO si girava la ruota del timone! E io non ho ancora MAI girato quella ruota senza accendere anche il motore!

Là, in quel mezzo sarcofago in compensato marino ho vissuto un grande momento. Penso che sia un momento che debba venire per tutti i neofiti della nautica: il momento in cui da passeggeri si diventa qualcos'altro: per carità, non marinai , ma qualcos'altro. La meravigliosa sensazione di poter capire!

Non grido la mia gioia, non sorrido neppure. Me la gusto per dieci minuti buoni col culo fatto a spicchi dal compensato a cui sono costretto perché fa da bordo inferiore all’antro della tecnica.

Quando emergo sono proprio un altro. Fischietto, mi dò una rinfrescata pompando un po' d'acqua con l’autoclave: tanto adesso so che le batterie non si scaricheranno più. Poi esamino il cruscotto dal suo punto naturale: é la spia dell'accensione, quella rossa accanto alla chiavetta del comando motore.

Probabilmente l'artista falegname toscano si e' sbizzarrito col mio mobiletto porta cruscotto e l'ha fatto un mezzo centimetro più basso della norma. Quelle piccole imperfezioni che danno pregio all'opera artigianale, si sarà detto. D'altra parte un falegname perché dovrebbe pensare a qualcosa di elettrico?

E l'artista elettrico deve aver montato COME SEMPRE i suoi bravi strumenti allo stesso posto: che ne sapeva lui che 1'estro del falegname aveva abbassato di mezzo centimetro il piano del cruscotto?

E il morsetto elettrico della spia si é messa a far l'amore con la vite senza fine della ruota del timone.

Scendo sul. pontile con aria indifferente. Peppe mi sorride a titolo di incoraggiamento. Corrispondo. Poi come colpito da un pensiero passeggero, e di nessuna importanza:

- Devo spostare un paio di strumenti sul cruscotto, visto che qua di elettricità capisce niente nessuno, c'è qualcuno che sa fare un buco come si deve? -

Sono le piccole soddisfazioni dello yachting: la sorpresa sul volto del tecnico quando gli spiego l'arcano. L'incredulità sui volti del mio equipaggio quando dico d'un fiato e senza dar peso una frase come "niente, un piccolo arco voltaico tra il polo positivo della spia dell'accensione e il controdado della vite senza fine un dito più in là del telecomando...".

Spostati gli strumenti, tutto sembra definitivamente a posto. Il forzato rodaggio barca-skipper sembra superato.

Posso azzardare una gitarella con madre, sorella e cognato e bambini. All'ultimo la Sgnuffi mette muso e non partecipa. Chi si ricorda più il perché. Forse perché a lei qualche piccolo arco voltaico non l'ho ancora trovato.

Punta Rossa e ritorno per provare che tutto va bene. L'unica cosa che va male sono i passeggeri, a parte il cognato che non soffre il mare ma che si lamenta che al Circeo ci siano tutte "quelle buche" la genitrice é costretta dalle onde a intonare " Tu come una rosa dell'April..." nel tentativo di ignorare la schiuma che sale dallo stomaco, mentre la sorella aggrappata allo strallo di prua spera nel vento in faccia e fa le boccacce quando le ricordo di raccare sottovento.

Rientro al porto soddisfatto. Il motore é docile, le batterie ben cariche, la Sgnuffi infila la poppa con aria più sicura. Peppe salta a bordo e avviene l'inevitabile equivoco: per pescare il traversino dice:

- Non c'è il mezzo marinaio? -

E la genitrice alpina di Graglia (oh qua siamo sui milletré eh??!) sorride e sentenzia:

- No, oggi non e' venuta. -

Peppe si gonfia ma non vuole ridere per rispetto ai capelli grigi.

Ma io, come faccio? Me l'hanno raccontata tante volte questa storia del mezzo marinaio che nel risentirla vera vera sembra ancora più buffa e più incredibile.

La Sgnuffi dalle doppie poppe quando l'ha saputa l'ha presa con spirito: chi ha domato quella burrasca al largo di Anzio quando arrivò quell'onda alta così, può permettersi di sorridere se un'alpina immagina che l’ormeggiatore alluda a lei col termine di " mezzo marinaio".

- Domani si esce a vela. -

Adesso che mi sento la Sgnuffi in pugno voglio provarne tutti i suoi limiti. Il motore tacerà e inizierà la poesia del vento.

L'indomani calma piatta. Quello che é detto é detto e per la prima uscita a vela la mancanza di vento é proprio quello che ci vuole.

Su la randa!. E adesso il sacco del fiocco!

Per la randa ormai non ci sono problemi, sta sempre là e basta tirarla su e giù che va a posto. Per il fiocco la cosa é un po' diversa. La bugna. Il punto di mura. Il punto di penna. Porca miseria, già che c'é il punto di penna! Sarà questo o questo?

Zaf!

Ti pareva che il vento non dava adesso la sua prima soffiata? Proprio quando avvolto nel fiocco come un antico romano sto cercando di capire da che parte devo tirarlo su? Una breve battaglia per bontà del vento. Due o tre bracciate e il lenzuolone é domato e messo sotto il sedere.

Sono tredici metri quadrati di fiocco, roba da vergognarsi al pensiero che ho letto sempre di fiocchi da cento metri in su! E come mi riuscivano bene le manovre a letto col libro in mano! Tutto semplice e chiaro. Lapalissiano.

Comunque questi sono i garrocci. Sapere dare alle cose il loro nome dà un gran senso di sicurezza. I garrocci si ingarrocciano. Se questo mi sembra il punto di penna allora sarà certamente quello di mura ... o quello di scotta? Ma no, quello si riconosce dalla scotta ... A già qui però devo attaccarcela io. In ogni modo è più alto che largo, motivo per cui, se Pitagora non é uno stronzo, un cateto va sullo strallo e il catetino mi deve restare in mano.

Non c'é niente da fare: la cultura é un tutt'uno! Metti per esempio che non avevo studiato Pitagora. Eh, già, perché se il catetino mi deve restare in mano tutto va a posto da solo: la mura, la penna e la scotta. No, per mettere a posto la scotta bisogna farci un nodo.

E allora la notte di Capodanno che l’ho passata a fare con la stringhetta verde regalata da Quattro Ruote Mare con sottile perfidia affinché le burbe del mare imparassero i gruppi e anche a disgrupparsi? La gassa d'amante la facevo sia guardando la stringhetta verde che guardando gli amici che brindavano alla mezzanotte. Anche doppia me la sono fatta quella sera. Ma non si vive di sole gasse e soprattutto si dimentica. Ho dimenticato il mio primo amore figuratevi la gassa, ha voglia a chiamarsi d'amante.

Là, seduto sul bordo di caduta del fiocco (beccatevi questa!), ingarrocciato ma non issato, sarei stato molto amante di fare una gassa. Occhiello alla scotta, poi una volta alla cima che passa prima dentro, poi sotto e poi di nuovo dentro. Si tira e... il polso resta strozzato in un nodo da boia.

- Papa perché stai seduto sulle vele? Così la barca non va avanti! - la voce tremenda e pura del figlioletto.

Quand'é così la cosa più facile è prendere quell'aria di paziente benevola tolleranza, lasciando l’impressione che egli non afferri la cosa nella sua complessità e quindi venga scusato.

Nodo, boia. E boia sia! Il mio fiocco, non morirò per questo! Si issa!

Si issa sì, ma la scotta l’ho fatta passare fuori dalle sartie. Ovvio, che invece va dentro, perché il fiocco, e' piccolo e il carrello di scotta è ben dentro le sartie.

Tanto, sono solo col mi equipaggio che ne capisce meno di me e posso, far finta di pensare e poi assumere l’aria di chi vuol sofisticare, impreziosire la manovra. Così ordino:

- Prua al vento! -

La Sgnuffi che sta alla ruota si storce fuori dal finestrino e annusa l’aria come un cagnolino:

Ma il vento, dov’è?!

Ecco le domande che odio. Uno dice " prua al vento" e prua al vento deve essere. Se il vento non c'è qualunque prua va bene e non c'è bisogno di fare domande irritanti.

Via il nodo boia e dentro la scotta e poi via col boia! Zac!

La gassa! Il polso, esce indenne dalla stretta: é proprio una gassa!

Visto? M'è venuta così, come se fosse Capodanno! Macchine a zerooo!

Certo che é bello, comandare una nave.

Il dito incerto della Sgnuffi sfiora il fatal pulsante nero ma non osa schiacciarlo e mi fissa interrogativa attraverso il vetro della guida. Annuisco e giro il pollice alla maniera antica: pollice verso! Peccato che il fiocco in qualche modo, sia gonfiato d'aria e non mi faccia più da toga. Ma per il motore è la fine.

Silenzio.

Splasc! Splasc! Portata da un vento forza Lazio la Sgnuffi sciaborda e fende. Fende, fende! Capace che farà un quarto di nodo ma lo fa con grande grazia.

Non c'è più niente da fare a bordo, all'improvviso. Il sole, il silenzio, si sentono le cicale dai rosmarini della grande rupe del Circello.

Caliamo una lenza. Quel mio amico che va a Vaurien davanti a Torre Astura mi ha telefonato un giorno giurando che pesca come un Matto.

Una lenta lunga estenuante estatica traina. Le ore si infilano nelle ore rotte solo dai panini che infilano i forni dentati dei pargoli e dei soddisfatti genitori.

Saran quasi le cinque che si alza il ponentino. Un'occhiata esperta alle vele: che convenga prendere i terzaroli?

A parte che non conviene prenderli a chi non li sa prendere, ma non mi pare che il vento sia pericoloso. E’ appena una fresca carezza che farà sbandare la Sgnuffi di un paio di gradi, forse tre?

Per quanto navigare significhi prudenza, mi ricordo benissimo di avere letto di alberi in acqua e perfino di giri a campana.

0 dio, questo e un motorsailer, e magari se mette gli alberi in acqua capace che gli spuntano i germogli, ma ho fiducia nelle mie Sgnuffi. E come non mi sono mai dovuto pentire della fiducia data alla prima, sono sicuro che lo stesso accadrà con la seconda.

In fondo finora si è comportata da amica: con quel po’ po’ di peritonite elettrica che aveva come ha fatto a reggere per la grande traversata da Baratti al Circeo? Che succedeva se ci avesse piantato in mezzo al Tirreno?

Le dò una pacca sulla tuga: brava Sgnuffi, grazie! Se proprio devi guastarti fallo, sempre in un porto amico, se devi ammalarti tieni duro fino ad un ridosso sicuro!

Costantino sbadiglia. Ha calato una sua lenza personale e fa ondeggiare il braccio come gli ha detto il genitore (al quale lo ha detto l'amico di Torre Astura) e con fede incrollabile continua nel suo movimento anche se neppure una vecchia ciabatta sembra voler cadere nella sua fiduciosa trappola.

Il sole arrossa e forse sarà bene dare un colpo di motore e tornare verso il porto.

Sperando , che il motore si accenda. Uno lo spegne, c'é quel bel silenzio e la poesia, ma poi... be’ se poi non si riaccende é un casino! Naturalmente ognuno parla per il proprio livello...

Il fiocco mi viene fra le braccia come un pannolino Lines e ne approfitto per ficcarlo, a tradimento nel sacco e infilarlo nei gavoni di prua.

Poi giro la chiavetta: splendido! Partenza immediata! Lascio il motore in folle e vado a levare le stecche alla randa e ad ammainare.

La Sgnuffi si stiracchia e poi va alla guida: ma. si, mentre la mia morbida donna del destino mi conduce verso gli affollati moli perché non mostrarsi negli antichi meravigliosi gesti dei navigatori che ammainavano la tela davanti alle verdissime magiche pendici di Circe?

Ogni gesto misurato, con quella lentezza che é esperienza e poesia.

La vela trattata con amore, ben piegata sul boma, stretta nel suo ragno elastico, la drizza richiamata e tesa, data volta con precisa cura sulla galloccia, il mantiglio messo in lieve tensione e poi raccolto anch’esso al suo posto.

Ed eccoci, ammirati e guardati, alle piccole colonne d'Ercole del porto gremite di pescatori con la lenza.

Un urlo rompe la quiete!

- Mammola! Mammola! Mammola! Hai pescato!!!!! -

Costantino saltella e indica l’estremità della lenza che ora la Sgnuffi stava raccogliendo dopo avermi passato il timone.

E qualcosa saltella stancamente là, dopo A cucchiaino. Costantino guarda la genitrice con incredula ammirazione: lei sa pescare! Lei ha pescato! Una povera aguglia sfinita quella che viene a bordo, lunga quaranta centimetri, presa con l’amo per il becco. Forse ce la tiriamo appresso dal primo pomeriggio: roba che con un po' di fortuna faceva da esca a qualche bestione del mare!

Ma cosa si può desiderare di meglio che rientrare in un porto amico in un tramonto perfetto, ammainando le vele della propria barca e recuperando un bel pesce proprio sotto il naso degli invidiosi banchinari? In fondo potrebbe essere l'ultimo pesce e non il primo.

Potremmo avere i gavoni colmi di pesce. Ma le grida gioiose di Costantino sono insieme pubblicità e denuncia: ormai è chiaro a tutti che noi, mai e poi mai, abbiamo pescato una qualunque cosa prima di quella povera affaticata aguglia.

L'aguglia muore subito nel secchio e Costantino ha una luce nuova negli occhi quando, guarda la madre: la madre, gente, pesca!

Si avvicina Ferragosto e il tempo volge al brutto. Peccato, si era deciso di arrivare alle famose acque limpide di Palmarola per constatare di persona.

Più o meno allo scadere delle ferie della massa, scade anche il vento e il mare spiana. Fortuna che io posso lavorare un po' quando voglio e così durante la lunga mareggiata mi sono invischiato in una storia di polizia che non può sparare con Milano che odia chissà perché. Credo perché fa aumentare gli incassi e tutti tornano contenti.

In ogni modo il giorno 25 si annuncia perfetto e 1'equipaggio sfila, sacchi in spalla, sulla banchina di buon mattino. Il buon mattino diventa un cattivo mattino appena appuro che non solo Peppe si è dimenticato di fare il pieno di nafta come detto ma che la nafta deve arrivare col camioncino e chissà quando arriva.

Tentiamo, solo a vela?

Uno sguardo al cielo, uno alla faccia dell'equipaggio. Il braccio teso nel gesso della primogenita sembra un monito divino: Vae Pater!

Non andare contro il Fato!

E il "fato" è che la nafta arriva solo verso le dieci e così partiamo col solito rombo in diesel sì-bemolle e tiro su la randa tanto per salvare la faccia.

Ormai Circeo-Ponza sta per me diventando una specie di autostrada e non fa più storia. Passata la fascia di traffico costiero sulle due miglia dal porto, c'é quasi il deserto fino, a Zannone. Quasi perché raramente si incrociano pescherecci o all'orizzonte sfilano, le sagome possenti delle navi della Tirrenia in rotta da Napoli per chissà dove.

Con sicurezza passo tra i denti di Zannone, costeggio la costa orientale di Ponza, scapolo il faro ed eccomi davanti alla decantata Palmarola! Una specie di cappello da marmittone di quelli del Corrierino dei Piccoli quando i grandi erano piccoli, una o due eternità fa. Coste ripide, ben scogliose, di color ocra con strane sfumature dal bianco al rosa. Sarà un quattro, quattro miglia e mezzo da noi, come posata sul presepe blu del mare.

Il pareo della Sgnuffi sventola a prua scoprendo e ricoprendo come un segnale le sue parti più rotonde, perso in atri pensieri non giro la testa alla mia destra finché le grida di stupore e di ammirazione dell'equipaggio non mi costringono a farlo: Chiaia di Luna! Vale certo un colpetto, di timone, gente! E così la mia brava prua entra ad andatura ridotta nella fantastica rada orlata di sabbia e piena di gente per colpa di quel buco che ci fecero i romani mettendo in comunicazione il porto con la spiaggia.

Ma ormai visto che siamo tre miliardi e rotti, siamo dappertutto e se c'è qualcosa di bello, ci siamo di più.

Ma Chiaia di Luna sopporta bene: il candore delle sue incredibili pareti, l’ampiezza affettuosa della rada che sembra abbracciare la barca che entra, il gioco della luce sulle sue grandi rughe di roccia sono, tutti elementi che paiono inviolabili, vergini. Lentamente faccio compiere alla Sgnuffi il periplo della rada e poi di nuovo verso Palmarola.

Accostare ad un'isola sconosciuta é per me motivo di apprensione. Le carte servono fino a che si gira al largo dalle 'coste, ma se si deve proprio andarci sotto, allora non servono più a nulla.

E chi te lo segnala il sassone a cento metri dallo scoglio? 0 la crepa nella roccia che ti permette di accostare con la poppa fin sulla scogliera? Fare quello che fanno gli altri, e che gli altri siano più grossi e con maggior pescaggio.

E se uno é fortunato e arriva sotto, ad un'isola sconosciuta e senza porti proprio mentre c'é un esperto che manovra con una barca più grande, molto é risolto, ma se la barca invece ha già manovrato allora il pericolo é massimo.

Quello é là, indubbio. Anche io vorrei andar là: che faccio? Vado dritto dritto? E se per arrivare là bisogna invece fare un sapiente zig zag fra. bassi fondali?

C’é lo scandaglio, anzi io ho perfino l’ecoscandaglio. Bene, non serve a niente al mio livello. Il lampeggio del Seafarer mi dice quello che c'é sotto quando ce l'ho sotto. E se ce l'ho sotto vuol dire che c'é passato e non c'é problema.

Lo scandaglio a corda. ancora peggio, tanto vale sdraiare la Sgnuffi a prua testa in fuori e farle fare da scandaglio ottico vivente.

Il tentativo di accostare sulla costa Est di Palmarola fallisce nonostante che un bel. due alberi sia ormeggiato in mezzo agli scogli proprio a pochi metri dal fianco della montagna.

La visione delle punte aguzze dei roccioni sommersi che mi passano a un. paio di metri sulla destra, le urla della Sgnuffi che annuncia sempre nuovi pinnacoli, le strilla di Costantino che si è messo con grande entusiasmo a fare l’avvistatore, mi convincono che una bella manovra allargante sia la più saggia. Secondo la carta la costa di ponente è meno impegnativa. Andiamo a Ponente.

Prendo molto alla larga i grandi scogli Cappello e il Faraglione e poi punto su una sassaia digradante con maggior dolcezza.

Qui l'avvicinamento sembra. meno tragico: qualche masso tondeggiante affiora. fino ad un metro sotto la chiglia, ma poi c'é sabbia.

Ecco, con la sabbia che sale dolcemente verso la battigia l’ecoscandaglio fa un ottimo lavoro perché dice di quanto sta diminuendo il fondo e la quantità di catena da buttare con l'ancora.

Prima sorpresa: a occhio avrei detto tre metri: l'ecoscandaglio dice sei.

Tanto di catena non ne butto mai meno di venticinque metri perché da quel punto l'ho tinta per sapere che sono a metà, visto che la dotazione é di cinquanta metri.

Pinne, maschera e fucile mentre il mio sexy secondo si mette ai remi e porta i pargoli sulla scogliera. Sono sei metri, ma sei metri di niente, di qualcosa di così limpido da falsare tutta la mia esperienza subacquea più che decennale.

Sabbia e posidonie intorno a qualche masso isolato. Pescetti di taglia minima. Eppure in queste acque tutti dicono .che si pescano le cernie, ma certo bisogna sapere dove. Mi affido al mio istinto di cacciatore e spinneggio per un paio di orette lungo la costa rocciosa che però si insabbia a sette metri di profondità. Due ore e vedo un tordo di un chilotto che mi scappa pure.

Quando torno a bordo esausto e a retino vuoto mi sento urlare qualcosa da un motoscafo che si è ormeggiato cinquanta metri più in là:

- E che? Non guardi neanche? –

Mi giro e un uomo e una donna sventolano verso di me una cerniotta da cinque o sei chili, un polipo e un paio di saraghi rispettabilissimi.

Sono contento di sapere che il pesce c'é.

- Dove l’avete trovato? - urlo di rimando.

Sghignazzano gli impudenti:

- Al mercato di Latina! - mi sbraitano agitandosi buffi. Metto le mani ai lati della bocca e spero che la risposta arrivi ben chiara:

- Grazieee! Si vede che siete pescivendoli e non pescatori!-

Quelli rombano e schizzano, via con il loro ben di dio. Mi slaccio la muta: ho esplorato la costa di sinistra della rada, se fossi andato a destra forse...

Ecco a che serve l’istinto: è come il radiogoniometro e ha un'ambiguità di centottanta gradi.

Nei radiogoniometri dei miliardari l’hanno eliminata, speriamo che la eliminino anche negli istinti dei poveracci.

Non ho pescato ma sono stanco e contento lo stesso. L'acqua era stupenda, i panorami dei fondali belli. Non sono di quelli che se non prendono un pesce ci fanno una malattia.

Sara perché il posto dove mi sento meglio è in apnea sospeso fra quelle due acque, la dove non si va più né su né giù, e basta muovere una mano per fare una lenta capriola.

Stanco e contento vuol dire cuccetta mentre la guida viene ripresa dall'infaticabile e abbronzata donna del mio destino, che però si vede che infaticabile non è perché lascia guida e ruota alla giovane Amarilli che dispone di una sola mano valida e che ha l'altezza dell'occhio più o meno sul bordo del vetro in modo da godere di una splendida visione del cielo, ma di una assai più limitata del mare.

Chissà, mi ero appisolato. Ma nel dormiveglia sento la voce flautata della primogenita, con una nota di dolce stupore che esclama:

- Uh, vieni a vedere Mammola! -

Mammola per lei è quel gran pezzo di ragazza che io ho sposato. E quel gran pezzo di ragazza si sta addentando un panino in pozzetto voltando la schiena alla prua.

Il flebile ammirato richiamo della figlia la raggiunge ed entra. Davanti alla prua della Sgnuffi stanno sfilando le punte di alcuni altissimi pali. Tremendamente davanti.

Tutto Cardea irrompe nelle arterie del capitano in seconda che spalanca le braccia e urla:

- Rotta di collisioneeeeel - ma non tocca la ruota.

Salto dalla cuccetta tipo "topo di Civitavecchia", evito la capocciata per abitudine ormai acquisita ma non posso evitare la meniscata contro il bordo del tavolo pieghevole e poi, per contraccolpo, la gomitata sullo spigolo del frigorifero, ma niente mi può fermare perché sto vedendo gli incredibili pali nel cielo.

Salto sulla sedia del pilota ignorando il braccio teso nel gesso della primogenita: a dieci metri dieci dalla prua incosciente della Sgnuffi sta passando un peschereccio lungo almeno quaranta metri. Le punte dei picchi erano la sola cosa che Amarilli avesse potuto vedere.

Acchiappo la ruota e la giro tutta sulla dritta sbucciandomi tre volte le nocche nel solito spigolo del cruscotto: la Sgnuffi gira di trecentosessanta gradi passando a tre metri dal giardinetto del colosso di legno!

La visione del barcone stolido, immenso, che va dritto per la sua rotta portando di visibilmente vivente il gran culo di una donna piegata in due su una tinozza, intenta forse al bucatino, resterà sempre impressa nella mia mente facendomi sentenziare la PRIMA REGOLA per la sopravvivenza nel mare nostrum: "Se un peschereccio, vedi, giragli la poppa e poi va dove credi, perché di precedenze e di segnalazioni quelli se ne sbattono i coglioni".

Già, perché il peschereccio veniva da sinistra. Roba da colare a picco con la mano tesa nel gesto delle corna invece che salutando la bandiera.

Passato il pericolo, compiuta la piroetta, rimetto la Sgnuffi dalla grande elica in rotta e poi comincio a ridere. Mica .un riso nervoso, ma proprio un bel ridere sano sano.

- Rotta di collisione! Rotta di collisione! - il mio secondo mi guarda incurvando il becco e dimenando le piume:

- E allora? Era o non era rotta di collisione? Così ho studiato e così ho detto, che dovevo dire??? –

Costantino sentenzia saputo: - Dovevi dire: un pescheregioooo! -

Faccio un'espressione di circostanza stringendomi nelle spalle:

- Potevi dire: Annamo a sbatteeeeeee! E soprattutto potevi girare la ruota.-

Sgrana gli occhi: - Io l’ho girata. -

- Dai, che non l'hai neanche toccata perché hai spalancato le braccia come Giosué sperando nel miracolo.

- E invece l'ho girata, a sinistra, ma la barca continuava ad andar dritta dritta contro quella nave. -

Chi ha esperienza di matrimoni felici sa che la chiave della felicità è nel sapere sospendere le discussioni a questo punto.

Entrando in porto troviamo Peppe su un canotto. Sono arrivate altre barche e in banchina è un groviglio su tre file. Ormeggerà lui. Bene, c'é da imparare.

Gira e sgassa, sgassa e gira. Ruota e controruota. La Sgnuffi gli va storta. Stringe i denti, impreca e sgassa rabbioso. Marce e retromarce fumanti e finalmente la poppa si incastra nel punto voluto agguantata dall'aiutante. Peppe mi guarda di traverso e ammette:

- Manovra male di poppa, poi di là dentro non si vede un c... - si blocca per rispetto all'equipaggio femminile e minorenne, ma han capito tutti benissimo quel che non si vede di la dentro. Dice che dovrei far portare i comandi del motore anche in pozzetto. Forse dice bene, ma spero di farci l'abitudine a guidare da dentro.

Ma non ho tempo di pensarci perché c'è un gran movimento in banchina: Alfredo corre e mi fa un cenno verso il centro del porto. Corrado corre e mi fa lo stesso, cenno, c'é anche il mio amico della Lega, quello che non racca e corre anche lui.

Ma che succede?

Al centro del porto è tutto normale: le barche che dondolano ai corpi morti e i corpi vivi ma immobili di quelli che prendono il sole sulle prue. Un cabinato a motore manovra lento, verso, l'ormeggio e si ferma quasi esitante davanti ad uno spazio semilibero.

Eppure sulle banchine tutti si scambiano cenni, tutti sono pronti per qualche evento che mi sfugge.

L'animazione si propaga anche alle altre banchine: bocche aperte e braccia aperte. Ma che fanno?

Il cabinato lentamente gira la poppa e ronfando va al suo posto.

Appena il motore tace, il porto esplode in un solo urlo e battere di mani:

- Per l'Ammiraglio Von Palafitten, ip ip ip hurrà"".

Lo skipper del cabinato esce in pozzetto sorridendo e calma la folla con ampi gesti di ringraziamento. Sono un pivello della banchina ecco perché non avevo capito.

L'Ammiraglio Von Palafitten è un personaggio celebre del porto.

Mica perché un importante regista della TV (queste e cose sul mare contan poco) ma perché detiene il "primato banchina": due anni interi a bordo senza mollare le cime d'ormeggio con barbe verdi da mezzo metro in chiglia e ostriche attaccate all'elica. E ogni anno quattro mesi filati di intensa vita di bordo con pasti e pernottamenti anche lui solo col suo secondo che porta splendidamente il bikini.

Quindi "Ammiraglio Von Palafitten", titolo ad honorem coniato per lui da Alfredo ma guadagnato sul campo. E oggi, l’evento! L'Ammiraglio ha mollato gli ormeggi e si è spinto fino a Palmarola: ecco spiegata la degna accoglienza del rientro. Gita per altro piena di suspense come l'Ammiraglio più tardi racconta davanti alla spaghettata celebrativa, con tanto di marinaio "sbronzo per dimenticare" incastrato nel gavone di prua e solenne giuramento dell'Ammiraglio che mai più las

cerà la banchina e per nessuna ragione.

Difficile ricostruire con ordine tra seppie in nero e vino bianco ma mi pare di capire che è stato il marinaio a convincere l’Ammiraglio ad osare, assicurandogli immunità totale grazie alla sua esperta presenza a bordo.

Il sole era caldo, il mare una tavola, il cielo terso. Alte pressioni livellate dappertutto, alte pressioni anche dal secondo e l'Ammiraglio cede all'avventura: e Palmarola sia!

Viaggio regolare, a parte la strage di conchiglie fatta dall’elica ai suoi primi giri, ed ecco Palmarola la bella! Il marinaio alla guida con un sorriso sulle labbra e il fiasco del vino, fresco in pugno.

- Adesso passiamo tra i faraglioni - annuncia. L'Ammiraglio tace perplesso: a lui sernbra che non si possa, ma c'è il marinaio quindi... GRAAAAAAAAT!

La barca e' passata ma adesso in chiglia non ha più il mezzo metro di barba verde e neppure l’antivegetativa di tre anni fa e neppure il gel di dieci anni fa. Grazie se le è rimasta la chiglia.

L'Ammiraglio sta per dare il si salvi chi può ma si trattiene, la brava e buona barca galleggia nonostante tutto.

Il marinaio é diventato mezzo e se potesse metterebbe fuori anche il gancio, balbetta che lui di lì c'é sempre passato.

L'Ammiraglio lo guarda con dolcezza e poi annuisce rilevandolo dal timone:

- Certo caro, ma a piedi... -

Ecco perché non si riesce a convincere il marinaio ad uscire dal gavone di prua dove è andato a nascondersi e a finire il fiasco.

E dire che Cardea ce lo diceva sempre: non fidatevi dei vostri marinai.

E’ tardi quando con la Sgnuffi in pareo svolazzante alla brezza di terra trasciniamo gli stanchi piedi verso casa: i barcollamenti sono ovviamente dovuti al gran piede marino che ritoccando terra ferma stenta a tornare terragno.

Il giorno dopo ho una visita: Philip, il mio professore di inglese.

Professore perché insegna inglese per sbarcare il lunario approfittando del fatto che è nato in Inghilterra, mio nel senso che l'inverno passato facevo parte di una delle tante scolaresche di volenterosi che spendono inutili soldi cercando di imparare l'inglese con tre ore la settimana e infine Philip perché così volle sua madre un venticinque anni fa al massimo.

Bene, caro Philip, facciamo un bel giro in barca? Come te la cavi col mare? La reazione non è la tipica italiana, è la tipica inglese: well... e dopo la pausetta, in italiano perché lui lo ha imparato mentre noi l'inglese no, giù un entusiasmo da levare il fiato. Sembra che il mare gli piaccia e lo conosca sopra e sotto.

Okay, okay. Sacchi e fagotti e all'alba giù in banchina. Von Palafitten dorme il sonno del giusto ben ormeggiato e col gavone di prua aperto e vuoto. Alla fine quel marinaio deve essersi lasciato convincere...

Philip lancia fischi e urla di ammirazione davanti alla Sgnuffi che dondola sull'acqua del porto muovendo appena a candida poppa.

Che bella barca! Che bell'albero! Che bella linea! Che grande! Che bella tuga! Che bel timone.-.. Philip interrompe la dimostrazione che la frigidità inglese e' una grossa balla inventata dalla regina Vittoria & C. e resta a fissare perplesso attraverso l’acqua, giù verso ]a pala del timone. Guardo anch'io, così di sfuggita, che bella pala! e mi rimetto a caricare i sacchi.

Philip non sembra convinto e insiste mostrando perfino col dito come un napoletano. Guardo di nuovo: porcaccio mondaccio infame!

Ma quella pala... ma quella porca pala... ma sì, è tutta piegata da una parte, alzata verso sinistra come se stesse ballando il cancan.

Ma è notorio anche a chi non ha frequentato i corsi della Lega Navale che le pale del timone non devono ballare il cancan. Le pale possono girare, fate girare le pale finché volete ma non piegatele a squadra.

E allora questa è una pala pervertita, matta o chissà cosa. Peppe vede il mio pallore di rabbia e si avvicina: indico, io col dito.

Si piega, guarda, soffia, si gratta i riccioli brizzolati e alla fine sentenzia:

- E’ che lavorano coi piedi, ecco cos 'è!-

E io rivedo i piedi dell'ingegnere della Multimare. E con quel pensiero fisso vado dritto al telefono, del bar e formo il prefisso che mi passerà il cantiere toscano.

- Oh 'ome la sta dottore! 0 che gli è qual'osina cbe non va per 'aso?! - e aspira le "c" proprio benino e quelle aspirate chissà perchè adesso mi sembran prese pel culo.

Anzi pel 'ulo.

Respirare profondamente e contare fino a dieci: ci si rimette in teleselezione ma poi alla fine ci si guadagna perché ditemi se c'è cosa più idiota che insultare qualcuno, a tanto minuto. Invece con un bel respiro, il più brutto esce con l'anidride e restano solo i fatti: il timone storto.

Sento che anche all'altro capo del filo adesso respirano profondamente, però la sua è una grande inspirata: io mi decarbonizzo e lui si ossigena.

- 0 che gli e' andato a sbattere, dottore? -

Non é una speranza ma una mezza certezza, anzi tre quarti almeno.

E io calmo a dire che no, non sono andato a sbattere, che e proprio il timone che si è messo, a pala in su senza che io gli abbia fatto niente.

Silenzio. Poi la decisione:

- Lo sa che si fa dottore? Noi si piglia la macchina e si vien giù a vedere! -

Non so se e' l'organizzazione del "dopo vendita" della Multimare o la curiosità suscitata dalle mie dichiarazioni sulla pala, fatto sta che bisogna dire che questa gente si muove. Anche dopo aver preso i soldi.

E questo già mi fa vedere il timone un po' meno storto. Certo la gita non sarà per oggi. E nemmeno, per domani. Così il professore d'inglese se ne va convinto di portare jella. E mi dispiace anche perché nella nautica l'inglese serve come il pane, come già vi ho detto.

Mica per ridere, avete mai dato un'occhiata a quelle stupende riviste inglesi con poche pagine a colori ma fitte fitte di testo e di interessanti annunci pubblicitari? Provare per credere: costano in Italia sulle sette ottocento lire stabilità monetaria permettendo.

E pensare che hanno attraversato un pezzo d'oceano per arrivare fin nelle nostre edicole. Comprate Practical Boat Owner, per esempio, oppure Yachting World o Yachting Monthly e studiate inglese quanto basta per scoprire che un metro di cima in terylene da 10 mm. costa meno di trecento lire e non cinquecento e fischia come in molti nostri negozi. Oppure che potete permettervi una strumentazione elettronica completa spendendo dalle 120 alle 200 sterline invece che sette od ottocentomila lire comprando da noi e vedrete se ho ragione di studiare l’inglese!

Su quelle dense riviste troverete anche gli indirizzi di ditte famose che vendono col. sistema postale "world wide" e che quindi vi spediscono a casa tutto, ma proprio tutto ciò che vi può servire ignorando esclusive da strozzo e addebitandovi una o due sterline di spese postali. Per pacchi di peso inferiore a undici chili la roba vi arriva direttamente a casa per posta senza altri problemi o spese. Una pacchia. Prima si scrive a queste ditte e gli si dice ciò che si vuole comprare, loro vi rispondono mandandovi una specie di fattura pro-forma con le spese di spedizione, voi andate in una banca e mandate il. denaro. Poi aspettate: in genere sulle tre settimane.

Un inconveniente c'è: se qualcosa non funziona bisogna rispedire in Inghilterra e aspettare di nuovo.

Per esempio sulla Sgnuffi ho il log della Midas con tanto di speedometer che non funziona. Ho reclamato e mi hanno telefonato (ma sì, telefonato!) e adesso devo smontare tutto e rispedire. Il tutto e' costato solo 42 sterline ma speriamo che non sia un bidone, non so come si dica in inglese ma certo di bidonisti ce ne sono dovunque.

Per esempio questo timone: é o non é un bidone? La faccia del tecnico arrivato dalla Toscana é perplessa. Guarda attraverso l'acqua, poi chiede se qualcuno può andare sotto con le bombole a dare un'occhiata precisa, un tecnico però.

Peppe chiama un biondo della CAM e subito il toscano è accontentato. Il responso è chiaro: bicchierino e perno passante sono scomparsi. La barra del timone è piegata a sessanta gradi.

Il toscano allunga il. labbro inferiore e se lo tira. Terminato 1'esercizio mi fissa con sguardo sincero:

- Le dico la verità, dottore, ero sicuro che avesse sbattuto. La barra del timone e' inox grosso così, come può piegarsi dopo neanche un mese di mare? -

Nessuno può rispondere. Bisogna tirar su e guardare meglio. Tirar su, cioè alare la barca. Ma l'ufficialmente inesistente porticciolo del Circeo è realmente inesistente sul. piano dei servizi. Niente gru, niente piano di alaggio, niente di niente. Bisogna andare a Terracina.

Peppe si stringe nelle spalle: sono, cinque o sei miglia, che ci vuole? E se il timone si staccasse?

Nessuno può rispondere. Decido io: si va a Terracina e si spera in dio.

Il toscano è d'accordo. Peppe guarda l’ora: è quasi la mezza, be’ lui va a mangiare e poi magari viene a Terracina con la macchina a dare un'occhiata. Il toscano dice:

- Vada, dottore, vada. Io vengo con la macchina. E’ più comodo, sulla macchina ho i ferri - e squaglia veloce lungo la banchina.

Salgo sulla Sgnuffi da solo. Gli amici si vedono nel pericolo. E io sono amico della Sgnuffi: non mi farà scherzi per cinque migliette.

E poi, strano, ma comincio a fidarmi di questa barca.. Magari alzerà il timone ma ha il buon gusto di farsene accorgere solo ben dentro il porto.

Dò motore e mollo le cime. Peppe mi saluta dalla banchina:

- Se per le due non é a Terracina, vengo a cercarla con un motoscafoooo! - questo per dare morale.

Provo il timone: girando la ruota a dritta la Sgnuffi obbedisce quasi normalmente, girando a sinistra risponde molto di malavoglia.

Adesso mi ricordo l'altra Sgnuffi, quella rimasta a casa coi pargoli: aveva detto di aver girato la ruota a sinistra davanti a quel peschereccio. Vuoi vedere che era vero? Eppure l’ho vista con le braccia alzate e la frase di Cardea, stentorea, in bocca.

Comunque la Sgnuffi monopoppica ronfando esce tranquilla dal porto e affronta il cosiddetto mare aperto. Tiene la rotta dritta senza che la tocchi, una volta trovata la posizione di equilibrio con la ruota. Mi permetto perfino una capatina a prua a raccogliere bene le cime e prepararle per l’accosto nel porto di Terracina, davanti ai cantieri Aprea.

Il porto di Terracina lo conosco bene da terra, ma non ci sono mai entrato dal mare. Il cielo si va annuvolando, ma non può esserci tempo per brutti scherzi. Vedo gia i massi del porto canale.

Sono le ore 13.30 quando imbocco il porto canale piegando a sinistra con una certa apprensione. La Sgnuffi gira superbamente. Il canale é pieno di barconi, la darsena ha un imbocco sulla sinistra risalendo il canale, un imbocco che mi appare tremendamente stretto. Devo suonare. Uno per virare a dritta, due per virare a sinistra? Speriamo che il ricordo sia giusto, è tardi per controllare. Due colpetti di sirena e via con la ruota. Imbocco? Imbocco.

Sulla banchina di Aprea si agita felice il mio amico venuto dalla terra di Dante. Attracco di prua senza manovre, con una dolcezza e una precisione che mi riempiono di gioia, naturalmente dissimulata perfettamente sotto l’aria marinara che vado via via indossando sempre di più.

Il toscano é in banchina con i ferri. Già, una cassettina da soccorso automobilistico, che tiene con noncuranza con una mano.

Guardo la cassettina ironico ma non dico niente. Però bisognerebbe che chi fa le barche poi si fidasse ad andarci sopra, ma non si può avere tutto.

Avvolta in due sottopancia di cuoio la Sgnuffi vien fuori dall'acqua con tutta il suo ventre. La gru la deposita sul piazzale e viene puntellata alla meglio.

L'asse del timone é una barra di acciaio da cinque centimetri di diametro -e però all'attacco sulla pala si riduce a non più di due.

Una strozzatura cos! perfetta che la scambio per voluta. Lo chiedo al mio toscano, ma quello non dice nulla. Vecchi marmai curiosano e scuotono la testa: loro montano sui pescherecci dei comuni tubi di ferro verniciato per muovere i timoni e durano almeno sei mesi. Metto il dito sulla strozzatura: ma questa, è corrosione?

Il toscano tergiversa, chiede se al cantiere abbiano una morsa per drizzare l’asta. Peppe spunta da dietro e guarda: là non c'e' niente da raddrizzare ma solo da sostituire.

Finalmente qualcuno l’ha detto e anche l’amico toscano sembra sollevato. Forse non voleva prendersi da solo la responsabilità della decisione, ma adesso è d'accordo anche lui. Bisogna sostituire.

Naturalmente son d'accordo, anch'io ma vorrei anche sapere perché mai quella barra di inox si é corrosa in quel modo, perché metterne un'altra va bene ma e se dopo un mese me la ritrovo più corrotta di un deputato? La ricambiamo? Ma non posso caricare tutto sulle spalle del mio amico toscano che avvilito sta già facendo i suoi programmi: al cantiere c'é un altro Multi, adesso prende la macchina e torna su, smonta e torna giù.

Sei ore andare, tre a smontare e sei a tornare. Vado, smonto e torno. Non vuole nemmeno pranzare. Carica il timone svirgolato sulla giardinetta e si allontana.

Il crocchio dei vecchi marinai é una sorgente di opinioni tecniche: intanto scopro che ci sono acciai inox e acciai inox. Bisogna vedere quale inox era quello. Un altro dice che certi inox reggono meno del ferraccio. Un terzo ricorda di certa ferramenta inox che dopo due mesi sembrava mangiata dai tarli. Peppe scuote la testa e sentenzia:

- E’ che lavorano coi piedi, ecco cos'é - e mi dà un passaggio perché la Sgnuffi resterà con la pancia al sole fino a domani.

Mi aspetta un'altra notte di ponzamento. Bisogna scoprire il dannato motivo di tanta corrosione. Scintilla. Scintilla! Ma certo, zuccone! Scintilla! La stessa azzurra scintilla che scaricava le batterie! Dove la scaricava? Sulla vite senza fine della ruota ma mica la corrente rimaneva lì! Quella viaggiava via cavo fino all'asta inox del timone immersa nel mare! Altro che corrosione galvanica! A quella povera asta, inox gli abbiamo dato qualche centinaio di ampere a 24 volt!

Il mattino dopo, pallido e con occhiaie, arriva il toscano, con il nuovo timone. Lo ficca su, forza un po' la scatola in chiglia, quella che deve reggere il bicchierino. Bisogna fare nuovi buchi, ma risultano troppo vicini ai vecchi. Si accrocchia in qualche modo con ribattini passanti. Sembra solido. Speriamo.

Giro la ruota e il timone sembra a posto. Forza Sgnuffi, si torna in acqua!

E gù il sole cala. nel cielo. Il toscano trascina i piedi fin negli uffici di Aprea e paga alaggio e varo. M fa quasi tenerezza. Lo ringrazio, sorride e si rimette al. volante: sei ore ed é a casa... La Sgnuffi dondola nel porto e io sono stanco. Quasi vengo a prenderla domattina. Un amico mi dà un passaggio e torno a casa in macchina.

Decisione sbagliatissima: il mattino seguente la Sgnuffi è sempre là ma. i suoi gavoni sono vuoti! Mi hanno fregato tutto quello che c'era dentro: il fucile sub nuovo di zecca, pinne, maschera, pugnale, piombi, estintore, un. rotolo di cavo (40.000 lire gente!!!) da 10 mm. che avevo comprato a Civitavecchia, mi hanno lasciato la CQR perché é così bene incastrata che io solo so come fare per drarla fuori. Ah no, anche il secondo ci riesce benissimo e se ne vanta spesso. Al cantiere Aprea nessuno sa niente e giurano che é la prima volta che succede una cosa simile a memoria d'uomo. Probabilmente a memoria d'uomo con memoria corta.

Che posso fare? Lo segnalo all'Istituto Idrografico della Marina: nel Portolano, li dove si parla del porto di Terracina, inserire: attenzione, ladracci zozzi!

Ho una rabbia che vado in giro per il porto: giuro se vedo un rotolo di cima come il mio lo rifrego. Ma non c'é. E’ d'uopo rassegnarsi e la voce "ladracci zozzi" figura solo sul mio portolano personale. Vieni, povera Sgnuffi violata da manacce ignobili, vieni che torniamo a casa.

Un'ora dopo ormeggio all'amica banchina accolto dal. sorriso di Peppe che mi incoraggia:

- A Terracina son tutti ladri. Qui non è mai sparito niente a memoria d'uomo –

Tocco alluminio anticorodal in mancanza di meglio.

Peppe oggi é allegro, si deve sentire buono perché ammette anche che quei toscani si sono comportati bene. Un timone cosl costa almeno un centone, più le quaranta di alaggio e varo e il viaggio e le giornate del tecnico. Brava gente dopotutto. Anch'io però.

Settembre avanza. Amarilli ha tolto il gesso. Ma dobbiamo andare tutti i giorni al Centro Traumatologico di Latina per farle fare fisioterapia. Addio povera Sgnuffi, le giornate scorciano, si sente già odore di fine vacanza e tra un po' scatta anche l’ora solare che ci porta perentoria davanti all'autunno e al dovere.

Una notte, verso la metà del mese, all'una si leva un gran vento da levante. Un vento raro in questa stagione, in fondo é ancora estate. Le cime degli eucaliptus schiaffeggiano il cielo nero e quelle dei miei pinetti menano colpi di frusta. Vento di levante e la Sgnuffi é ormeggiata alla pù abusiva delle banchine abusive nel porto ufficialmente non esistente e che ha come traversia proprio il levante. Infatti il pezzo di banchina di Peppe é proprio l’ultimo, ben aperto a levante.

Quasi quasi scendo, al porto. Ma la soffiata dura quindici minuti, tremenda e poi si placa. Certo non avrà sollevato gran mare. Il guaio é che domattina saprò che ha sollevato un porcone di motoryacht e lo ha sbattuto proprio sopra la povera Sgnuffi.

La mattina é grigia e ancora ventosa. La faccia di Peppe é scura come la mattina e come mi vede in banchina con maglione e faccia interrogativa scuote il capo, triste come il medico che esce da una stanza operatoria lasciando dentro il paziente morto.

Il mio sguardo corre sul filio delIa banchina: la Sgnuffi non c’è più! Ottima prova per le coronarie: reggono.

Peppe sospira e indica il molo di sottoflutto:

- La fine del mondo! L’ho portata di là, ma... - scuote di nuovo la testa.

Guardo ansioso dall'altra parte del porto: la Sgnuffi dondola in quarta andana, ormeggiata in un intrico di cime e vista da qui sembra indenne. Certo non lo è ma almeno galleggia.

Intanto Peppe continua il suo racconto come se la vittima fosse lui che proprio quando si é alzato quell'incredibile vento dell'una di notte si stava per infilare a letto. E’ saltato subito giù e via con la macchina al porto dove il ragazzo che dorme inel bugigattolo non ce la faceva a reggere le barche che saltavano sulla. banchina come cavalli impazziti.

- E quando ho visto quel motoscafone alzarsi di un metro e poi piombare sulla barca, mi son detto: ci siamo giocati la Sgnuffi! E invece macché! - e stupito adesso, e sorride giulivo al ricordo della sorpresa - La Sgnuffi si é fatta qualche sgraffio e al motoryacht é partito il. bottaccio, con tutto il trincarino.

Altro che collaudo del R.I.Na!

Faccio il giro del porto di corsa. Salto su una goletta, poi passo su un Benetti, poi attraverso un Karaté ed eccomi nel pozzetto: gli ormoni (stamponi dei piedoni) si sprecano, ma anche da qui tutto sembra ancora a posto. Mi sporgo: ecco dov’é il guaio! Tre graffioni che sembrano una zampata di tigre e il bottaccio di alluminio ammaccato e sgraffiato per quattro metri buoni. Sono quasi allegro: dopo !a faccia di Peppe quella roba là è allegria pura.

Ma visto che Peppe fa le facce bisogna che le faccia anch'io e così, scuro, come se, la Sgnuffi fosse affondata, torno da lui che mi dà un'occhiata e spalanca le braccia in un gesto di rassegnazione impotente o di rassegnata impotenza: il mare!

Ripeto il suo gesto e faccio eco: i porti! Grappoli di imbecilli discutono e lavorano intorno a questo porto da quasi vent'anni ma non riescono a finirlo.

Peppe infila subito l’argomento con foga liberatoria: e quando il molo di sopraflutto era basso e corto e l’architetto veniva. a vederselo nelle giornate d'inverno fregandosi le mani per la soddisfazione e chiedendo ai marinai:

- Come va il mio, moletto, come va, il mio moletto? –

Poi venne quel quattro novembre del sessantasei che si portò via quasi tutto il moletto ed evidentemente anche l’architetto perché non risulta che sia più tornato da quelle parti.

- Saranno almeno trecentomila di danni.

Una frase gelida e Peppe mi guarda storto:

- Io sono assicurato. Pago seicentomila lire ogni tre mesi di polizza. Mai denunciato un danno. Mi pagheranno senza fiatare. C'é pure quello del motoryacht che ne ha per più di un milione.

Mal comune mezzo Claudio, come diceva un amico mio dei bei tempi andati. Già, purtroppo i bei tempi son sempre andati.

Comunque rigata o no, la Sgnuffi continua a portarci a spasso mentre parte un messaggio per il cantiere toscano: stavolta loro non hanno responsabilità ma il bottaccio lo possono sostituire soltanto loro data la speciale sagomatura del profilato d'alluminio. Non é cosa urgente e stavolta nessuno, si precipita, meglio farlo con comodo durante l’inverno.

Si parla già d'inverno.

L'ultima gita stagionale é ancora a Zannone e Ponza. Proprio sotto il faro di Zannone c'é una bella frana di grandi massi che arriva fin sui quindici metri più o meno. L'acqua é la solita; limpida da bere. La Sgnuffi in bikini acchiappa i pargoli e li carica sul canotto, poi rema verso l'attracco del f aro. Io parto con muta e fucile e alzo la testa dopo una decina di minuti buoni: infatti lo spettacolo del fondale é di quelli che incatenano, ma anche quello che si sta svolgendo fuori non é male.

Sui massi della scogliera una gran bionda e due pargoli si scambiano tremendi schiaffoni dappertutto, saltellano, strillano, ululano come cuccioli in una notte di luna piena.

Devio verso la scogliera: adesso la Sgnuffi scuote il tornito fondo e se lo schiaffeggia con sonanti schiocchi. I pargoli levano alti lai e lacrimoni mentre tentano di buttarsi in acqua inseguiti da squadroni di moscerini in picchiata, anzi mosceroni. I mosceroni di Zannone fanno buona guardia sulle scogliere tenendole libere dai bagnanti, così l’habitat’subacqueo resta indisturbato e tordi, spigole, gronghi e saraghi assumono dimensioni sconosdute alle scogliere del Circeo.

Però bisogna andar fondi o avere la fortuna di infilarsi in certe spaccature e sorprendere i saraghi aquiloni a primo botto; se c'é gia passato un altro o se spadellate tutto si vuota fino al giorno dopo.

Naturalmente questo é senno di poi. Senno che viene dopo le spadellate che ho fatto io. E di fatti emergo a retino vuoto e occhi pieni di pesce.

Il capitano in seconda ha ordinato la ritirata dalle scogliere e scruta il cielo nel terrore che i mosceroni organizzino l’assalto anche sul mare, ma tutto sembra tranquillo.

E tutto l'equipaggio, narrerà per sere e sere dell'assalto subito e le torme di moscerini promossi mosceroni sul campo diventano sempre più sanguinarie.

La Sgnuffi dalla pelle setosa mostrerà i ponfi a tutti coloro che han voglia di vederli per il resto dell'estate: e son sempre tanti quelli che han voglia di vederli. Ho cercato di spiegare al secondo che non si tratta di un grande improvviso interesse entomologico che ha investito le coste dell'Italia centrale ma del solito papagallismo occhiereccio che non perde occasione per guardare due belle coscie.

Il secondo si indigna in superficie, lusingato nel profondo della sua femminilità. Fortuna che i ponfi poi se ne vanno e resterà solo il racconto col rombo degli stormi picchianti, proboscidi tese come baionette.

Notte nella rada di Ponza con la luna e lo scenario che non stanca mai di meravigliare per la sua bellezza. Dicono che ci sia lo zampino del Vanvitelli, se é così, viva Vanvitelli.

Nottata perfetta dopo una gran cena al ristorante "L'Ancora", scelto con cura fra quelli d'aspetto più dimesso, dopo aver appurato che una bottiglia d'acqua minerale da portare in barca costa nei bar quattrocento lire. Naturalmente quattrocento lire millenovecentosettantadue.

Sveglia alle otto, tanto il bollettino non serve dovendo tornare solo fino al Circeo. Piove. Un'acquerugiola fina fina, proprio da due novembre. Tutto spento, grigio.

- Che si fa?

Butto una lenza e a mezzo motore faccio il periplo di Ponza. L'isola è tutta bella anche se da una parte é deturpata dalle cave.

E’ solo dopo un paio d'ore di traina che scopro che il secondo ha fatto rintorcinare tutta la lenza e non si é mai preoccupata di badarci.

Il cielo ha uno squarcio blu e Zannone é là davanti, oltre la punta di Gavi. Manca ancora un bel po' a mezzogiorno, quasi quasi torno a far visita a quei saragoni.

Sulla sinistra appare un peschereccio, di una quindicina di metri al massimo, che va a tutta birra, tagliandoci la rotta. Ammaestrato dai precedenti rallento e tengo gli occhi bene aperti: sulla sommità del picco sventola una bandiera rossa. Peschereccio di sinistra? No, ma un momento! una bandiera rossa vuol dire "nave in pericolo" o sbaglio? Come sempre quando serve non c'é tempo per controllare. Il peschereccio viene dritto come una spada, motori al massimo. C'é un uomo con la coppola che si sbraccia. Amarilli risponde al saluto. Ma non e' un saluto: muove tutte e due le braccia e anche quello, l’ho studiato, é un modo per dire " pericolo".

Il peschereccio ci passa di prua, almeno a dieci nodi diretto verso il porto di Ponza. L'uomo continua a sbracciarsi e un altro tiene in mano un tubo nel pozzetto che butta acqua come la fontana dell'Eur.

Ho capito, ho capito: hanno un buco. Ma io che posso fare se vanno il doppio più veloce di me? Mistero. Li seguo per un po' ma quelli filano verso il porto troppo veloci. Rimarrà un mistero.

Un colpo di ruota ed eccoci a Zarmone. Lo squarcio di azzurro Mi é rimarginato e l'acqua ha un'aria poco invitante riflettendo quella luce livida. Ma io so quel che c'é sotto e non mi lascio ingannare. Prendo il fucile e giù.

Quando uno, é sotto (ed é sempre sotto anche se viene su a respirare perché resta sotto, psicologicamente) il tempo ha una dimensione diversa. Inseguo un tordo che gioca a rimpiattino tra i grandi massi: il tordo é facile ma bisogna pur arrivarci a tiro. Decido di giocare d'astuzia, una bella ossigenata e poi giù puntando dieci metri sulla sinistra, lento fin sul fondo. Il tordo mi ha visto e ha scodettato un poco per allontanarsi tra due ciuffi di posidonie, ma senza fretta giudicandomi dalla mia lentezza: e qui sta l’astuzia, perché appena fuori vista pinneggio rasente il fondo come un disperato e disegno un bel mezzocerchio di cinque o sei metri di raggio: il tordo, pigro, sbuca tra le posidonie proprio davanti la punta della mia freccia. Mi dispiace quasi premere il grilletto.

Quando emergo col mio pescione sento un gran rombo scuotere il mare. L'idea dell'elica omicida é sempre impressa nel cervello del sub e subito giro intorno la maschera terrorizzato. Ma il mare é deserto.

Emergo sbuffando: un altro rombo violento. E’ un tuono! Nuvoloni neri hanno sostituito quel grigio, da altostrato e questi sono nemboni con le frange! Ma come é stato possibile in pochi minuti quel po' po' cambiamento?

Nuoto verso la Sgnuffi che dondola sul mare che si sta alzando. Da bordo segnali di aperto rimprovero, quando mi attacco alla scaletta un coro a tre voci gareggia in esclamazioni rimbrottanti. Dicono che sono due ore che son sparito e che il tempo sta diventando proprio brutto.

Due ore dietro il mio tordone, gente! Non mi sembra possibile ma gli orologi sono orologi e devo arrendermi buttando la bestia a pagliolo. Adesso non pensate a gigantismi tipo Folco Quilici, ma pensate alla realtà dei nostri fondali entro i quindici metri, ecco, adesso converrete che un tordo da 44 cm. fuori tutto e oltre i due chili di peso é rispettabilissimo. Comunque se non lo rispettate, beati voi. Io sì.

- Via l’ancora! - La catena é dura! Non si sara' impigliata!!!? Il tuono scuote l’universo. I lampi cominciano a spaccare il cielo e poi di nuovo botti da capodanno napoletano.

- Macchine avanti piano!- L'ancora speda. Su la catena e adesso ragazzi eliche!!!!

Il mare monta, subito duro, corto, con schiumette sempre più decise. Ma il carnevale é tutto dei lampi: sospesa tra due infinità piatte, la punta dell'albero d'alluminio sembra chiamare a gran voce quelle saette che guizzano dovunque. Mai visto una cosa simile: l’aria puzza d'aglio e deve essere ozono. A tratti i lampi sembrano salire dal mare anziché scendere dal cielo e una colonna di fuoco piomba a mezzo miglio dai nostri occhi atterriti.

Dovevo mettere il parafulmine, micragna porca! Avevo anche scritto a quelli della Protector, poi all'ultimo momento costava troppo. Dalla poltrona di casa sembrava proprio un po' caro: ma adesso, qui in mezzo a questi fuochi d'artificio si rivela micragna porca. Adesso c'é pure il nebbione. Ci entriamo all'improvviso, una nuvola bassa più che nebbia. Costantino viene dislocato all'oblò di sinistra tenuto socchiuso, il secondo va in pozzetto, Amarilli all'oblò della.cabina di prua e io mi bagno l’orecchio e la spalla a quello di dritta. La Sgnuffi é tutta orecchi nella disperata speranza di captare qualche segnale se qualcun altro si sta godendo il nebbione.

Io pigio sulla sirena a intervalli costanti. Vedo appena, la punta della mia prua. Impressionante. Ho il motore al minimo e avanziamo a tre nodi, ma anche così se quel maledetto peschereccio portatore di culi di donne ci dovesse riattraversare la rotta saremmo fregati. Chissà se con la nebbia guardano dove vanno, che suonino ci conto poco.

Tre ore così. Roba da farsi venire una borsa lunga fino alle caviglie, come diceva quell'amico mio dei bei tempi. Naturalmente alludeva ad una borsa fisiologica.

Ma come dio vuole l'ovatta si squarcia davanti alla prua della Sgnuffi e usciamo dalla nuvola trovandoci in pieno sole, proprio come se fossimo un DC-9.

L'onda un po' dura ci fa appena sorridere adesso che vediamo davanti a noi il grande verde Circello. Navigare bello, ma anche rientrare in porto non è male.

E’ arrivato il trenta di settembre. Fine dell'estate. Quella reale, quella meteo e' finita da un pezzo. Ho portato a Roma in macchina la Sgnuffi bipoppica e pargoli annessi, poi lasciati i pargoli alla buona sorveglianza di una nonna di emergenza arrivata da Napoli su richiesta, io e il mio inseparabile secondo abbiamo preso la corriera Roma-Circeo che in appena tre ore e mezza, facendoci visitare tutti i paesetti ameni dei Castelli, ci riporta a San Felice.

Cenetta intima in un piccolo ristorante ormai semideserto e invaso dall'aria frizzantina della sera e poi a piedi fino al porto e a nanna nel ventre della Sgnuffi di vetroresina. Pronti per salpare all'alba alla volta del Tevere dove la nostra grande piccola barca passerà l’inverno cullandosi mollemente sulle dolci bionde acque reduci dai cessi e dai bidè di tre milioni di persone.

L'alba e' quella delle otto e fa freschetto. Peppe saltella arzillo fregandosi le mani, forse per scaldarsi, forse perché incassa quarantamila lire quarantamila per un mesetto di guardanìa.

Dice che è un prezzo di favore. Inutile indagare a favore di chi. Strette di mano e arrivederci alla prossima estate. Via il traversino, motore e acqua sotto la chiglia!

E’ una dolce traversata senza storia. Il mare si mantiene discreto, un po' di vento che poi cala, nuvole che si rincorrono e delfini che saltellano sull'onda davand ad Anzio.

Sei ore dopo eccoci davanti la foce di Fiumara. Foce misteriosa e nauticamente inesistente come il porto da cui veniamo. Non un segnale, un palloncino, un conetto, niente. La barra di sabbia si sposta e sale. Dove sara' oggi? Scandagliare. Tre metri, due. Forse di qui si passa. Le catapecchie del villaggio marinaro ci sfilano a tre o quattro metri. Un metro e mezzo. Se di qui non si passa che si fa? L'onda frange incontrando la corrente, di mettermi al traverso per virare e tentare più al centro non ho proprio voglia.

Oltre la grande bocca insabbiata barche in doppia fila per chilometri: questo é il più gran marina d'Italia, forse il più gran marina del Mediterraneo. Ci saranno tremila barche mal contate, mal contate sopratutto dal Comune di Roma soffocato dai debiti e disperatamente teso a tappezzare tutte le strade di divieti di sosta per incrementare le casse esauste.

Si passa. Lo schiaffone del frangente ci dà un calcio in poppa e siamo dentro. Adesso l’eco segna di nuovo due metri e poi tre. E il Centro Petrini dov'è?

Il Tevere si divide in due bracci: destra o sinistra? Devo cercare di ricordare i giri della strada percorsa tante volte in macchina e maledirmi per la poca attenzione fatta durante quell'uscita con l'ingegnere della Multimare.

Sinistra sicuro, su quello di destra c'é un retone e passare é difficile.

Rimontiamo il Tevere mentre cala la sera. CBS, A già il simpatico Bulleri. Ma Petrini non era subito dopo? No, subito dopo c'e' una draga morta e arrugginita.

Ah già, la storia della draga me l'aveva raccontata il barbetta che dirigeva il cantiere da Petrini, prima era una draga che dragava la foce, dragava gratis per conto di un'impresa che aveva bisogno di sabbia, poi i proprietari delle casette abusive del cosiddetto borgo marinaro avevano protestato perché sembra facesse abbassare il livello del terreno. Qualche assessore deve avere una di quelle casette abusive perché veloce come una multa arrivò il divieto di dragare. Ora la foce sta tornando come ai bei tempi del paleolitico, con una gran barra di sabbia che quando il fiume va in piena fa rifluire l'acqua fin sotto ponte Milvio e restituisce a Fiumicino la sua sana palude. Il fatto che nel paleolitico non ci fosse ponte Milvio è di scarsa consolazione.

Dopo la draga morta ci appare la grossa gru di Petrini. Accostiamo alla comoda e ampia banchina vuota con tutto il fianco di dritta. Fine della prima estate navigata.

Per meglio farci capire che la vacanza è finita e che si torna in pieno alla lotta per il pane, il taxi chiamato per telefono dall'aeroporto di Fiumicino ci informa delle regole del servizio: il taxi si paga sia per l’andata che per il ritorno a vuoto, il taxi ci lascerà alla periferia di Roma dove potremo trasbordare su un altro taxi perché se non torna entro un certo tempo perde una corsa (che dovremmo pagare noi, quadruplicando il tassametro!).

Così da un taxi all'altro, benedicendo l’organizzazione dei servizi comunali che fa di noi cittadini della Capitale dei privilegiati, io e la Sgnuffi dalle dolci curve torniamo gloriosi alla nostra magione.

                                                                                       LA SECONDA STAGIONE

Come passa l'inverno un neoskipper? Chi lo sa, forse ce n'è di quelli che tirano la barca in secco e se ne dimenticano fino all'anno dopo, qualcuno se ne dimentica del tutto (incredibile ma in tutti i capannoni ci sono barche abbandonate e i canoni mensili di parcheggio stanno superando il valore delle barche!), qualcuno si da da fare per venderla e comprarsi una cottage sulla Sila, ma qualcuno rimugina sei giorni alla settimana su ciò che deve cambiare per migliorare la barca e poi il settimo va a misurare. Volendo metterci il bompresso basterebbe un puntale di cinquantacinque centimetri. Per un girofiocco lo strallo è di sette mm. Nel pozzetto ci andrebbe un tavolo di m. 1,60 per 0,60. La catena dell'ancora dovrebbe essere allungata e per far questo, occorre un'introvabile falsa maglia. Perché il motore che dovrebbe arrivare a 2.300 giri al minuto fa appena 1.900 quando ci si innesta l'elica? Forse il diametro o il passo sono eccessivi. Si potrebbe sentire Orvea o Radice. Quello che è certo e' che bisogna infilare qualcosa in quel buco che ha lasciato la ruotina a pale del log della Midas rimandato in Inghilterra. Per tirar su un riflettore radar bisogna montare due sagolette sulle crocette. Il fuoribordo da 6 Hp é troppo pesante, bisogna cambiare il vecchio Laros e prendere un motorino più maneggevole. Chissà se ci andrebbero le gruette? Anche un anemometro in testa d'albero sarebbe utile, per curiosità almeno. Così si dice: il vento, era forza sei, ed era forza sei. Se non ci sono bugiardi davanti all'anemometro.

Quello che e' sicuro sicuro é che ci vuole la radio. L'HF no, ridicolo, il CB non da' affidamento, il VHF é quello che ci vuole. Una sfogliata ad un corso di radiotecnica almeno per capire cos'è lo squelch. Meno, male il VHF non splattera. Però ha i suoi bravi quarzi e molti canali. C’é il canale 27 ma non c'entra niente coi 27 megahertz del CB. Comunque l'importante è il canale 16 dove c'é l'ascolto permanente. Quello per chiamare aiuto, insomma.  Compro tutte le riviste italiane e straniere per leggere avidamente le rubriche di fitting.

La corrispondenza con l'Inghilterra si fa sempre più fitta e cominciano ad arrivare i pacchi.  Naturalmente non manco all'appuntamento col salone. Mia madre non capisce: prima ci andavi per vedere quale barca comprare e adesso che ce l’hai? Per scoprire cos'é meglio metterci sopra. Lapalissiano. Sopra sarebbe meglio metterci un marinaio. La madre non lo dice ma brilla in fondo ai suoi occhi. Ma è proprio quello che voglio fare: solo che quel marinaio vorrei essere io. E stendo le carte nautiche: dove si va quest'estate? Chiaro che non vorremo mica passarla girando intorno alle pur belle isole pontine! Si va in Grecia. Questa l'ha detta la Sgnuffi e gliela perdono. Si va in Sardegna! Questo l'ho detta io ma non solleva entusiasmi: ormai la Sardegna é troppo alla moda. Lo sciorinamento della carta relativa davanti agli occhi pieni di sufficienza della consorte per dimostrarle che la costa Smeralda é piccola cosa in confronto allo sviluppo costiero sardo sorte lo stesso effetto di quando cerco di convincere Amarilli che il teorema di Euclide nasconde, segrete bellezze. Decido: si va alle Eolie.

Intanto bisogna comprare anche il portolano 1 B, poi il libro dei Fari e quello dei Radioservizi (dall'Inghilterra mi arrivato un Hitachi radio e radiogoniometro per 19 sterline!!). Da Toccolini a Genova ho acquistato un Novel Standard VHF che mi faccio montare tirando in secco la barca. Disalberiamo e arriva anche I'arnico toscano con bottaccio nuovo e scatoline di resina per rimarginare, le ferite della povera Sgnuffi. Ma il filo dell'antenna non c'è verso di farlo passare dentro l'albero. Il filo guida legato alla drizza di destra mi tira fuori in testa d'albero la drizza di sinistra! Il toscano mette l'occhio al buco.  Nero. L'albero é rivestito di polistirolo e la barra passante delle crocette occlude. Ma una cosa e' certa: mi hanno montato le drizze incrociate. Il toscano si mette una mano sul cuore: a loro gli alberi gli arrivano gia con le drizze dentro! Basta una mezza giornata per sistemare il guaio perché bisogna disrivettare l'incappellatura dell'albero. Al momento di rimettere i rivetti il toscano confessa di avere solo quelli da quattro e la i fori sono per quelli da sei, millimetri ovviamente.

Faccio il giro dei cantieri di Fiumara: fate la carità, quattro rivetti da sei e la rivettatrice. Niente da fare: chi ha il magazzino chiuso, chi ha il magazziniere con la rosolia, chi ha la rivettatrice pneumatica ma non ha i rivetti. Dopo un paio d'ore e dieci chilometri a piedi torno sconsolato: mettiamo i rivetti da quattro e viva la fratellanza nautica.

- Guardi qui, nella giunzione tra tuga e pozzetto,... C'é come una crepa...-

- Oh gli é naturale no? Là é scatolato... - e il toscano mette nocche su nocche e fa un movimento ondulatorio.

- Guardi qui. Qui non é scatolato. Questa é una signora crepa come se ci aveste fatto cadere qualcosa. C’é sempre stata. -

Il toscano guarda la crepina e ci pianta dentro la lama del coltello:

- Non é niente. E' solo il gel. Vede, dottore? Sotto la vetroresina é sana. -

- Però é brutto.

- Adesso la si aggiusta. - 

Ci sono anche delle bolle. Peppe mi ha detto che i cantieri che lavorano coi piedi non hanno capannoni chiusi de poter mantenere una temperatura costante e così per asciugare prima aggiungono del gesso... Il toscano ride:

- Macché gesso. So' fres'acce, dottore, fres'acce. Qualche bollicina gli è naturale, basta che il pennello dia un po' più di gel che quello poi al sole gonfia. Ma si aggiusta. –  poi però si accorge di non avere il gel grigio della coperta ma solo quello bianco per la carena: e gli è naturale!

Dalla Midas nessuna notizia e la Sgnuffi torna in acqua col suo tappo e senza log.

A Pasqua spendo tremila lire di telegrammi per Marple Bridge che è il buco dove deve esserci la Midas: buco perché alla posta insistono, che non esiste, c'é un Marple qualcos'altro e vogliono mandare il telegramma là. Ma insisto anch'io: il telegramma deve andare dove vanno, le lettere che indirizzo proprio all'inesistente Marple Bridge. D'altra parte qui non trovavano neanche Baratti, figuriamoci Marple Bridge! Vinco la battaglia e i I telegramma parte dopo che la telegrammista ha ampiamente declinato ogni responsabilità: la declinazione delle responsabilità é ormai l'unica declinazione in uso nel nostro latino paese. Arriva la telefonata di risposta da Marple Bridge dove ormai devono aver capito che se posso scribacchiare una lettera in inglese non posso proprio parlarlo al telefono e così ne approfittano per impapocchiarmi il cervello. Capisco solo che mi manderanno un nuovo log e un nuovo  speedometer, nuovi nel senso che saranno diversi dal vecchio, insomma modelli nuovi. Il che equivale a dire che i vecchi non andavano. Mi chiedono se voglio averlo in fretta. Dico sì. E casco nella cacca. Perché per "fretta" a Marple Bridge intendono spedizione aerea. E così la scatola tre giorni dopo é a Fiumicino. In dogana.

Vengo avvisato del fatto con un avviso. Prendo la macchina, attraverso la città e mi sciroppo la strada fino all'aeroporto. Ingenuamente vado in un salone tutto sportelli col mio avviso: adesso mi diranno quel che c'é da pagare e buonanotte. Invece la buonanotte me l'augurerà il guardiano al momento di chiudere i magazzini sei o sette ore dopo. Così scopro che bisogna riempire un fascio di moduli, ma che sono stati studiati appositamente complicati in modo che ci si debba rivolgere, agli spedizionieri per compilarli. Gli uffici degli spedizionieri si aprono come gabbie con dentro i piccoli avvoltoi in attesa. In attesa di me. Uno si stacca dal trespolo e atterra vicino a me pulendosi il becco sulle mie spalle: qual'e' il problema?

Sogghigna sui moduli: apparati elettronici? Ah, ah! Adesso che ride mi sembra una iena. Spiegare che si tratta di robetta mandata alla Casa per aggiustamenti é inutile, vorrebbero le bollette d'entrata e quelle di uscita in temporanea. Pagare non basta, bisogna supplicate che l'impiegato ti prenda in simpatia e faccia il suo lavoro. C'é una stanzata di gente che urla:

- Sono penne che mi mandano per i nipotini dal Canada! Non sono oro, sono placcate! -

- Per noi, oro sono! - e il poveraccio, vorrebbe placcare il burocrate al muro ma si morde le mani e paga dieci volte il valore delle penne. Il mio spedizioniere iena riempie i moduli con irrisoria facilita e poi strizza l'occhio al burocrate che alza le mani: ora di pranzo j'e'!

Dopo aver mangiato, mangiato e ben bevuto (lui!) non ci fa vedere il buco ma mette il timbro. Sì, proprio solo pamf e pamf. Un timbro. Prima di pranzo si vede che non poteva timbrare. Adesso posso, andare da un altro che sembra, più importante perché é chiuso in un cubicolo di vetro e urla contro due poveretti snocciolando una follia di articoli e di leggi citati sempre solo per numero e data che annichilisce. Quelli tentano di balbettare qualcosa e quello li caccia letteralmente fuori urlando che non può perdere tempo con chi non conosce le leggi.

Io ho fatto la mia brava Università ma non conosco le leggi. Conteggia sugli scartafacci e deduce che devo pagare 25.000 lire tra diritti e porto. Ma non posso pagare a lui, de- vo pagare allo spedizioniere che poi verserà allo sportello. Nel tragitto, la cifra diventa di lire quarantamila. Non é mica una iena, quelle si accontentano degli avanzi, questo invece morde grosso. Pago le 40.000 che sono quasi un secondo prezzo di tutta la baracca! Piombo a Fiumara e monto il tutto. Funziona! Ma il tubo che regge la ruotina a pale è di diametro un po' più piccolo del precedente e il buco non è più stagno. Il Tevere piscia in barca. evo mettere il tappo e tornare a Roma a cercare un "O" ring un po' più grande.

Se non sapete cosa sono gli "O-ring" andate maluccio: sono quegli anelli elastici neri che servono per rendere stagne le torce e un'infinita' di altre cose, compresi gli imbecilli che cambiano la misura dei log come se io potessi adesso cambiare la misura del buco. Trovo l' "O-ring", lo piazzo. Non funziona più.  No,no . Non funziona più, la povera Sgnuffi soffia i polmoni su quella maledetta ruotina stile Mississippi, gli aghi restano immobili. Ecco il momento in cui penso che forse era meglio andare alla Finder. Ricontrollo i collegamenti coi filetti colorati: sono giusti. I poli delle batterie: giusti. Prelevo dal mio corso pratico di elettronica il multitester e misuro la batteria. Giusta. La corrente arriva, ma il maledetto cosino inglese l'unica cosa che fa girare sono le palle. Quelle mie, naturalmente. E’ormai evidente che si profila una seconda stagione senza log e senza speedometer. Ho già visto che non é drammatico, ma fa rabbia.

La rabbia si scioglie al sole d'aprile. E’ora di mollare il fetido Tevere e il centro Petrini e far vela per l'azzurro mare del Circeo. Commendatore, il conto!  Bene, gente, son 327.000 lire del 1973!!! Ci hanno aggiunto perfino il mezzo mese che non passerò qui, il varo e I'alaggio che pur mi era stato promesso gratuito e perfino settemila lire di spesa per il montaggio del frigorifero che nella sua veloce corsa verso la Sgnuffi l'aveva finalmente raggiunta durante l'inverno. Così non chi mi vendette la barca senza frigo ha pagato a me una penale, ma io a loro. Perbacco, con l'aria di farmi un favore mi vogliono togliere le ventisettemila lire Non sia mai detto! Si paga fino, all'ultima lira per superiorità innata. Se fossi una donna chiederei al commendatore di toccarmi le tette come disse quella turista tedesca all'albergatore ladro:

- A me quando mi fregare piacere anche che tocchino tette! - Okay. Si parte e si fa una croce: là, mai più.

La Sgnuffi spancetta di nuovo in acque salse e lo fa con gioia, a vele spiegate, senza dar problemi. Inutile provare lo speedometer: dice che siamo immobili come montagne.

Il porto del Circeo é quasi deserto. Deserto di Peppe, comunque. Si attracca con bella manovra in perfetta solitudine. Le barche sono ancora poche, la stagione non é ancora iniziata. La barca di Von Palafitten dondola chiusa al suo stabile ormeggio orlata tutta di un bellissimo muschio verde. Il Bagatelle di Alfredo non c'é, ma so che lo porterà in piena estate.

Una fila di weekend sulla Sgnuffi in attesa delle grandi vacanze. Le carte nautiche si ammucchiano, nel controarmadio che mi sono costruito apposta. Sono carte del sud: dal Circeo fino alla Sicilia.

Ormai é deciso: si partirà dal Circeo per Ponza e poi di là il grande balzo: Ustica! Una settimana per godere l'isola e poi le Eolie: dieci giorni e poi via per Cetraro, Maratea, su fino a Capri e Ischia e poi Ventotene e Ponza. Un mese preventivato: tutto luglio.

Ma intanto un weekend ci riserva ancora qualche piccola sorpresa: partiamo dal Circeo verso le sei, a bordo ci siamo tutti più Floriana, inseparabile arnica di Amarilli. Si é fatto tardi e io ho una gran fifa di trovarmi di notte fra quei dentini neri tra Zannone e Ponza, così dò un bel motore nella speranza di farcela prima del buio assoluto.  Ma il sole si tuffa in mare e io sono ancora a cinque miglia dai dentini. Li fisso disperatamente cercando di continuare a distinguerli mentre la notte lentamente me li ingoia davanti. In barca ho un faro, ma è di quelli complicati da montare attraverso la tuga e non mi son mai deciso a forarla. Meno buchi e meglio é. Adesso che so non avrei fatto quello del log e anche l'ecoscandaglio l'avrei usato da dentro.

Ho una mia teoria per evitare gli scogli quando si sa che ci sono: cercare di andargli ben vicino, vederli ed evitarli. Così faccio e il dentone che spunta poco lontano da Gavi si alza davanti alla prua con una precisione che mi fa compiacere con me stesso. Un colpetto di ruota e lo si evita. La Sgnuffi mi dirà che l'ho sfiorato, dieci centimetri al massimo, ma la Sgnuffi ha il senso dello spettacolo: ci sarò passato a più di mezzo metro. Ormai so com'é quest'acqua e vado sciolto. Sciolto fino a quando la miriade di luci della rada di Ponza non comincia a confondermi le idee. Tre rossi, uno verde che lampeggia. Porca miseria: ci sono due canali più scuri, qual'é quello giusto? Devo passare davanti allo scoglio Ravia e non dietro. Ma mi sento girare la testa: gli sto davanti o dietro? Motore in folle. Ognuno dice la sua meno Floriana che, pallida, si sta domandando se la sua amicizia per Amarilli valga davvero tanto. Ma io non mi muovo di là finché non mi raccapezzo o finché non vedo qualcuno entrare in rada.

A uno che naviga può sembrare incredibile: la bocca della rada di Ponza è grande come quella di un gigante che sbadiglia, eppure rimango lì venti minuti buoni a imprecare contro di me, finché mi ricordo di avere a bordo il libro dei Fari. Comprato, pagato, ficcato da una parte e buonanotte. Che marinaio da nevose vette! Dal prezioso libro apprendo che sullo scoglio Ravia c'è un fanale verde che lampeggia. Adesso è tutto addirittura cretino ed entro in rada con un sospiro di sollievo.

Qua il porto è sempre pieno. Ormeggio in seconda fila davanti a piccole barche da pesca. Così il mattino dopo ci svegliano i brontolii dei pescatori che ci chiedono se è quello il modo di ormeggiare. Li guardo intontito dal sonno: che ci sia davvero un altro modo? Ma quelli a spintoni si son già fatti largo e se ne vanno a pieno motore. Torno a dormire ma ormai non riesco più a riprendere il filo. Aspetto il bollettino dei naviganti: tutto, bene. Metto il caffè sul gas e il suo profumo é l'unica cosa in grado di svegliare tutta la doppia, curva pericolosa che ho sposato: voi suonerete, le vostre trombe, noi ci berremo i nostri caffé.

E così non sono neppure le dieci che gia siamo davanti alle belle scogliere di Palmarola. In barca c'e' puzza di benzina. Questa é bella, ma se vado a gasolio? Eppure la puzza è troppo nota per essere confusa. Tutto l'equipaggio più Flo ammette, che si sente una fortissima puzza di benzina. Comincia l'annusata generale per stabilirne la provenienza, intanto, ho messo in folle per tranquillità e la Sgnuffi come sente il folle si mette a sculettare come una mignotta. Noi ormai ci siamo anche abituati ma la povera Flo comincia ad impallidire visibilmente mentre il volto assume le caratteristiche " panda" coi cerchioni neri intorno agli occhi. Ma ecco la causa della puzza di benzina! Il tappetto in plastica del serbatoino del 4 PH che ho condannato in pozzetto, con una cima si é allegramente crepato e la miscela sta infilando, con calma il foro autovuotante e va a mare. Meno male che il pozzettone è autovuotante! Ecco un caso certamente non previsto dal progettista in cui i buchetti realmente inutili per vuotare il pozzettone dalle eventuali ondate, che lo riempissero diventano spaventosamente utili per far sgocciolar via la maledetta benzina. Tappo rotto, motore dritto. Ma Punico posto, in cui può star dritto é sullo specchio di poppa del canotto che mi tiro a rimorchio. Un rimorchio cortissimo che porta a prua del canotto, a due dita dalla poppa della Sgnuffi ma che significa comunque trasbordo e tempo. Tempo di sofferenza per la povera Flo che non si lamenta ma fissa con nostalgia le immobili rupi che distano poche centinaia di metri. Nuovamente, ingoiando disperata il rigurgito, penso che ripensi se l'amicizia per Amarilli valga davvero tanto. Sistemato il motorino dal tappo debole, si ormeggia e porto a terra i pargoli. Come Flo riesce ad arrampicarsi sulle rocce il colorito le torna e ha subito fame. Una fame da Flo: una fila di panini viene divorata con perfetto ritmo. Entrano nella bocca di Flo come in una catena di smontaggio.

Pinne e maschera e straccio " Favilla". Il favilla é quella specie di spugna rinforzata con paglia di ferro. Mi immergo e dò un'occhiata alla carena. Muschietto ce n'é gia e nei quadroni bianchi lasciati dagli artisti toscani la dove la barca poggiava sull'invasatura ci sono gia denti di cane. Vero é che quest'anno non ho dato l'antivegetativa: dopo il salasso subito per il ricovero invernale chi ce li aveva più i soldi per farlo? E allora, polmoni, olio di gomito e favilla. Fare la carena in apnea è un ottimo esercizio per iniziare una stagione di pesca sub dopo un'invernata di macchina per scrivere. Comunque un paio d'ore dopo, mentre la testa mi gira, la carena é accettabile. Denti di cane neppure uno, muschio quasi scomparso, tranne proprio sotto il chiglione dove la vetroresina e' così grezza che il favilla si rompe e non scivola.

Ma devo farlo bene perché tra pochi giorni la Sgnuffi e il suo valoroso equipaggio partiranno per la grande grande traversata: Ponza-Ustica miglia 133. Previste quindici ore di navigazione di vera altura, ben fuori tra l'altro delle venti miglia per cui é per ora abilitata la barca. Ma l'ingegnere della Multimare dice che presto sarà omologata anche per altura e se lo dice lui si pué andare.

Mi monto una seconda bussola nel pozzetto, su un supporto inox che sembra, una. colonna per una ruota esterna e invece serve soltanto a reggere la bussola e un bel tavolo ro- tondo per mangiare fuori. Il tavolo é stato pittato dalla Sgnuffi bionda che é brava anche col pennello. Ai quattro punti cardinali ci ha dipinto, le facce, di quattro razze diverse: N esquimesi, E cinesi, S negri, W pellirosse. Bello. Il tavolo è formato da due mezzi cerchi che stanno stivati nell'armadio quando non servono. Il problema é tenere ben uniti quei due mezzi cerchi quando si vuole mangiarci su.

Entriamo in agitazione una settimana prima della partenza fissata per il 29 di giugno. La Sgnuffi é avvolta da liste per le provviste e io da liste di fabbisogno tecnico e di sicurezza. Con un gran dolore tiro fuori 360.000 lire per una zattera autogonfiabile Pirelli di quelle a valigia floscia. E’una di quelle cose che si devono comprare e sperare di aver buttato i soldi e di non doverla usare mai. Poi razzi rossi e pistola Very, giubbotti salvagente e cinture e carrettate di Simmenthalmente buona alla Standa. Una mezza quintalata di pasta, cento litri di. succo di frutta, una cassa di birre, tre casse d'acqua minerale che opportunamente segate entrano perfettamente sotto le cuccette del quadrato. Le casse segate, mica le bottiglie. E poi tonno, alici, verdure liofilizzate, tutta la lista dei medicinali del " Il medico a bordo" dal Valontan alle bende gessate per la riduzione delle fratture. Preparativi da transoceanica insomma. Ho l'impressione che per noi le centotrentatrè miglia di Tirreno siano più lunghe del giro del mondo in contropelo. La povera Sgnuffi si lascia caricare come un mulo (tutte e due, questa volta!) e comincia a scendere di un dito sotto la linea del galleggiamento. Pieno di nafta trecento litri più due taniche di scorta (alla faccia del purista!) e pieno di fatica per tutto l'equipaggio.

La notte del 28 l'equipaggio riposa per l'ultima volta in letti immobili su pavimenti ancorati alla roccia del Circello. Ma l'ansia della grande traversata rende quel "riposa " un modo di dire. All'alba tutti in piedi. Riassaporo quell'antico senso dimenticato, delle gite in montagna di quand'ero ragazzo. Quel senso di anticipazione che fa gonfiare il cuore dell'ansia di andare e della paura di non tornare. Allora era un mare immobile di aguzze rocce strapiornbanti a riempire il cuore, adesso l'immagine montagnosa delle onde fotografate da Adlard Coles e incluse in fondo al suo bellissimo libro. Siamo tutti un po' troppo, allegri per mascherare quel vuoto che a tratti riempie lo stomaco. La faccia perplessa di Peppe solleva qualche battuta spiritosa che solleva nuova perplessità.

Quello che é detto é detto. Ponza e poi Ustica. Peppe dice che non ha acqua per i serbatoi. Infatti il volenteroso rubinetto abusivo gocciola tiepido. Si aspetta, intanto bisogna finite di stivare mangime e vestiario. La Sgnuffi bionda tira fuori le sue liste e comincia a spuntare (l'ho istruita con letture durante le notti di inverno e lei ha preso molto sul serio il compito di cambusiera ma rifiuta il titolo che le suona troppo vicino a quello odiato di casalinga). E’ troppo tardi quando spunta fuori che non ha segnato in quali gavoni sta ficcando Ia roba spuntata e cos! ogni volta Ia preparazione del menù diventerà una specie di caccia al tesoro. Ma si sa, sbagliando si impara.

Amarilli e Costantino dopo aspro litigio han deciso quali saranno le loro cuccette e i loro gavoni in modo da poter Ia- sciare sempre le une e gli altri in uguale totale disordine. Con pacchi, borse e Simmenthalmente buona fino alle caviglie, nel caldo del mattino vien voglia di bere una birra. La cassetta è sotto A sacco blu dei maglioni. No, non c'é. La Sgnufli scruta con aria accusatrice Ia bussola da rilevamento che sta al posto della birra. Ah, a prua, in fondo al gavone, sotto i pelati. Nel gavone di pelati ci sono solo io, quando mi ci infilo con Ia testa, ma non quel gavone lì, l'altro. Sospiro attingendo alla pazienza: si dice gavone di prua a dritta o a sinistra. Il dito della Sgnuffi insofferente si punta sull'altro gavone e ribadisce: quello lì. Attingo ancora e mi infilo in "quello lì". I pelati ci sono. Moltissimi. Ne levo un paio di quintali e tocco il fondo. Del gavone naturalmente.

- Non c'é - ansimo colando sudore. La Sgnuffi mi guarda incredula, piena di stupore. Colto da un dubbio torno a rimirare il grigio fondo in vetroresina del gavone, poi mi alzo di scatto. Pamf! La zuccata a prua Ia prendo sempre quando mi alzo di scatto perché I'altezza d'uomo a prua c'é solo fino a un metro e ottantacinque. Prima ero gia uno e novantatré, adesso sto diventando uno e novantacinque per via della ficozza.. Attingo di nuovo al serbatoio della pazienza e riesco a modulare un normale, quasi dolce:

- Non c'é. - La Sgnuffi sbuffa e avanza mettendo un piede sulla pila dei pelati (quelli in scatola, chiaro!) e rotolandomi fra le braccia insieme a due DeRica. No, su DeRica non si può!

- Dici sempre che tutto deve essere al suo posto! Ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa! E adesso guarda che macello! - muove le penne nel mare delle scatole.

- La birra - la mia voce é ferma e cupa. Con aria di aperto rimprovero e poi di chiara condanna la Sgnuffi mi fissa negli occhi:

- Io l'ho messa lì -.

- No, tu Il non l'hai messa perché non c'é. - 

- Non c'é ma io l'ho messa lì. -   Alzarsi e andare al bar gente, se volete che un matrimonio duri.

- E adesso che hai messo per aria tutte,queste scatole, le lasci così?

Sono già nel pozzetto e mi volto per una battuta sferzante: peccato.Inciampo nella cassetta della birra e volo ad abbracciare la colonnina della bussola: 60° Est.

- Eccola la tua birra! - esclama la Sgnuffi additandomi al mio autodisprezzo. Vado, ugualmente al bar mentre il serbatoio della pazienza lampeggia in riserva.

A mezzogiorno l'acqua non é ancora arrivata al rubinetto di Peppe, partire senza acqua nei serbatoi proprio non si può e a Ponza l'acqua é razionata e non ci si può contare.

Gli interni della Sgnuffi (quella coi gavoni) cominciano a riprendere le linee note emergendo a poco a poco di pacchi di semolino, i tubetti dei dentifrici e il baraccano azzurro ricamato oro che secondo la mia estrosa metà é assolutamente indispensabile in crociera. Tanto vale pranzare. Un attimo di terrore passa nei grandi occhi della signora mentre il suo sguardo trascorre sui gavoni chiusi e pieni di mistero. Sorride solo quando intravede la dozzina di pacchi di pane in cassetta: pane e salame, un allegro spuntino. Si cucinerà a Ponza, stasera.  I giovani hanno bisogno di incoraggiamento e sentenzio che il pane è squisito e il salame insuperabile. Ho la vaga sensazione di essere autobiografico ma mastico in silenzio. Peppe dice che l'acqua non arriva. Lo dice sorridendo, quasi ammiccando: ci offre una valida ragione per rimandare la partenza. Ma io so che quando si deve partire e un po' morire non si può rimandare. Chi rimanda é perduto. Io sono partito da Biella sradicandomi dalla mia adolescenza a mezzanotte di un lontano ferragosto sull'onda dell'entusiasmo di una notte di danze. Io, Peppo Sacchi e un comune amico ci siamo, ficcati su una Balilla del '34 e abbiamo, dato, gas con le valige legate sul portapacchi e madri piangenti e sfazzolettanti sotto gli antichi androni. Tre chilometri dopo stavamo raccogliendo camicie e calzini nei prati di Candelo per via di una brusca frenata che aveva letteralmente scardinato il portabagagli. Alla ventilazione dell'idea di tornare indietro per ripartire l'indomani, risposi con le storiche frasi "Tiremm'inanz" o "Roma o morte!". Se fossi tornato, quella notte con una bracciata di camicie, gente, adesso sarei un cupo direttore della Banca Sella.

Ecco perché sono disposto a riempire i seicento litri del serbatoio di vino potabile piuttosto, che rimandare la partenza. Ma non c'e' bisogno di tanto, vedendo l'incrollabile, fermezza dello skipper e qualificandola per incoscienza (abbandonare quarantamila lire mensili di comodo ormeggio per il mobile sconfinato Tirreno non e' forse follia?) Peppe ammette che si può far acqua all'autoclave della CAM. Quelli la pompano dal loto serbatoione. Questo significa disormeggio e riormeggio cento metri più in là. Ma nulla mi può fermare ed eseguo con congrue sgassate. Finalmente la manichetta si infila nel ventre della Sgnuffi (quella col serbatoio, ovvio!) e piscia dentro seicento, bei litroni d'acqua tiepida, dolce e potabile. Sul quadrante, della storia scoccano le ore 15.40 quando tra urla di augurio e di saluto la Sgnuffi volge impettita la poppa alle banchine per affrontare l'ignoto. Forse anche sulle banchine di Palos qualche secolo fa echeggiò I'augurio marinaro: in culo, alla balenaaaa!

Ma la balena non ci sta perché comincia il ballo a un miglio dal porto. Infervorato nei preparativi, preso dai controlli pignoli che tutto fosse in ordine, deciso a partire col pieno di frascati, non ho più alzato occhio al cielo dalla mattina e alla mattina il cielo era sereno e il mare calmo. Cosa diavolo sarà successo mentre cercavamo la birra o ci storcevamo nei gavoni per riempire i buchetti in fondo con le cose che certamente saranno poi le prime a servire, non lo so, fatto sta che il cielo è nero e il mare arruffato. L'anemometro comincia a dire forza sei quasi dritto di prua e gli schizzi sollevati dall'impatto dei miei sette nodi a nafta lavano la barca come un battesimo di sale. Fortuna che non sono superstizioso, altrimenti dovrei dedurne che Nettuno non vuole.

Il tragitto fino a Ponza diventa un supplizio di quattro ore abbondanti. Decido di usare il mio VHF e chiedo il meteo a Roma Radio: colpi di vento con attenuazione dei fenomeni. La radio ha una grande importanza anche psicologica. Quella voce tranquilla che afferma col tono della certezza che si tratta di un colpetto di: vento che non dura, rende tutto più facile a bordo. Avendo, davanti l'intero Tirreno, a noi un colpetto di vento ci deve fare un baffo. Deve.

E arriviamo arruffati a Ponza nella. gloria di un tramonto che é riuscito a scavarsi un buco tra i nuvoloni. Ormeggio in seconda fila e poi "permesso permesso" passeggiando sulla coperta di uno sloop per arrivare in banchina.

- Uh povero Picchio povero Picchio povero Picchio! - il grido di dolore che si leva tra le barche allineate in banchina mi fa voltare di scatto. Dove c'è il pappagallo Picchio ci deve essere il Bagatelle.

E infatti c'è. Alfredo ha ospiti (come sempre) ma il tempo per una stretta di mano c'è. Come va? 'Programmi? Dico: andiamo a Ustica. Una lucetta divertita passa per un attimo negli occhi di Alfredo che certo ricorda le mie magre della stagione precedente, poi sorride e mi avverte: se vedi sabbia e cammelli vuol dire che sei fuori rotta. 

Picchio svolazza dentro la sua gabbia strillando: aiutoo! Aiuutoo! Forse sbaglia a calcolare un saltello perché manca il bastoncino del trespolo e finisce comicamente a mucchietto sul fondo della gabbia. Soffia indispettito e impreca: stronzo! Sarà un pappagallo, ma sembra proprio un cristiano. Il bollettino della notte avverte che il Basso Tirreno mosso. Se lui è mosso io resto fermo, poco ma sicuro. Sento su di me gli sguardi umidi e fiduciosi di tutto 1'equipaggio e voglio essere sor Prudenzio in persona. Domani faremo un giretto intorno a Ponza che ne vale sempre la pena. Una giornata di relax in attesa del gran salto, con una pescatina all'imboccatura di Chiaia di Luna dove riesco a vedere delle belle spigolone e a prendere niente.

Il cielo è  chiaro e il mare quasi calmo. Forse domani si parte. Stavolta l'ormeggio e' in terza andana e per andare in banchina devo adoperare il canotto. Senza remi e senza motore, ma tirandomi nella selva di cime tese sull'acqua a varie altezze. All'andata tutto va bene: io e la Sgnuffi ci destreggiamo a dovere, spingendo, il canotto sull'acqua scura e sollevando le cime per passarci sotto. Il piccolo incidente ci capita al momento di tornare a bordo con le provviste: presa ormai troppa confidenza col giochetto, dò un gran strattone ad una cima e il canotto parte veloce verso la bianca poppa della Sgnuffi in vetroresina, troppo veloce. Una bastarda cima tesa a quaranta centimetri dal pelo dell'acqua sega lo spazio appena sopra i tubolari. In quello spazio ci siamo io e la Sgnuffi a sangue caldo. Mi aggrappo disperatamente alla cima bastarda, colpisco senza volerlo la mia metà con un gran cazzotto e spingo ancora più avanti il canotto con i piedi. Il canotto giunge con bello slancio contro la poppa della barca madre mentre io e la Sgnuffi, completamente vestiti piombiamo con gran tonfo nelle scure luride acque del porto.

La Sgnuffi affonda tenendo eroicamente sollevato fuori dell'acqua il borsetto con dentro il denaro per tutta la crociera. Gran tonfo, gran pubblico. Sghignazzate lungo tutto il bellissimo anfiteatro vanvitelliano. Sghignazzate sopratutto da una barca piena di cafoni che disgraziatamente si é ormeggiata accanto alla mia. Dico, cafoni ma forse erano peggio: già al loro arrivo sottolineato da bestemmie e parolacce da far nascondere il capino sotto Pala al povero Picchio, arrivo in velocità con sgassate tremende e risacca da mezzo metro, li aveva additati a] disprezzo generale, poi il rito della discesa a terra, Una, due, tre, quattro donne vistosamente truccate stampano assurdi tacchetti sul tek dei disgraziati che servono da passerella. Poi cinque, sei sette... Qualcuno fa capolino dalle tughe e si scambiano sguardi divertiti: che sia una pensata per fregare la legge Merlin? Un casino galleggiante che funziona fuori dalle acque territoriali... Certo i tre uomini che scendono Paria dei pappa ce l'hanno proprio tutta. Mentre io e la Sgnuffi facciamo la doccia nel pozzetto per lavarci di dosso l'acqua del porto, quelli continuano a scendere, finché per un passo falso uno dei pappa piomba in acqua. Tonfo ancora maggiore, pubblico ancora più grande. Sghignazzate sopratutto da parte delle sue donne. Riemerge rosso come un papavero e infila una dopo l'altra una collana di bestemmie e volgarità da far rabbrividire la scorza del più rude marinaio. Io strizzo la mia canottiera con estrema dignità, sorriso sulle labbra, a sottolineare che si può cadere nelle stesse acque ma restate totalmente diversi.

Il bollettino della notte annuncia: alte pressioni livellate, calmi tutti i mari italiani. Previsione per le prossime dodici ore: nessuna variazione. E come se ci avesse detto: o domani o mai più. Ultimo controllo alle carte nautiche e spremitura di Car dea: Ustica é una piccola isola in mezzo ad un grande mare. Per avere più probabilità di centrarla meglio arrivarci di notte. A Punta dell'Omo Morto c'é un faro che tira più o meno 15 miglia. Sbagliare di 15 miglia su 133 mi sembra difficile. Allora considerando una velocità sui sette nodi vorrei arrivare  nel raggio del faro di notte ma in modo che poi venga giorno mentre vado a terra per entrare nel porto col sole. Faccio i conti alla rovescia: per vedere il faro tra le 03.00 e le 04.00 devo partire da Ponza alle 11.00. Sono più o meno diciannove ore, di navigazione totale, ma dopo sedici ore dovrei già vedere il faro di Ustica.

Puntuale come un cronometro alle undici di mattina mi lascio Ponza alle spalle. Prua per rotta vera 178*. Per prudenza la calcolo per 175' (e' da quella parte che c'é l'Italia!) poi controllo, la bussola di rotta con quella sistemata in pozzetto e che non dovrebbe avere deviazioni notevoli. Ci sono dieci gradi di differenza, così si governa per 165'.

Il mare é immobile. Una lieve brezza forza due soffia da ovest e drizzo la randa, senza spegnere il motore. E'  I'andatura preferita dalla Sgnuffi che fila via col borbottio del motore tracciando una bella riga dritta, una riga che spero congiungerò Ponza con Ustica. Presto Ponza annega nella foschia e siamo soli: mare dovunque deserto. Adesso non c'é più modo di controllare il punto nave. E pensare che l'ora seguente a quella del corso di navigazione di Cardea era di navigazione astronomica. Ma allora pensavo di navigare di secca in secca con lo sguardo fisso sul fondo del mare e non perduto tra le stelle. Ma ho il radiogoniometro. Tiro fuori l'Hitachi e giro la manopola su LW: fischia che é un piacere. Levando gas il fischio diminuisce. Eppure il motore diesel non dovrebbe interferire, nella Mercedes non lo fa. Forse é I'alternatore? Riesco a beccare un PAL dell'aeronautica ma c'é un altro segnale che interferisce più il fischio, quindi col fischio che posso cercare il nullo. Spengo l'Hitachi e mi attacco al VHF. Se Napoli Radio mi dice la sua portata massima posso farmi un'idea. Ma c'é un mucchio di gente che chiama Napoli sul canale 1é, forse a qualcuno Napoli risponde ma noi sentiamo solo chiamate. Al- la mia non risponde e chiamo e richiamo per un paio d'ore.

Non mi resta che segnare una crocetta ogni ora lungo la linea di rotta segnata sulla carta, tra una crocetta e I'altra una distanza di sette miglia. Mai punto più stimato del mio ha sporcato una carta nautica moderna: o fanno tutti così? Mi tornano in mente quelle navi pazzerelle di Cardea che andavano a zig zag per il Mediterraneo cambiando continuamente velocità senza motivo e che sapevano sempre perfettamente dove si trovavano e dove dovevamo poi trovarle anche noi con i nostri esercizi. "Mu" dove sei? Delta-qualcosa a che servi adesso?

Posso solo sperare nella bussola e far crocette come un bambino. Il Tirreno é immenso. Ore e ore di Tirreno calmo come un lago senza mai vedere altro che acqua e cielo. Non una nave, una barca, un sospetto di costa. D'altra parte la mia rotta tira giù dritto su Ustica mentre l'Italia si scansa sulla sinistra con l'ampio golfo calabrese. Dietro a Ustica, come una sponda di sicurezza l'ampia Sicilia. Cala lenta la notte. Una lunga agonia di luce che i nostri occhi strizzati cercano di prolungare ancora. Non c'e' luna, e' luna nuova. Il buio diventa denso. Il cielo si riempie di stelle. Bello da mozzare il fiato. Ma quella coperta nera che preme sul vetro della tuga mette apprensione. Spengo la luce interna, perfino quel- la della bussola rende l'esterno più penetrabile. Ma non c'è più niente da vedere: e' come un volo cieco. Davanti alla prua c'é di nuovo tutto il mistero degli antichi navigatori. Eppure in quel buio assoluto qualcosa sembra riprendere le sue dimensioni dentro l'animo: é la Terra, il Mondo come si diceva una volta, che riallarga i suoi confini. Quel piccolo ridicolo Tirreno visto con l'occhio di chi con un jet lo attraversa nel tempo di fare colazione torna ad essere un signor mare. In questo buio grandi sono le ombre del passato: davanti alle prue c'era dipinto un occhio, vorrei averlo anch'io sulla prua della Sgnuffi. Davanti alle loro prue non c'erano portolani nè libri dei fari. C'era solo una vaga idea di costa che nascondeva pericoli ancora peggiori di quelli del mare.Allora gli Uomini erano pochi, il mare grande e pulito. Poi abbiamo cominciato a pisciarci dentro in troppi.

Lascio la ruota al mio molleggiato secondo ed esco a prua ben aggrappato allo strallo, lascio che il vento tutto apparente, mi gonfi la camicia. Qualche fosforescenza accende la notte ma il gran piatto sotto la pancia stellata é assolutamente nero. Navighiamo ormai da quattordici ore e non si é mai visto anima viva. Sgomenta e solleva insieme: c'é ancora spazio, gente, c'è ancora spazio se si può sentirsi così isolati. Chiamo col VHF a destra e a sinistra ma non risponde nessuno. Forse sono fuori portata per tutti. Simpatica questa radio se uno si trovasse con le palle a mollo all'improvviso! Eppure basterebbe impiantare le antenne trasmittenti sui cocuzzoli più alti dei monti e il Tirreno lo si dovrebbe coprire tutto.

Alle ore 02.00 la Sgnuffi bipoppica avvista una luce a dritta. Non può essere Ustica per varie ragioni: primo e' troppo presto per averla già così a dritta, secondo e' una luce fissa. Fuori il binocolo: e' una nave! Laggiù, come in fondo ad tin imbuto nero, c'é una nave. Ma ecco, a prua spaccata, una luce che lampeggia fioca nel buio! No, per averla proprio di prua bisogna accostare per 155°. Un gioioso senso di compiacimento riempie i miei capillari, mollo la ruota e vado in cuccetta. Dico al biondo secondo di puntare dritto sul faro. Nei giro di tre ore ci saremo sotto e si sarà fatto giorno.

Prima di chiudere gli occhi per un giusto riposo guardo un poco quella fievole luce lontana che lampeggia monotona e uguale. Monotona e uguale? Ma non deve essere monotona e uguale! Eccolo: sul libro dei Fari dice che dopo tre lampetti da 0,2 secondi c'é un eclisse di 8,8 secondi! Tutto il Tirreno buio e laggiù qualcosa lampeggia più o meno ogni cinque secondi, sempre uguale. Bah!Avranno cambiato la frequenza di quel benedetto faro. Che altro può lampeggiare la in mezzo se Ustica é un'isola isolata? Tanto vale schiacciare il meritato pisolo, poi si vedrà. Purtroppo invece si vede quasi subito, anzi si sente.

L'urlo di raccapriccio del secondo, mi fa balzare a sedere battendo la regolamentare capocciata. Una piovra? Un mostro, marino? Il secondo si aggrappa alla leva del gas e la tira in folle. La Sgnuffi placida si ferma cullata da una lievissima onda lunga appena percettibile:

- Andiamo sugli scogli! - pallido il secondo farfuglia indicando una folle lampadina accesa in quell'eternità buia. Una lampadina che si accende e si spegne quieta, immobile, disegnando sull'acqua ferma una scia luminosa. Mi sento rimescolare tutto Cardea: quella lampada sembra proprio fissa su qualcosa che non si vede, forse davvero una scogliera. Accendo l'ecoscandaglio: non segna. 0 abbiamo più di cento metri di acqua sotto o ne abbiamo due centimetri.

Non oso più muovermi. Eppure non possiamo essere già a Ustica, dovremmo aver fatto nove nodi e so che non è possibile. C'é o non c'é la famosa legge della proporzione con la lunghezza al galleggiamento? E allora grazie se ne facciamo sette di nodi! Eppure là davanti il mistero continua ad accendersi e a spegnersi ogni cinque secondi. Mi guardo intorno smarrito. Amarilli con gli occhi gonfi di sonno mi fissa inebetita. Il secondo e' sull'orlo, del collasso per lo shock provato nel vedersi apparire davanti, in piena velocità, quella folle lampadina. Costantino invece se la ronfa a prua, l'ho messo a letto con la promessa che al suo risveglio avrebbe visto l'isola.

Girando intorno lo sguardo smarrito vedo qualcosa sulla dritta: la sagoma buia di una nave. Porca miseria! Una nave, un grosso peschereccio, quello che é, ma immobile, alla fon- da! Non pué essere Ustica e non può essere alla fonda in mezzo al Tirreno a cento metri da un lampadina! Che sia il figlio del capitano Nemo? In risposta ai miei muti angosciosi dubbi, qualcosa lampeggia da quella tolda scura. Una torcia elettrica puntata verso di me si accende e si spegne: ecco, se mi fanno il Morse siamo proprio sistemati! Ho imparato la faccenda dell'Amici Magnaghi ma il Morse no .

Guardo col binocolo: quella nave sta tra il peschereccio, di cui ha la forma e le attrezzature nella parte poppiera, e la nave vera e propria di cui ha le forme e le vetrature nella parte centrale. Non capisco i segnali, non mi resta che avvicinarmi piano piano per mettermi a portata di voce. Ruota a dritta e un po' di gas. I segnali si fanno più frenetici. Insisto, ma adesso quelli si limitano ad agitare disperatamente la lampada. Ci deve essere qualcosa che non li soddisfa nella mia manovra di avvicinamento. Di nuovo in folle e salto fuori. L'aria é immota. Forse ce la faccio se urlo ben bene.

- Per Usticaaaaaa! Da che parteeeeee???? - Mai avrei creduto di fare una simile domanda così autostradale. E quelli mi rispondono agitando la torcia:

- A levante della barca!!!! Si tenga a levante della barca!!!-  Adesso anche la nave sconosciuta si sta muovendo e mi pare che la diabolica lampadina ondeggi lievemente. Dopotutto forse non é sugli scogli.

- A levante della barca!!! Comincio a capire: pescano. Là intorno ci deve essere una gigantesca rete e la lampada ne segnala la fine o l'inizio o qualche parte. A levante della barca. Che vuol dire adesso? Quelli preoccupati della rete mi han detto di stare a levante, oppure vogliono dire che Ustica é a levante? Nel primo caso devo solo allargarmi e riprendere la rotta, nel secondo piegare decisamente per rotta 90°. Decido di fidarmi di me stesso. Mi allargo un poco, e mi rimetto in rotta: 165°.

E’ bello avere fiducia in se stessi, é il principio di ogni successo. Ma anche di tutte le catastrofi. E la fiducia cala ver- so le quattro per finire sotto la chiglia alle luci dell'alba che mostrano un immenso Tirreno bigio privo, crudelmente privo di isole. Sfuggo lo sguardo angosciato del secondo prostrato in cuccetta e fischietto un motivo stonato con aria indifferente. Ma il mio cervello é in subbuglio: é evidente che ho mancato Ustica. L'isola fantasma é nascosta da qualche parte nella mia scia: adesso l'orologio di bordo segna le 07.00 e il secondo sta male. Lo stress, la nottata quasi tutta senza dormire, una specie di blocco allo stomaco fanno soffrite la supersexy che regredisce rapidamente verso una fase infantile in cui si ha bisogno più del papà che del marito. Odino, dove sei? Costantino sbuca fresco, riposato e pimpante dalla sua dormita a prua e gira sul mare uno sguardo acuto, critico e intenditore. Il giro termina su di me:

- Te l'avevo detto papà che avremmo sbagliato l'isola. - Il bello é che l'aveva detto davvero. Mi trovo un sorriso sulle labbra. Il sorriso si spegne al lampeggiare della riserva del carburante. Un'altra cosa che non quadra! lo avevo gasolio per quasi due volte il viaggio! Meglio dare un'occhiata al motore. Forse era meglio non darla: c'é una bidonata di nafta in sentina. Un porco tubino di nylon schizza carburante ad ogni colpo di pistone. Che fare? Cinque o sei belle passate di nastro adesivo che non é adesivo per niente su. quella superficie unta. Poi richiudo. Guardo la randa che sbatte al vento di prua. Se ci fermiamo penzolerà come uno straccio. Non c'é assolutamente vento. Bene per un verso, male se finisce il gasolio.

Riacchiappo il mio Hitachi e tento disperatamente la triangolazione coi radiofari della Marina: ma perché, miseriaccia infame, lo accendono solo per qualche minuto ogni quattr'ore? Forse acchiappo Palermo, forse no . Non ce la faccio in tempo comunque. Oleoso e gigantesco il Tirreno, mi sembra il mare dell'eternità. Forse ci navigherò per sempre come l'olandese volante.

La luce frenetica della riserva si blocca sul rosso fisso. Meglio ficcare in pancia quelle due taniche di scorta. Mi bacerei in fronte per quelle taniche che sembravano così eccessive avendo un serbatoione da trecento litri! Torna la Sgnuffi alla ruota, torcendosi per il mal di stomaco. Io verso i settanta litri di scorta nel serbatoio: male che vada una quarantina di miglia dovrei farle anche considerando la perdita. E adesso al lavoro con la carta nautica.

Che può essere successo? Sono certamente andato fuori rotta, signor de La Palisse! Di quanto?  Acchiappo la bussola da rilevamento e controllo le mie due bussole: questa dice che la rotta tenuta é stata di un bel 190° abbondante! E adesso che si fa? Si crede o no alla terza bussola?  Le due di bordo, dicono 175° e 165°, quella da rilevamento sentenzia 190°! Okay, così imparo a partire senza fare i giri bussola! Va bene, ma adesso che posso fare?

Riprendo la carta e tiro la nuova rotta: se ho camminato per 190° da Ponza a sette nodi per tante ore, adesso so- no in un punto molto al largo di Ustica sulla perpendicolare di Trapani. E se invece l'errore fosse una via di mezzo? Proviamo a tirare la rotta per 180°: ecco, allora sarei meno al largo nel Tirreno ma non é che la cosa cambi molto. Se invece Ustica l'avessi mancata passando, troppo a levante? lpotesi che sembra impossibile, ma ormai tutto può essere possibile e tanto vale tracciare anche una bella rotta 155°: ecco, in tal caso sarei più o meno sulla perpendicolare di Palermo. Adesso la soluzione al mio problema é semplice: trovare un'accostata tale che in qualunque punto io mi trovi fra quelli supposti mi porti nel più breve tempo possibile a toccare terra.

L'accostata é per 140°: accostando di meno, se fossi al punto estremo dell'ipotesi mancherei la Sicilia, accostando di più se fossi al punto opposto mi infilerei nell'ampio golfo calabro allungando di molto il cammino. Ma per 140'°dovrei arrivare in vista della Sicilia e delle sue alte montagne verso le undici al massimo. Comunico all'equipaggio la lieta novella, ma é difficile riacchiappare il morale nei talloni del mio dolce secondo rannicchiato in cuccetta. Meglio prepararle un brodo di pollo Campbell: nei momenti critici pensare allo stomaco é pensare all'anima.

Amarilli alla ruota e io alla cucina. Dieci minuti dopo un fragrante profumino di pollo riempie la cabina. La Sgnuffi ne ingoia quattro o cinque cucchiaiate, sembra andare un po' meglio. Esco a vado a prua fischiettando. Ma giro lo sguardo intorno, nel vasto e solenne orizzonte deserto, reso più vicino dalla foschia. Il sole splende forte in un cielo lattiginoso. Ù mare é innaturale, privo completamente di onde. Il diesel ronfa ma io so che perde sangue ad ogni colpo e mi sembra un. povero animale ferito che arranchi per tirarci fuori dai pasticci.

Ore 10.00: acqua e cielo. Ore Il.00: cielo, e acqua.

Stringo i pugni: ma non finisci mai porcone di un mare? E sono rimasto solo nel Mediterraneo? Forse una piega temporale mi ha rispedito ai primordi, forse la prima cosa che vedrò saranno piroghe scavate nei tronchi o fatte di giunco e sulle scogliere selvagge arderanno i fuochi degli accampamenti. 0 forse ho sbagliato di nuovo tutto e davvero vedrò sabbia. e cammelli... Cardea, dove sei?

Laggiù... sì, laggiù c'é qualcosa a tre punte, sulla sinistra! Una nave! Urlo la notizia e mi precipito alla ruota. Accosto sperando di tagliarle la rotta. Passano minuti di tensione: la nave ingrandisce: é un cargo diretto verso sud: forse a Palermo? 0 a Trapani? o addirittura a Tunisi? Dipende ovviamente da dove siamo. Suono la sirena: tre colpi brevi, tre lunghi, tre brevi. Un S.O.S. in piena regola. Niente. Il maestoso cargo conti- nua a fumare la sua rotta. Ci saranno sì e no trecento metri di distanza quando il cargo ci sopravanza.

- I razzi! Spara i razzi! - urla frenetico il secondo. Un attimo di esitazione: non c'é pericolo immediato. Mi sento ridicolo a sparare i razzi. Ma la sofferenza della mia bionda metà mi convince: per lei siamo 'in pericolo immediato! E quel che conta è quello che sembra e mai ciò che è. Ciò che è, penso, non lo sappiamo mai. Schizzo fuori con la Very, ci ficco dentro un razzo rosso e sparo.

Tuuuuut! Bel tiro. Una perfetta vistosa traiettoria rossa accende il cielo grigio unendo la Sgnuffi e il cargo. Niente. Provo con la radio. Niente. Pam! Secondo razzo. Quel bastardo di un cargo si allontana come se niente fosse e passando ci saluta con un colpo di sirena!

Pam! Pam! Altri due razzi rossi. Ho la netta impressione che quel figlio di puttana che comanda l'ignobile nave abbia fatto aumentare la velocità e ci lascia dietro a ballonzolare disperatamente nelle onde di scia.

Mi gonfio di rabbia: potremmo avere a bordo un moribondo per quel che ne sanno quei vermi! Non riesco a leggere il nome della nave, altrimenti potrei almeno denunciarla.

Metto la prua nella scia e la bussola mi dice 210°. Che si fa? Si segue la scia? A risolvere il problema spunta all'orizzonte la sagoma di una nuova nave diretta in senso opposto. Non può scappare facilmente: mi ci pianterò proprio davanti! Sirena, razzi e megafono e radio. Ci punto addosso. Hanno una bandiera americana dipinta su un fumaiolo. Passo la ruota alla Sgnuffi e salto a prua con la pistola Very, deciso a piantarle un razzo nella pancia pur di fermarla. Aspetto di essere a cento metri: porca miseria com'è grande e come fila! Fuoco! Il razzo sembra caderle proprio sull'alto naso. Urlo alla Sgnuffi

- Valle addosso! - e ricarico la Very. Mi sento un pigmeo contro un gigante ma sparo di nuovo dritto sul ponte che ci sovrasta. Stavolta forse ho infilato l'alloggio del comandante ed evitiamo la collisione per una ventina di metri. La grande nave americana passa oltre, quasi rovesciandoci per l'onda di scia. Imprecando, riprendo la ruota e la Sgnuffi raccoglie energie e megafono e si accoccola a prua cominciando a lanciare inutili appelli alla grande nave che se ne va .

La riserva riprende follemente a lampeggiare: la perdita di gasolio deve essere maggiore del calcolato. Acqua e cibo ce n'è, il pericolo, non é immediato e anche a sbagliare la Sicilia il Mediterraneo è un mare chiuso: a terra si arriva per forza. Bisognerà però aspettare il vento. Ma per la Sgnuffi é come se fossimo su una zattera in mezzo al Pacifico. Sento la sua paura come una cosa concreta. L'unico tranquillo è Costantino che osserva la grande nave che si allontana e commenta:

- Io dico che non si ferma. -

Mi volto a guardare: un momento, non c'é più schiuma dietro alla grande nave! E ora si è messa al traverso! Si é fermata! Viro e le punto addosso una seconda volta. La nave ferma: il suo nome adesso, e' ben leggibile: TEESFIELD.

Decine di marinai buttano lungo la grande fiancata di acciaio una quantità di scale e di reti per il soccorso naufraghi: forse pensano che saliremo a bordo. Ma io voglio solo sapere dove cavolo siamo. Forse si arrabbieranno quando, sapranno, che li ho fermati per così' poco... Ma intanto come faccio a farglielo sapere? Avvicinandomi al gigante in acciaio scopro che dopotutto un po' d'onda. c'é e che se mi affianco romperò le crocette, provo con la radio. Sento il fruscio dell'onda por- tante:

- Pronto! Pronto! Sono il barchino che vi sta girando intorno. Mi sentite? -

Niente. La grande sagoma della nave mi é parzialmente nascosta dalla Sgnuffi accovacciata che.urla nel megafono qualcosa che non riesco a capire. Non so come fare. L'onda mi sposta lentamente e tutta la gigantesca bandiera a strisce e stelle pittata sul fumaiolone ripassa nel mio campo visivo. Un'illuminazione: vuoi vedere che quella gente parla inglese? Mi faccio, coraggio e:

- Can you hear me? –

- Oh yes, Sir. - Forte e chiaro.

E’ da quel dì che vado dicendo che l’inglese è essenziale alla nautica. Dovrebbero inserire le domande di aiuto nei programmi di esame, visto che si fermano solo le navi di lingua inglese.

- My instruments are wrong. Where are we? -  Continuo a chiedere dove siamo per tutto il Tirreno e in tutte le lingue, se lo sa il comandante Cardea, incanutisce.

- Just a moment, please. - Cambia la voce e la radio dice:

- Latitude thirty eight... - Io ripeto per sicurezza e la mia pronuncia deve sollevare dubbi nell'ufficiale di rotta statunitense perché chiarisce:

- Ten, twenty, thirty... one, two, three, four, five, seven, eight: thirty eight, do you understand? – Capisco, capisco. Segno affannosamente sulla carta: Lat. 38°17' e Long. 12°44'.

Faccio scorrere le squadrette e trovo un punto vicinissimo alla Sicilia, proprio sopra la punta ovestdell’isola. Eppure non c'è terra in vista. Mi faccio ripetere il tutto. Con pazienza da abbraccio l'ufficiale americano sconosciuto mi conferma e aggiunge:

- ...Six miles to "chepousanvitoeu"...

E’ il mio massimo sforzo linguistico: questo "chepousanvitoeu" riesco a localizzarlo in Capo S. Vito. Six miles! Sei miglia! Ma è incredibile. L'ufficiale americano con pazienza inesorabile conferma:

- Six miles from chepousanvitou. -!

- Thank you! Thank you! –

Mi metto in rotta per Capo S. Vito: rotta vera 150°. Adesso mi fido solo della bussola da rilevamento. La grande nave rimette in moto le eliche sollevando schiuma e drizza la prua verso nord.  Allarmata, la Sgnuffi la indica e urla:

- Gli Americani se ne vanno! - 

Annuisco. Ma l'allarme diventa terrore nei grandi occhi scuri del secondo che mi ripete temendo che non abbia capito il tremendo messaggio:

- Gli Americani vanno viaaaa! - 

- Guarda che gli Americani se ne sono, andati nel '45... - Non capta il mio sottile umorismo e insiste: 

- Andiamogli dietro! Andiamo con loro!-

Non resta. che tornare al caldo brodo ristoratore accompagnato da suadenti carezze. Sarebbe inutile spiegare al secondo che quelli vanno via a venti o venticinque nodi e riattraversano, il Tirreno mentre noi tra un'ora saremo a terra. Anche la fiducia ha un limite e la Sgnuffi ha oltrepassato quelli assegnatimi come skipper. Meglio ripararsi in quelli assai più vasti dell'amore, sorridere e dare ordini ad Amarilli e Costantino per prepararsi all'approdo.

- Ma se non si vede niente! - esclama. il superlogico Costantino.

- Non si vede ma c'é. Pronti coi parabordi. Un barlume di incerta fiducia torna negli occhioni cigliati del secondo che mi guarda calmando il ritmo del respiro. Ma quando il suo sguardo si volge a poppa e vede perdersi nella foschia la cara sagoma della Teesfield c'é in esso un senso così acuto di nostalgia e di doloroso distacco che se il capitano della nave lo vedesse sono certo che tornerebbe indietro.

Navighiamo ancora per venti minuti in quello che sembra uno Stige senza sponde, poi, come per un incantesimo appare nel rapido sollevarsi di un impalpabile sipario il massiccio di un monte. E col monte, la macchia chiara delle case e una linea ben segnata di costa. Dal nulla a sotto costa nel giro di pochi minuti.

Io sono certo che Colombo ben sapesse di non voler fare il giro della Terra e che lo disse solo per far colpo e avere il finanziamento per l'impresa, tuttavia una qualche commozione dovette certo riempire il suo tirato cuore genovese quando dalla coffa giunse il grido: Terra! Terra! Adesso anch'io sapevo che la davanti da un momento all'altro sarebbe sorta dall'acqua la Sicilia ma le grida di giubilo dell'equipaggio tutto mi fanno salire un groppo in gola. Mai come in questo momento so che il bello del navigare e' arrivare in porto. Un solo rimpianto: la bella Ustica é perduta per sempre, troppo piccolo scoglio per la troppo grande inesperienza di me marinaio. Manovro puntando, in costa e intanto leggo il Portolano. Poche righe su S. Vito: porticciolo in costruzione con massi affioranti in banchina e scarsi fondali. Sconsigliato, l’approdo.

Esito. Il porto più vicino è Castellamare del Golfo: poche miglia ma troppe per chi ha attraversato un oceano sconosciuto, Tuttavia sarebbe stupido finite piantati su un masso dopo tanto viaggio. Occhi e binocolo non risolvono: un segno di scogliera corre parallelo alla costa. Sarà il molo di sopraflutto? 0 quattro sassi messi in fila a protezione della spiaggia? Sono sempre più del parere che un pallone, una manica a vento, qualcosa che segnali l’ingresso dei porticcioli durante il giorno sarebbe veramente comodo. A piccola velocità e con un occhio, all'ecoscandaglio, che mi da' sei metri di fondale, continuo ad avvicinarmi.

Cinque metri. Quattro. E ancora non si riesce a capire dove sia A porto. Tre metri. Rallento ancora e sto quasi per rimettere prua al largo ma A lampeggio della riserva mi ammonisce di non farlo. C'e' un uomo su una barca a remi, forse pesca. Mi accosto al minimo e per la terza volta chiedo indicazioni di tipo autostradale:

- Dov'è il porto?-   L'uomo ha il volto scuro segnato di rughe e di sole. Tende una mano nodosa verso la scogliera. - Dove si entra? A destra o a sinistra della scogliera? –

Il pescatore risponde qualcosa portato via dal vento e poi si mette ai remi remando con forza verso terra. Credo proprio, che voglia guidarci. Così è infatti. Superata la diga di sassi ne appare una seconda su cui si intravede una gru al lavoro e finalmente seguendo il mio Caronte entro nell'ampio, bellissimo specchio del porto. Tre volte quello di Ponza, cinque volte quello del Circeo. Una banchina in costruzione lunga almeno trecento metri. Una trentina di pescherecci sui dodici quindici metri, nessuna, assolutamente nessuna barca da diporto all'infuori di alcuni motoscafini col fuoribordo.

Caronte ci chiede, una cima. Gliela butto e la porta a remi in banchina. Dai pescherecci qualcuno ci saluta sorridendo. Altri scambiano, frasi cantilenate con la nostra guida che intanto, ci sta tirando in banchina a forza di braccia. Caronte si interrompe, risponde e poi molla la cima e torna ai remi. Ci fa segno, di spostarci, ci grida che "è più megghiu di là" e ci tira di nuovo in banchina in un altro punto.

Un motoscafino ci volteggia intorno e un signore ci saluta con un cenno della mano poi attracca e va a dare una mano al pescatore. Butto l'ancora e vengo tirato con la poppa a sfiorare la pietra piatta della banchina. Salto a terra pieno di gratitudine. La prima mano che trovo da stringere quella del signore col motoscafo:

- Grazie. Grazie infinite. Mi chiamo Gastaldi. –

- E io Castaldi. –

Scoppiamo a ridere per la buffa coincidenza. Fatto e' che io ho comunque una gran voglia di ridere perché saltello su solida roccia e per un momento, un momento solo in quella lunga mattina, avevo perso la speranza di poterlo ancora fare.

Vorrei dare due biglietti da mille a Caronte ma quello gia si sta allontanando facendo forza sui remi. Lo chiamo e mi dice che non vuole niente, che quello, non è il suo mestiere perché fa il pescatore. L'ha fatto solo per favorirci. Metto via il denaro con un senso di vergogna. Purtroppo vengo da un posto dove i favori si pagano. Tutto l'equipaggio salta in banchina. Sgambetta felice. Siamo stanchi e abbiamo fame. Sono ormai le 12.30. Guardo la barca così spalancata e piena di cose: l’idea di dover mettere via tutto e chiudere mi sembra spaventosamente faticosa adesso.

- Potete lasciare tutto così - mi previene Castaldi -Qui non tocca niente nessuno. –

E per incoraggiarmi mi indica il suo motoscafo che ha lasciato, ormeggiato di prua, pieno di mute, pinne e fucili. Nell'aria c'è una nenia araba e il profumo di pesce arrosto. L'acqua del porto é limpidissima e ha favolosi riflessi smeraldini la dove lambisce la lunga spiaggia rosata di corallo. L'erta montagna sembra una gigantesca sentinella verde e ocra tesa nel blu perfetto del cielo. Vuoi vedere che valeva la pena di sbagliare la rotta?

Il gentilissimo signor Castaldi ci scorta nel deposito frigorifero del pesce poco oltre il piccolo ristorante che sorge alla radice del molo per scegliere il pesce che vogliamo mangiare. La scelta cade su un gigantesco dentice e mezz'ora dopo siamo da Marannina. Gloriosa insalata preparata dalla signora Marannina e favoloso dentice arrosto. Vino bianco secco locale buonissimo.

Ci guardiamo in faccia tutti e quattro. La Sgnuffi dondola su quelle acque di smeraldo, la schiuma dolce del mare bacia la linea rosa della spiaggia proprio davanti al terrazzo ombroso su cui stiamo mangiando. Qualcosa si scioglie dentro di noi: l’esame è finito. Nonostante tutto é finito bene. Adesso siamo proprio in crociera di piacere. Il primo proposito è quello di fermarsi "per un po' " e goderci l’angolo di paradiso su cui ci ha spinto il Fato.

La signora Marannina ci presenta un conto di diecimila lire. Non caro per Roma, ma mi sembra caro per l’angolo di paradiso. In ogni modo pago e il secondo proposito è quello di riprendere a cucinare in barca. Le scorte in denaro stanno calando perché adesso bisognerà fare aggiustare il tubicino del motore e rifare il pieno di nafta. L'angolo di paradiso non ha distributori al porto. Bisogna attraversare il paese e poi sciropparsi un chilometrone assolato lungo una bella strada asfaltata che serve da zona riposo ad alcuni buoi: ognuno davanti la propria casa, proprio come vecchie signore. La strada ha un nome ma qui tutti la chiamano la strada delle vacche. Tiriamo i piedi in qualche modo fino al distributore per sentirci dire che quello dell'Agip é chiuso e che quello dell’Esso il gasolio ce l’ha però dobbiamo andare a prendercelo con le taniche. Non ci resta che trascinare gli stanchi piedi all'ombra di un bar e succhiarci una favolosa granita di limone.

La Sgnuffi dai fianchi ben torniti non passa inosservata e ho paura che siano più le sue grazie che l’innato senso di ospitalità dei siciliani a renderci tutto così facile e piacevole: un appuntato dei carabinieri si dà da fare e ci trova un meccanico per il motore, un biondo Titta offre auto e taniche per il fabbisogno gasolio. Faccio il pieno. Il meccanico viene, guarda il tubicino di nylon e lo sfila. Lo taglia oltre il punto in cui si è bucato e lo ricollega al motore. Al mio stupore sorride: quello è il tubo di riflusso del carburante non bruciato, lo fanno più lungo del necessario perché man mano che si fora lo si può semplicemente scorciare. E io che pensavo fosse un guasto grave! Sotto l’occhio vigile dell'appuntato il meccanico rifiuta ogni compenso. Riesco solo a fargli bere una birra.

Intorno a noi i pescatori cantano e rammendano reti. Uno viene ad offrirci una granceola che lui chiama rancio fellone ma poiché la granceola é ancora viva, la Sgnuffi dal cuore tenero impetra per la sua libertà. Tutti ci colmano di attenzioni. E’ ben certo che non e' ancora arrivato il turismo di massa. Decliniamo inviti a cena e apriamo la Simmenthalmente buona.

Più tardi passiamo davanti a Marannina per andare a prenderci un'altra di quelle squisite granite al limone e la simpatica donna ci chiama stupita: come mai non siamo andati a mangiare? Sorrido alla buona donna: se io potessi permettermi diecimila lire di pranzo a mezzogiorno e altre diecimila la sera probabilmente sarei uno dei tanti stupidi stesi sulla Costa Azzurra o similia. Stavolta lo stupore e' tutto tondo sul volto di Marannina che esclama:

- Ah, ma io ho visto, che siete arrivati con la barca e allora... Ma perché non me l’avete detto? Domani venite, venite che per il prezzo si aggiusta! – Viva il candore, Marannina! Il giorno dopo, pranzo luculliano dall'antipasto di mare alla frutta siciliana per seimila lire. Grazie Marannina!

S. Vito é un piccolo centro e si diventa subito amici della gente. Ci invitano di qua e di la', ci portano a visitare i bellissimi dintorni. Dall'alto del monte si gode un panorama da favola. La Sgnuffi comincia ad avanzare l’idea di comprare un pezzo di terra. Sento che é ora di riprendere il mare. Anzi enuncerei la SECONDA REGOLA: quando il secondo il contadino ammira, molla la cima e l’ancora ritira. Butto sul tappeto l’idea di partire ma sollevo un coro di protesta: é così bello, qui! Domani, dopodomani forse, un giorno o l’altro...

Tanto, vale infilare maschera e pinne e fare una pescata. Fondali bellissimi, un testone gigantesco di pesce spada a mezz'acqua su una secchetta a testimoniarmi irridente quello che contiene quel mare. Fondali stupendamente fioriti e pescetti. Sembra che ci sia una secca favolosa fuori la punta del capo. Ci provo a nuoto memore delle mie spinnate, della madonna. Ma c'é una corrente tremenda. Dopo un paio d'ore di lotta mi lascio portare a riva.

Sono sei giorni che siamo fermi in porto, Le amicizie sono più strette. La cucina di Marannina sempre più succulenta. I corteggiatori della Sgnuffi sempre più insistenti. Il secondo dopo Dio stabilisce d'autorità: domani si parte! Ascolto, con cuore di pietra le proteste dell'equipaggio: non mi lascio commuovere dalla promessa di un risotto speciale per l'indomani preparato, con sette qualità di frutti di mare offerto da Marannina, resto insensibile alla squisita cortesia dei pescatori che rientrano, all'alba a motori spend spingendo su giganteschi remi per non svegliarci, faccio orecchie da mercante all'offerta di vini liquorosi gustabili in un paesino vicino, resisto perfino alla prospettiva di una pescata per domenica prossima in compagnia di un esperto che deve arrivare da Palermo. Domani si parte!

Il mattino si presenta nuvoloso. Un po' di scirocco spira nel porto. L'equipaggio scruta il cattivo presagio meteo: bisogna certamente rimandare. Mollo le cime e tiro su l'ancora. C'é muso a bordo. Ho tirato, sulla carta una rotta che attraversa il golfo puntando su Terrasini, ma i péscatori sconsigliano: con lo scirocco meglio non provarci. Se proprio vogliamo partire meglio tenerci sotto costa e puntare, su Castellamare del Golfo. Accetto, il consiglio: sento che l'importante é partire per non fare la fine di Ulisse con Calypso. Alla rovescia naturalmente, perché Calypso me la porto via con me e gli "ulisse" li lascio a terra. Metto in moto. I pescatori si raccolgono sulla prua delle barche per l'ultimo saluto. Una voce ci raggiunge andando contro lo scirocco che sta rinforzando:

- Che Iddio vi protegga! -

 E’una benedizione, gente, ma gridata da un pescatore proprio mentre state uscendo da un porto col vento che rinforza ha uno strano suono. Ma il mare è appena increspato e Castellamare è a quindici miglia. Che può mai succederci?

Succede che dopo un'ora e mezza di navigazione tranquilla lo scirocco si mette a soffiare deciso. Giù la randa! Mare di prua ripido e improvviso. Eppure qui lo scirocco é vento di terra. Ma lui sembra non badarci e vien giù dalla costa come se avesse preso lo slancio su mille miglia di mare aperto. La Sgnuffi sbatte sull'onda con cupi rimbombi mentre gli schizzi si alzano verso le crocette. Nel cielo corrono, nuvoloni bassi velocissimi che spuntano da dietro la dentata sagoma della costa. Col. binocolo inquadro in fondo al golfo un abitato, rannicchiato in una piega di un monte. C'è una specie di castello sul mare: Castellamare del Golfo. Da qui sembra che sia partita Cosa Nostra alla conquista dell'America. Rabbuffato dalla polvere dello scirocco sembra un paesino senza pretese.

Entriamo, nel porto accolti da folate fortissime che ci portano nuvole di sabbia a bordo. Sotto il castello c'é un mo letto, uno più grande ripara uno specchio d'acqua alla dritta. Giganteschi pescherecci sono ormeggiati a grandi gavitelli. Ormeggiati alla ruota e ora hanno la prua rivolta contro il paese. Molo e terrapieno sono deserti. Manovro avanzando e sorpasso alcuni gavitelli cercandone uno libero. Ma il cattivo tempo deve aver bloccato agli ormeggi tutta la flotta. Scorgo un omino che cerca di camminare contro vento, tenendosi il cappello calcato in testa con una mano e comincio ad urlare cercando di avere consiglio. L'omino si ferma, mi guarda, poi mi fa grandi cenni che interpreto come l'indicazione di andare con la poppa in banchina in quel punto. Butto l'ancora e tento la marcia indietro ma così facendo offro il fianco allo scirocco, che vince la mia elica e mi traversa. Tento rabbiosamente di tornare in rotta ma di nuovo la vince il vento. Decido di aspettare l'attimo, tra una raffica e l'altra e poi parto: bruuuum! La Sgnuffi indietreggia, sparata ma a dieci metri dalla banchina la catena dell'ancora va in tensione e mi blocca. Urlo:

- La catena! Molla tutttooo! -  Ma il secondo, capelli schioccanti al vento come una bandiera, mi grida che la catena é tutta fuori. Cinquanta metri di catena, eppure mi sembra di non averne coperti più di trenta all'indietro. L'omino urla di dare catena. Intanto, la Sgnuffi si traversa di nuovo per una nuova incredibile raffica che mi riempie la bocca di terra. Sembra di essere nel Sahara.

Urlo all'omino di non avere altra catena e mi accingo a salpare l'ancora per ripetere la manovra. Marcia in avanti. La Sgnuffi si muove ma ecco che un gigantesco peschereccio sta ruotando e come un iceberg si sta lentamente avvicinando. Metto timone e fuggo come posso. D'un tratto la Sgnuffi si blocca. Sgasso tutto, l'elica schiumeggia a poppa ma la barca non si muove di un metro. Sembra inchiodata. Un incubo! Che cosa può trattenere la mia barca mentre la grossolana cupa massa del peschereccio la sta per urtare? Chiamo il secondo che si precipita spaccandosi l'alluce sul diabolico bordo d'ingresso e abbranca la ruota con un ululato che fa concorrenza alla voce del vento. Costantino a prua si arma coraggiosamente del mezzo marinaio e si mette in posizione di lancia in testa in attesa dello scontro col gigante. Mi grida:

 - Lo fermo io il pescheregio! -

Salto anch'io a prua: la catena è in trazione! Qualcosa ha bloccato la catena sul fondo! Non abbiamo più libertà di manovra! La Sgnuffi dall'alluce gonfio accelera rabbiosamente: ma è inutile, la salda catena da otto millimetri ci blocca quasi a perpendicolo sul fondo. Bisognerebbe filare per occhio: che poi vuol dire tagliare la corda, mollare l'ancora e scappare. Ma non c'é tempo anche perché gli intelligentoni del cantiere hanno bloccato la catena intrecciandola su se stessa a gomitolo e fermandola poi con del fil di ferro, e io ancora più intelligentone di loro non ho sciolto questo folle nodo che adesso mi costringe ad aspettare l'impatto col mostro. La grande prua di legno del peschereccio gia mi sovrasta. Pianto il mezzo marinaio della pancia del mostro e spingo con tutte le mie forze: assolutamente ridicolo combattere la forza del vento che preme sull'altra fiancata. Anche il povero Costantino gonfia i suoi muscoli e il suo sforzo non é dopotutto più ridicolo del mio. Lentamente il peschereccio, urta la povera Sgnuffi. Un impatto ingannevolmente dolce, senza peso ma con tutta la massa del mostro. Acqua scende nelle mie vene, un senso di rassegnazione: adesso si schianta tutto e domani si piglia il treno. La battagliola anticorodal tubolare della Sgnuffi è la prima a sostenere la schiacciata e si piega mollemente verso l'interno come se fosse fatta di vischiosa pasta da torrone, poi il bottaccio urta sul fianco del peschereccio. Data la svasatura del peschereccio il suo bottaccio é alto sulla mia testa. La mia povera barca frena l'urto, la catena si tende con un agghiacciante suono nella cubia. Poi tutto si ferma. Attimi atroci. la la Sgnuffi. Lentamente il peschereccio scapola la Sgnuffi.L'alta prua scorre sulla barca,sfiora i paterazzi senza toccarli e infine continua il suo giro spinta dal vento. Anche la Sgnuffi ruota sulla catena ma con diverso vettore, dovuto probabilmente alla diversa massa e al diverso braccio di rotazione che la catena le consente. Controllo la battagliola: i candelieri hanno una lieve inclinazione verso l'interno del passavanti ma i supporti sono .sempre perfettamente fissi: che collaudo! Questo sI che é stato un lavoro fatto bene. Adesso sono sicuro che quei candelieri reggeranno l'urto di qualsiasi tempesta.

La danza dei mostri continua. Adesso é il peschereccio di dritta che sembra volerci investire. Ruota pigro verso di noi, ci arriva con la poppa e quaranta centimetri dalla prua. E riprende la danza con quello di sinistra: ci sfascerà sadicamente un po' alla volta. Piombo sotto coperta e mi blocco con le mani tese verso lo sportello che dà accesso al gavone della catena: l'hanno avvitato! L'hanno avvitato! Amarilli urla qualcosa. Mi affaccio e vedo trascorrere quell'infame legnaccio da pesca a venti centimetri dalla battagliola. Stavolta il gioco del vento ci é stato benigno. L'omino assiste solitario,da terra alla nostra battaglia. Urla di tanto in tanto di recuperare I'ancora. Trovo il tempo per gridargli che I'ancora non viene più su, che siamo bloccati. Fa un gesto di disperazione e capto il senso di una frase dialettale: se la catena é finita sotto uno dei corpi morti ci vorrà un palombaro per liberarla!

Un palombaro? Muta, pinne e maschera e giù nell'acqua torbida ma non troppo, del porto. Altro che corpo morto! La catena dell'ancora é avvolta intorno ad una formazione rocciosa del fondo. Una strana formazione a forma di fungo. La catena ci gira sotto, incastrata nelle crepe per due volte. L'ancora giace libera e tranquilla ad una quindicina di metri. Il fondale e' di una diecina di metri. La sommozzata già impegnativa quando, si debbano, fare sforzi sul fondo. Mi faccio scoppiare i polmoni ma non ce la faccio a liberare la catena da quell'abbraccio. Mi devo dare per vinto. Per fortuna anche il vento comincia a dar segni di stanchezza e le nuvole di sabbia cominciano a depositarsi.

Si avvicina una barca con due uomini ai remi. Spiego con parole mozze dall'affanno la situazione: se mi danno una cima e dell'aiuto forse ce la faccio. Sono venuti apposta e hanno una bella cima. Ritorno sul fondo, con la cima e la lego al primo giro, della catena. Riemergo e dico di issare: i due tirano e io mi rituffo. L'abbraccio si sta allentando. Dura più di un'ora il mio su e giù prima di liberare la barca. Quando finalmente l'ancora é libera i due dalla barca mi consigliano di attaccarmi ad un gavitello, anche se & c'é un peschereccio ruoteremo insieme e senza danni.

Quattromila lire per I'aiuto e torno a bordo deciso a seguire il loro consiglio e magari imbragarmi fianco a fianco al peschereccio in modo da essere ben sicuro di ruotare insieme, ma il vento si é fatto brezzolina e forse basta agganciarsi al gavitello. Così sono quasi le 15.30 quando a bordo del pram atterriamo sulla spiaggetta del paese.

Come S. Vito si presenta accogliente, Castellamare ha l'aria chiusa, diffidente. Le prime case, scrostate dal mare, ricordano antichi depositi. Grandi porte di legno marcio sbarrate. Una saracinesca arrugginita chiusa. Forse è l'ora e il brutto tempo a dare alle cose quest'aria lugubre. Non c'e' nessuno sulla spiaggia che é attraversata da un rigagnolo maleodorante. Taniche in pugno inizio la salita al paese con il codazzo dell'equipaggio dopo aver vinto la paura di lasciare il pram incustodito. Dopo duecento metri, il primo bar. Bar, drogheria, spaccio tutto in una cosa; ma che ha acqua minerale, gelati per i pargoli e sopratutto il figlio della padrona ha un distributore di gasolio. Come sto imparando essere buona abitudine, il distributore non solo non è mai al porto ma è sempre nell'entroterra oltre l'abitato. Vocazione marinara degli italiani. La signora scorge il mio sguardo disperato e telefona al figlio: verrà lui con la vespa a prendere e a riportare le taniche piene. Grato, stanco, e stressato, mi abbiocco su una cassa e mi scolo una aranciata. 

Cena a bordo e notte più o meno insonne nel terrore del vento e della ripresa del ballo coi peschereccioni sempre in dolce movimento intorno a noi.

Di buon mattino, senza rimpianto da parte di nessuno, lasciamo, il porto, di Castellamare e facciamo rotta su Terrasini. Altre quindici miglia, ma stavolta senza patemi. C'é un venticello appena teso da est che increspa il mare. La buriana di ieri sembra lontanissima.

Anche l'arrivo a Terrasini pone il solito, problema di riconoscimento del porto, ma dato il bel tempo e l'arrivo parallelo alla costa la cosa non solleva problemi. Discorso diverso dentro al porto. Anche qui c'é un gran molo di sopra- flutto non ancora terminato che si tende nel mare per qualche centinaio di metri ma, quello di sottoflutto é rimasto, molto più indietro e così non chiude lo specchio acqueo che anzi é ben mosso per il levantino che lo infila in pieno. Come Castellarnare appariva deserta, Terrasini ci appare affollata: un carnaio. Il molo di sopraflutto ha un paio di strati di pescatori con la canna, la spiaggia in fondo, é assolutamente invisibile perché nascosta dai corpi dei bagnanti. Ciurme di bambini schiamazzano sulla riva.

-Tutto a dritta c'e' il porto vecchio ma una draga ferma campeggia proprio nel mezzo della piccola imboccatura. Dentro il porto, una ventina di pescherecci ormeggiati appiccicati gli uni agli altri. Un notevole odore di merda stagna sulle cose.

Avvio la Sgnuffi un centimetro alla volta verso l'imbocco, tra, draga e sopraflutto: saranno cinque metri d'acqua al massimo di larghezza e l'ecoscandaglio urla due metri sotto la chiglia, due metri che stanno tragicamente calando. Qualcuno dal molo si sbraccia. Metto in folle ed esco in coperta:

- Lì va in secca! Si attacchi la al corpo morto! Laggiù in rada! Quel corpo morto é mio e regge barche da trenta tonnellate!-

Guardo il gavitello che ballonzola sull'onda all'imbocco di quella che per ora é una specie di rada, all'altezza dell'estremità del sopraflutto. Sono molto incerto: la si balla, é evidente. Sarà dura passarci la notte. Ma quello insiste e penso che tutto sommato valga la pena di fare come dice. Poi scenderò a terra col pram e vedrò come sistemarmi per la notte. Marcia indietro per levarci dal budello e poi manovra a "U" verso il gavitello. La Sgnuffi polposa si sdraia sulla prua e aggancia con mano sapiente l'occhiello del gavitello ma poi devo correre io a tirare altrimenti la deriva le stacca le braccia. Cima per doppino nell'anello, cos! sarà più facile liberarci e poi a terra. Il canotto si arena di prua tra le gambe grassocce di un signore intento a sgranocchiarsi una pizzetta di cinquanta centimetri di diametro. Sotto ombrelloni, teloni stesi, ombrelli da pioggia tutta l'umanità si é data appuntamento per un banchetto al sacco, anzi alla carta oleata. Quelle belle cartacce unte dei tempi della mia giovinezza, qui imperano come raramente ho visto. Lasagne, fritture, pentole gigantesche di zuppe di pesce, fornelli da campo, vino, birra, canditi, donne intrippite e gloriosamente giunoniche, uomini sorridenti in atteggiamenti sultaneschi, nugoli di bambini schiamazzanti con palette, palloni, cerchietti. E su tutto, assolutamente puro, l'odore di merda. Due bambini di due o tre anni decidono immediatamente che lo scopo della loro breve vita è quello di riempire il canotto di buona sabbia sicula e ci si mettono con rabbioso impegno invano brutalmente contrastati da Costantino e da Amarilli, mentre la tornitella Sgnuffi gira uno sguardo smarrito alla ricerca di qualche centimetro di spazio per posare le sue par.ti migliori. Anch'io non mi raccapezzo: da dove arriva tutta quella gente? Non certo dalle poche case che sorgono alte, sul ciglio della scarpata del porto vecchio. La spiegazione ci viene data col gelato al bar della spiaggia: é domenica. E’ gente di Palermo. Ormai Mondello è troppo affollata e così vengono fino a Terrasini. Il cameriere lo dice serio e con un vago orgoglio paesano. Lascio, l'equipaggio a difendere il pram e tento, di fare il giro della spiaggia per arrivare al molo del porto, vecchio. La sabbia finisce in un melmoso acquitrino, anche questo in- vaso da, tende e ombrelli piantati sugli isolotti più asciutti. Qui adesso l'odore di merda é al culmine dell'essenza.

Analizzo I'acquitrino e ne cerco la causa. Uno sconosciuto terrasinese tira lo sciacquone del suo cesso in una qualche casa del paese ed ecco piombare per gravita lungo la scarpata il distillate, prodotto dei suoi lombi. Vedere per credere: fogna a caduta libera. Liquidi e liquami immelmiscono mille metri quadri di florida erba, perfettamente felice, come i fognanti sotto gli ombrelloni, e poi scolano lenti e solenni nel porto vecchio. Per un curioso gioco di correnti quello che entra nel porto vecchio sembra non poter più uscire. Sono certo che a scavarne il fondo si potrebbe trovare la merda di Polifemo. Anche qui I'acqua ha riflessi smeraldini, però senza trasparenza. Quel verde smeraldo denso delle cose organiche in disfacimento. Saltello nella palude come un ibis e raggiungo il moletto deciso ancora a cercare ormeggio. Non c'é posto. Qualche marinaio aspira con voluttà il profumo di casa e mangia pane e alici. Incontro il proprietario del gavitello che mi sorride:

 - Meglio non venire qui dentro. Ho visto, dei bambini a bordo. - Perfetto, da segnalare all'Istituto, Idrografico della Marina: Terrasini, porticciolo vietato ai minori.

- Grazie davvero - adesso capisco. Però li si balla tremendamente. 

Il mio interlocutore guarda la Sgnuffi che sballottola e scalpita come un cavallo da rodeo tenuto per la cavezza e si stringe nelle spalle:

- Vento di bel tempo gli é. Prima di notte spiana. -

Riattraverso la fumigante palude e trovo ll'equipaggio di- sperato, il pram pieno di sabbia e di croste di frittata. In coro unanime mi supplicano di ricondurli a bordo.

Obbedisco, e dopo pochi minuti li lascio, aggrappati ai tientibene nel folle ballo della Sgnuffi che alternativamente si traversa all'onda e poi le gira la prua, strattona e si traversa di nuovo. Il levante di bel tempo sembra ancora più fresco e qua e là si levano spumine candide sulle guglie liquide del mare. 

Decido di fare una sommozzata sul lato esterno del sopraflutto. Attraverso lo specchio d'acqua a mio rischio e pericolo sia per i motorini che per i miliardi di cocchi che devono pur esserci là a mollo anche se l'acqua é appena torbida. Ho in pugno,il mio nuovo fucile Drago comprato a Roma alla Casa del Pescatore e che ancora non ha sparato un colpo. Come mi affaccio, sulla frana esterna del sopraflutto sgrano gli occhi dentro la maschera: spigolone pascolano in gregge, saraghi aquiloneggiano dentro e fuori le caverne lasciate dai massi e dai sassi buttati alla rinfusa. Una sommozzata dentro un passaggio e pam! centro un gran sarago pizzuto di almeno due chili. L'asta lo passa da parte a parte, urta contro un sasso e si sfila di prepotenza rimbalzandomi indietro. Il sarago trapassato va a trapassare da qualche altra parte con un guizzo. Guardo l'arpone: da buttare, ottimo ormai come cavatappi. Per fortuna, ne ho portato un altro nella manica, della muta. Butto il vecchio e innesto il nuovo. C'é troppa potenza nel fucile e mi viene in mente, che il bravo Mario me l'ha caricato col compressore: deve aver sbagliato il conto delle atmosfere. Seconda sommozzata e pam! una spigolona da tre chili. All'ultimo momento ho cercato di colpirla in modo che l'arpone dietro al pesce non trovasse roccia e così non trova nemmeno il pesce e va a schiantarsi due metri più in la strappandomi quasi di mano il fucile. Fine del secondo arpone e della pescata a Terrasini. Decisamente le acque sicule non mi portano fortuna nella pesca.

La cena a bordo mi ricorda una vecchia comica di Chaplin: basta un piatto per due persone. Una forchettata io e poi la barca pensa a far scivolare il piatto davanti alla Sgnuffi che mi siede di fronte, una cucchiaiata a lei e il piatto torna indietro. Decido di calare un'ancora di poppa per costringere la barca a tenere la prua al mare. Carico la CQR sul canotto e poi una gran remata per buttarla appena sopravento. Adesso comincia ad andar meglio ma il vento di bel tempo soffierà uguale per tutta la notte così anche da Terrasini nessuno lamenta la precoce partenza. Penso con un brivido di orrore che se avessi dato ascolto al Portolano questi sarebbero stati i porti in cui avremmo dovuto riposarci dopo il nostro folle volo da Ponza.

Alle ore Il.00 siamo al traverso di Punta Raisi. Costeggiamo, il famigerato aeroporto chiuso da un'erta montagna. Alle Il.45 siamo al traverso- dell'Isola delle Femmine e alle 13.00, attraversata la baia di Mondello, attracco a Punta Celesi.

Punta Celesi é un club velico un po' snob e ha un moletto attrezzato con acqua in banchina e posso ormeggiare di poppa e mettere la passerella. Il colpo d'occhio sulla baia 'e gradevole, I'accoglienza non festosa ma gentile. Faccio amicizia con il marinaio di un grosso motoryacbt che é subito felice di parlar male del padrone delta barca e stavolta mi sembra con ragione poiché nei giorni seguenti Io vedo attendere invano qualcuno per tutto il giorno e tornare poi la sera al porto di Mondello sull'altro lato delta rada. Così la sua vita estiva: al mattino parte da Mondello e viene a Punta Ce lesi, aspetta fino alle 16.00 e poi, se non si vede nessuno dei proprietari, torna a Mondello. Mi racconta, che quando i proprietari decidono di andare in un posto di mare, non viaggiano sulla barca ma con I'aereo, o if treno o I'aliscafo e gli ordinano semplicemente di seguirli con la barca e poi attendere da qualche parte. Raramente salgono a bordo e se Io fanno é per prendere il sole. Tutto questo con sedici metri di barca e 2000 HP di diesel. Un supermaterassino, insomma.

Mondello è sempre affollato data la vicinanza con Palermo. Non c'e' più niente di interessante per degli esploratori come noi: solo gelati da mille lire a coppa, vigili, traffico, caos come a Roma.Le solite taniche vanno, a farsi riempire al più vicino distributore a un paio di chilometri dal club che d'altra parte è velico.

Amarilli e Costantino però si divertono, l'acqua è pulita e ci si tuffa dalla barca. Ci sono altri ragazzi, legano. Raccontiamo le nostre disavventure all'annoiato marinaio in eterna attesa dei padroni e lui ci propone di presentarci un ingegnere per fare finalmente i famosi giri bussola. E così che l'indomani facciamo conoscenza col simpatico Mimmo Carcò. Andiamo ad ancorarci davanti al porto di Mondello e cominciamo a trafficare con le due ancore e un corpo morto. Mimmo piazza la sua attrezzatura di rilevamento e l'equipaggio si disloca intorno alle due bussole per leggere le indicazioni al momento dello stop;

Va tutto bene per i punti cardinali perché non c'é vento e la manovra é facile. Gli errori bussola sono clamorosi e difficilmente azzerabili. La curva di deviazione saré sinuos'a. Ma per i quadrantali le cose si complicano perché si leva il vento. Le cime spelano le mani e Mimmo tira con noi nel tentativo di virare la prua contro il vento. Una sudata che dura fino a pomeriggio inoltrato. Poi si fa conoscenza più stretta davanti ad una bottiglia e a una trancia di pesce spada mentre Mimmo disegna la curva per le due bussole.

- Adesso - mi dice - vai tranquillo. Con le bussole che avevi é strano che non sia finito in Spagna. -

La serata é allegra, Mimmo ci porta a visitare Palermo e poi a mangiare a Mongerbino. Domani si parte e mi tocca nuovamente sentire il coro di proteste tipo S. Vito. E', soprattutto Amarilli  che insiste e si accendono furiose discussioni familiari sui meriti delle spiagge solitarie e su quelli delle spiagge alla moda.

Da Mondello a Cefalù sono trentacinque miglia. Voglio riprendere il vecchio programma che dopo Ustica  prevedeva le Eolie  e Cefalù mi sembra il punto più logico della costa per poi attraversare verso le Eolie.

Partiti alle 09.00 da Mondello, alle 14.45 siamo davanti all'imponente abitato di Cefalù. Sfoglio il Portolano: parla di due porti, uno vecchio e uno in costruzione. Io come al solito non vedo né l'uno né l'altro. Mi avvicino lentamente al paese costeggiando una lunga bella spiaggia punteggiata di bagnanti. Intravedo qualcosa che potrebbe essere un porto anche se, assomiglia maggiormente ad un imbarcadero. All'unico moletto lungo cinquanta metri sono ormeggiati due o tre barcarozzi.

E' un posticino,angusto angusto che mi sembra di scarso affidamento aperto quasi completamente a ponente. Decido di cercare il porto nuovo. Costeggio il dirupo procedendo verso est ma dopo un quarto d'ora non vedo altro che scogli e poi un mezzo sopraflutto in costruzione oltre il quale non mi pare di scorgere né alberi ne' picchi. Forse stavolta ha ragione il Portolano che consiglia il porto vecchio. Manovra ad "U " e torno a quello che continua a sembrarmi un imbarcadero. Per manovrarci dentro, devo buttare l'ancora a due metri da una secchetta di scogli e poi arrivo con la poppa, in banchina. Come la barca si ferma una dozzina di ragazzini scatenati saltano a bordo come cavallette. Non conoscendo gli usi locali cerco di  sopportare stoicamente. Un ragazzo dalla banchina mi consiglia di andare nel porto nuovo, qui c'e' traversia. Sospiro: il porto nuovo com'è? Il giovane mi assicura che é ampio, ben ridossato e quasi terminato. Le barche da diporto, van tutte là. Okay. Mollo le cime, accendo il motore, scarico i ragazzini e incarico la Sgnuffi di salpare l'ancora con l'estenuante manovra al verricello. L'abbronzato e godibile secondo si da da fare senza protestare e la barca, tirata dalla catena scivola verso gli scogli. Io domino la situazione con una mano sulla leva del gas pronto ad innestare l'elica. Quando la prua e' a un metro dalla secca, innesto, la marcia indietro e dò un po' di gas. Il motore sale allegramente di giri e la Sgnuffi continua ad avvicinare la candida prua ai neri scogli affioranti. Un attimo di panico. Sgasso ancora e il motore urla tutta la sua potenza ma 1'elica non risponde. Gli scogli neri adesso sono a due spanne. Schizzo fuori, insensibile all'urto inevitabile dell'alluce sul bordo maledetto, e strillo ai ragazzini di prendere la cima che sto affannosamente raccogliendo per darle la più lunga gittata possibile. I ragazzini capiscono al volo il mio dramma e si tuffano addirittura. Butto, la cima la acchiappano e tirano nuotando tutti insieme. La prua sfiora gli scogli e si ritira.

Lentamente la Sgnuffi viene nuovamente tirata con la poppa in banchina. Smonto il telecomando. Tutto, sembra a posto. Alzo i paglioli del pozzetto: la linea d'asse dell'elica si e' sfilata dall'invertitore riduttore e ne dista una bella spanna! Non ha potuto, sfilarsi del tutto sparendo in mare con I'elica e lasciandomi un bel buco, in pancia perché l'elica si e' incastrata nella pala del timone che si e' trovato, di fronte. Stavolta il guaio sembra proprio serio. Altro che tubicino, di riflusso! Per l'ennesima volta la brava Sgnuffi si é rotta dentro ad un porto! Si rompe, si rompe, ma non ci lascia in pericolo.

Mentre alcuni ragazzini si impossessano del pram e del; motorino per giocare (come dir loro di no dopo l'opera di salvataggio?), Carmelo va a chiamare un meccanico. Carmelo é un giovanotto che fissa affascinato la Sgnuffi (ma non la barca, che scoperta, il secondo!) dal momento, che siamo arrivati. Il meccanico arriva e si infila a testa in giù. La rialza pallido: può aggiustare la cosa ma non la che si balla. Bisognerà farci rimorchiare nel porto nuovo che é più ridossato. Poi sarà un lavoro di qualche ora. Questo sarà il secondo rimorchio per la Sgnuffi (quella in vetroresina, chiaro!) dopo quello offertole da Alfredo.

Carmelo ci dice di aspettare suo padre che deve tornare con la paranza e infatti di h a poco, reggendo il timone come un re lo scettro, un. uomo con bella linea di pancia guida. nel porto una paranza fresca di vernice.Il rimorchio é complicato dal fatto che la Sgnuffi non governa totalmente perché l'elica. incastrandosi nel timone lo ha bloccato.Ma la bravura del re della paranza é pari alla presenza e con un ultimo strappone ci manda a smorire dolcemente a pochi centimetri dalla banchina ampia e ben ridossata del grande porto in costruzione.Tutto sorriso sotto la coppola, gonfiando ancora di più la pancia, il re della paranza mi grida:

- Che ne dice della manovra, capetano? - Che ne devo dire? Un capolavoro.

- Sempre addisposizione, capetano!

Premio con diecimila lire padre e figlio, veramente preziosi in questa brutta circostanza e poi arriva il meccanico che comincia a smartellare sotto pagliolo. Alza la testa, sudato, e chiede:

- Chi gliel'ha fatto l’allineamento? -

Sospiro. Credo siano stati i miei amici artisti toscani. Smartella un'altra mezz'ora, poi vuole una punta da sette del trapano da usare come chiavetta di fissaggio. Ho i miei dubbi sulla riparazione così artigianale ma il meccanico cefaluese mi assicura che posso dormire sonni tranquilli. Adesso basta mettere l’olio nell'invertitore che si é vuotato. Sfoglio il libretto istruzioni datomi insieme al motore AIFO Fiat 804-M. Si deve mettere olio in tre o quattro posti ma di olio per l'invertitore non parla assolutamente. E io che mi sono attenuto scrupolosamente alle istruzioni del libretto!

Due mesi dopo dovrò convincere l’incredulo ing. Violani della filiale di Roma che sfoglierà davanti a me lo stesso libretto dovendo poi convenire che si tratta di una marchiana mancanza. Evidentemente fino ad oggi le decine di migliaia di motori AIFO vendute per barche sono finite tutte in mani espertissime, di gente che ben sapeva che bisogna cambiare l’olio al riduttore invertitore anche senza leggere i libretti! Sono il primo ignorante a cui l’AIFO vende un diesel. Pazienza, meglio, primo che ultimo. Versato un etto di olio idraulico speciale nel riduttore posso provare. Metto in moto e l’elica gira. Tutto sembra a posto. Ringrazio e pago la ventimila.

Le riserve di denaro liquido sono quasi arrivate al cuoio del portafogli, ma Cefalù è bella e bisogna sostare un poco. Scarpiniamo fino al paese lungo il paio di polverosi chilometri di tracciato stradale che ci separa dall'abitato, aggravati, con borse piene di bottiglie, vuote di acqua minerale e angustiati dal pensiero del ritorno quando le dette bottiglie saranno piene. Cefalù non é un paese ma una cittadina e c'é tanto di comizio nella piazza davanti alla cattedrale normanna: un pittoresco oratore accusa misteriosi personaggi di misteriosi maneggi: politica strettamente interna che coinvolge la giunta, il sindaco e l’eventualità, mi pare di capire, di una gestione commissariale. Il tono del discorso non mi sembra nuovo e a fianco del miniduce c'é una miniclaretta che poi declama giulivi versi propri: politica sempre più interna ma per me straniero, divertente.

Cefalù é bella ma noi siamo stanchi e carichi come muli con l'equipaggio che si lamenta per la soma riprendiamo la via del ritorno. E già buio e in barca troviamo un ospite. Avevamo lasciato una cassetta di pere in pozzetto e il nostro ospite se le sta sbafando in velocità rigirandosele una dopo l'altra con le deliziose zampine. L'urlo di Amarilli che ha attraversato per prima la passerella disturba il grassoccio ospite che squittendo sceglie una poco onorevole fuga dopo aver zigzagato pazzamente nel pozzetto. La Sgnuffi smentisce categoricamente che sia il topino di Civitavecchia dell'anno scorso cresciuto e ingrassato con le provviste di bordo. Questo é un signor topo con tanto di coppola. In fondo, é buon segno: topi a bordo, nessun pericolo di naufragio. Lo sanno tutti che i primi a scappare sono i topi e se viene nelle orecchie dei nostri soloni della nautica una famiglia di sorche tra le attrezzature obbligatorie di salvataggio per la navigazione oltre i tre, metri dalle spiagge non .ce la leva nessuno. Pigramente lasciamo scivolare sulla nostra pelle abbronza- ta due o tre giornate cefaluesi. Facciamo gite col. canotto scoprendo deliziose spiaggette. La pesca sub é per me la solita delusione. Pure qui quelli che sanno pescare, pescano. Pesci e buoi, paesi tuoi. Pescano anche i pazienti appassionati della canna. Pazienti perché Costantino non da tregua: sosta pensoso accanto ai più bravi con la sua cannetta in pugno e comincia dolcemente:

- Che cosa metti per pescare?

Il pescatore sorride alla faccetta paffuta e simpatica del mio prodiere: pasta fatta col pane e un po' di formaggio. L'ingenuo pescatore ributta l'amo in acqua e subito I'amo di Costantino lo segue a due centimetri di distanza. Il pescatore tira su un cefalotto e Costantino tira su l'amo lucido e pulito. Ci pensa un poco mentre il pescatore prepara una pallottolina di impasto e poi:

- La mia pasta si scioglie. - Il pescatore sorride ancora conquistato dalle fossette di quel bambino così serio che ributta l'amo proprio sopra il suo.

- Forse é troppo bagnata. - Il pescatore tira su un altro cefalotto e Costantino tira su l'amo lucido e pulito. Una ruga dritta segna precoce la fronte del mio prodierino pondera a lungo e poi sentenzia:

- Non é troppo bagnata. Guarda. - Il primo sospiro dilata il plesso solare del pescatore che deve toccare con un dito la pasta che si é preparata Costantino.

- Già. Non sembra troppo bagnata. Allora é poco lavorata. - Il pescatore ributta in acqua il suo amo e subito Costantino gli aggroviglia la lenza con la sua. Il secondo sospiro del pescatore é più profondo, ma i cefaluesi sono gentili di natura e gli sorride:

- Perché non butti un po' più in là? – Il pescatore tira su un cefalotto e Costantino l'amo lucido, e pulito. Un amaro sogghigno stira le labbra del mio mozzo formato pocket:

- E’ lì che ci sono i pesci. – Il pescatore guarda Costantino incerto, ma il piccolo assolutamente serio. Allora il pescatore sposta il sedere di un metro: I

- Va bene. Allora prendi tu il mio posto. -

Costantino si siede millimetricamente al posto già scaldato dal bravo pescatore e butta l’amo. Il pescatore tira su un bel cefalotto. Costantino tira su l’amo lucido e pulito e guarda con astio il pescatore:

- Si sono spostati. -

- Chi? –

- I pesci. Adesso sono lì. – E spietatamente il simpatico frugolo si sposta di nuovo addosso al pescatore. Vedo il terminale sensibilissimo della canna del pescatore scosso da un lieve tremito e so che non é la toccata di un pesce ma il primo segnale di aperto nervosismo. Ma il pescatore si comprime ancora e da un buffetto al simpatico pescatorino, proprio la dove verosimilmente vorrebbe colpirlo con uno sganassone:

- Ecco, guarda, prendi un po' della mia pasta. I pesci stanno dappertutto. - Costantino accetta di buon grado l'offerta della pasta ma contesta la risposta:

- Non dappertutto. Dove abito io prima c'erano e adesso non ci sono più. –

- Dove abiti? –

- A Roma. - Il pescatore tira su un cefalotto e Costantino tira su l'amo lucido e pulito.

- Il mare di Roma non ha più pesci? -

- Non il mare, io dico nel parco. C'é una vasca grande grande, prima c'erano i pesci e adesso no. - Il pescatore preferisce tacere mentre Costantino gli butta l’amo sopra il suo.

Nel giro di un'ora Costantino è rimasto padrone della banchina: nessuno gli ha resistito e lui continua a nutrire i cefali del porto buttando in acqua palline di pasta che dovrebbero celare l'infernale trappola dell'amo, che i cefali coscienziosetti lucidano e puliscono con cura prima che il piccolo grande pescatore si decida a tirarlo fuori dall'acqua.

E’ notte fonda e tutti dormiamo il sonno del giusto lasciandoci cullare dal sensuale ancheggiare della Sgnuffi, quando una voce soffiata dalla banchina penetra nelle nebbie del mio cervello di skipper che tiene sempre un lobo sveglio:

- Capetano... - sussurra la voce - Capetano! -

C’é solo uno che mi chiama "capetano" ma quando arrivo in pozzetto l'unico lobo sveglio é ancora sempre quello di prima e tutti gli altri continuano a dormire. E' buio, come il punto più scuro del medioevo. Il cielo é nero come il mare. Spalanco le palpebre, le richiudo: nessuna differenza. Nero dovunque. Ma la voce cortese proviene dalla banchina:

- Capetano, lo tempo é malo... si deve allontanare dalla banchina almeno di una decina di metri...-

Nel buio comincio a individuare la sagoma di una specie di grossa anfora panciuta. Non é un'anfora, é il re della paranza. Lentamente, stiracchiandosi e sbadigliando, mi si sveglia un altro lobo. Biascico qualcosa in risposta, qualcosa che deve provenire dai lobi addormentati perché non me la ricordo. Mi siedo sulla panca del pozzetto e comincio con le dita intorpidite ad allentare le cime alle gallocce con la vaga intenzione di dar cima e allontanare la poppa dalla banchina. La grande anfora in banchina e' immobile. Posso sentirne la perplessità. Sento qualcuno che si muove dietro di me, forse il secondo ha svegliato i suoi lobi e si sta affacciando. L'anfora dice:

- Buonasera. - Io continuo a trafficare con la cima pensando che abbia salutato il mio secondo. L'anfora gira su se stessa e si allontana di un passo ma poi si ferma e si rigira con la parte panciuta verso di me:

- Ma capetano, lei mi capisce quando parlooo? -  Un'occhiata alle mie spalle mi mostra il biancore vuoto del pozzetto in tutta la sua forma: allora quel buonasera era tutto per me.  Mollo metrate di cima e mi affretto a rassicurare il mio gentile interlocutore

- S', sì, certo. Devo allontanarmi dalla banchina perché viene il tempo malo. -  L'anfora sembra rinfrancata:

- Sì, lo tempo é malo. Tra un'ora arriva lo scirocco e qui é pericoloso. Alzato apposta mi sono, per avvertirla, capetano...-

Beh? adesso sono sveglio ma non so proprio che dire. Chi lascia il caldo del letto alle due di notte per andare ad avvertire uno sconosciuto, a due chilometri da casa che " lo tempo é malo? ". Grazie, grazie, grazie. Ma sembra, poco. Proprio poco. L'anfora se ne va dondolando, sui fianchi, ombra maestosa della banchina. Finalmente i lobi del secondo si sono svegliati percé spunta in pozzetto:

 - Lo tempo é malo e qui bisogna prendere, delle precauzioni. - Mollo metrate, anche della seconda cima d'ormeggio e la Sgnuffi subito si allontana dalla banchina tirata dall'ancora a prua. Recupero metrate di catena. E’così buio che è difficile vedere i segni sulla catena. Adesso l'ancoraggio non sarà troppo corto?

Ad una cinquantina di metri dalla prua della Sgnuffi c'é una gran boa circolare. Forse mettendo una cima Ià... Salto sul canotto e prendo la cima più lunga che posseggo. Forza coi remi. Un refolo, caldo, arriva nel porto: ecco lo scirocco! Rema, rema! La cima si snoda, tutta e mi trovo a tre metri dalla boa con la cima della cima in pugno. Porca miseria! Tiro, ma ovviamente l'unico risultato é quello di far partire all'indietro il canotto. Tra l'altro sono in mutande e ho il sedere a mollo nella guazza che si é raccolta sul fondo del pram che non ha paglioli. Rinuncio alla boa e punto sulla poppa di un peschereccio: in fondo anche legata la la Sgnuffi dovrebbe essere sicura. Accosto e lego, poi mi tiro verso la Sgnuffi e risalgo, a bordo con le mutande da cambiare. Teso la cima, adesso sembra a posto.

Via le mutande e dentro al sacco a pelo. I lobi si riaddormentano mentre qualche raffica calda fa vibrate la barca. Ma il lobo, dello skipper continua a rimuginare: quella cima testa nel buio fra la mia barca e il peschereccio non costituirà pericolo grave per qualcuno che creda di poter passare in mezzo?

Il lobo rompicoglioni sveglia di nuovo gli altri e mi ritrovo nudo a prua a meditate. La cima si é allentata e fa una pancia sott'acqua: forse é ancora peggio così. Sicuramente qualcuno, la acchiapperà con l'elica. La teso di nuovo: adesso é a mezzo metro sul pelo dell'acqua: se passa uno con un barchino si trova decapitato e a mollo. Rientro e comincio, a rovistare alla ricerca di una torcia elettrica a lampeggio arancione che avevo comprato e ficcato al suo posto... da qualche parte. Nel gavone sotto la mia cuccetta non c'é. Forse é sotto quelle dei due pipoli che ronfano a prua. I loro lobi sono ancora tutti concordi nel ronfare, e non avvertono alcun senso di responsabilità.

Amarilli la giro a paratia, sollevo il materasso e scoperchio il gavone: ci. vorrebbe la torcia per far luce dentro. Ma é la torcia quello che cerco. Tasto cordami dappertutto. Qui non c'è. Costantino lo metto a pagliolo e sollevo il materasso scoperchiando il gavone: qui c'é la roba sub. E allora c'é anche la torcia sub.  Con quella sarà più facile trovare l'altra. Il tonfo soffocato mi dice che Amarilli si é girata ed ha infilato il sedere nel gavone rimasto spalancato come una botola traditrice.  Ma i lobi tengono duro e anche piegata in due Ia brava Amarilli continua a soffiare il suo sonno regolare. Trovo Ia. torcia sub e Ia accendo: ricomincia Ia ricerca, mentre un refolo caldo alita di nuovo sulla barca. Apro tutti i gavoni, scoperchio lo scoperchiabile, Ia maledetta lampada non si trova. Il secondo mi guarda a lungo. Sudato riemergo dalla sentina e con Ia coda dell'occhio scorgo un riflesso arancione provenire dall'esterno.

- Cos'è? - chiedo rauco. Il secondo sorride compiaciuto:

- Ho pensato che quella cima tesa poteva essere pericolosa e così ho legato a prua una lampada. Sai quella che lampeggia arancione, no? –

So. So e taccio. Una raffica calda passa sul mio corpo sudato mentre a prua controllo, Ia cimetta con cui il dolce secondo ha assicurato Ia lampada che lampeggia sulla cima tesa evidenziandola. Adesso mi sembra di aver pensato a tutto: scirocco, soffia! Rientrano le lampare. Uno spettacolo. Il porto, si accende di bagliori azzurri. Chiazze di luce che scendono fin sul fondo rendendo le barche immagini fatate sospese in qualcosa che non ha limiti precisi.

Scirocco, soffia! Niente. Tutti siamo in attesa del tempo malo. E quello, dispettoso, non viene. L'alba mi trova col lobo sveglio e gli altri sonnecchianti

- Avete ballato questa notte, capetano? - e scruta il cielo, percorso da nuvoloni scuri che si vanno però diradando.

- Eh! - esclamo e poi mi sembra che il mio discorso sia troppo corto e aggiungo. - Un po'! -

- Qui quando soffia lo scirocco si va in banchina, capetano... - e fa con la mano il gesto dell'urto. Non si può deludere uno cosi gentile e dirgli che é stata una notte calma.

Lunedì 16 luglio alle ore 10.10 lasciamo il gran porto di Cefalù puntando verso il mare aperto. E’ la prima volta dopo l'avventura che ci ha condotto in Sicilia. Ma adesso abbiamo le bussole sistemate da Mimmo e le bocche di Vulcano, meta della riga tirata sulla carta, distano solo 5é miglia. Tuttavia c'è un po' di tensione in barca quando sparisce la terra alle nostre spalle e ci troviamo tra cielo e mare.

Dopo un paio d'ore di mare calmo comincia ad alzarsi un vento di NE che alza il mare alla svelta. Colpa del sonno duro, stamattina ho mancato il bollettino, meteo delle 06.24 della RAI e il tentativo di parlare con Palermo radio sorte lo stesso effetto, di quello di parlare a suo, tempo con Napoli radio.

In ogni modo chiamo, a intervalli di dieci minuti. Sul sedici sento motonavi, petroliere, carghi, che chiamano, il porto, c'é uno yacht spagnolo, uno yacht francese. Palermo Radio non risponde a nessuno, o almeno io non sento risposte. D'un tratto irrompe nel canale l'incredibile voce di Roma Radio che pur si trova dall'altra parte del Tirreno:

- Qui Roma Radio. Palermo rispondi! Non senti che ti chiamano, in dieci da due ore? - Finalmente la voce palermitana risponde a quella romana:

 - Sono, solo qui, come minchia faccio a rispondere a tutti! -  Ecco spiegato in chiari termini il silenzio radio. Per non affaticare l'operatore di Palermo desisto per una ora dal chiamare, mentre il mare sale e ricomincia il ballo. Il cielo si é coperto di nuvoloni e la tensione a bordo sale perché stavolta tra cielo e mare siamo in burrasca. A tratti le onde lavano i vetri della Sgnuffi. La randa é tutta tesa e tenta di frenare un poco il ballo. Quando richiamo Palermo risponde subito. Vuole sapere chi siamo e gli dico, il nome della barca. Sbuffa l'operatore e mi gracchia di compitare coi nomi di città. Qui lo frego perché ho appiccicato a paratia le parole dell'alfabeto internazionale. D'un fiato dico:

- Lima Alfa Sierra Golf November Uniform Foxtrot Foxtrot India!- C’è una pausa di imbarazzato silenzio, poi la voce palermitana sbuffa e ammette:

- Una minchia capii! Più piano per favore! - 

- Se preferisce con i nomi di città... - rimesto nella piaga.

 - No! - ruggisce. E io soave ripeto più piano i vari Lima Alfa eccetera. Stabilito che siamo un panfilo denominato la Sgnuffi abbonato alla SIRM senza numero internazionale perché la pratica é ancora in corso, posso chiedere se mai ci siano state chiamate per me. Infatti avevo detto a mia madre che per comunicazioni urgenti poteva chiamare Palermo Radio e io poi avrei richiamato, tanto sul VHF mai ho sentito leggere una lista traffico. Che poi sarebbe la lista di chi cerca qualcuno in mezzo al mare e vuol farglielo sapere affinché richiami.Il palermitano mi giura che non ha mai sentito il buffo nome del mio panfilo. Chiedo il meteo e anche stavolta sembra che siamo in mezzo ad una sventolata da nulla.

Per documentare giro un po' di otto millimetri ma poi proiettato a casa sembrerà proprio una sventolata da nulla. Ha ragione quel mio amico operatore, quello che ha girato Odissea Nuda, a dire che una bella burrasca in mare ancora non l’ha ripresa nessuno e vorrebbe ficcarsi con un catamarano in un forza 9/10 oceanico con le macchine da presa sigillate in coperta in punti strategici. Infatti al cinema il mio mare almeno cinque sembra un bonario tre virgola qualcosa.

Ma ecco apparire spaccate di prua le bocche di Vulcano. Che non sono le bocche del dio greco ma lo stretto tra l'isola di Vulcano e quella di Lipari: Mimmo sei un dio! Che bussole, gente! A sinistra si sollevano le nubi per mostrarci la sagoma lontana di Filicudi e un sospetto conico di Alicudi. La sagoma di Salina invece é azzurro scuro oltre quella di Lipari. Beccheggiando come dannati ci infiliamo nelle bocche e viriamo un po' sulla sinistra per farci spingere meglio dal vento. Infatti ci spinge meglio: da un gran cazzotto al fiocco che comincia assurdamente a garrire e poi lentamente scende lungo lo strallo come una sbatacchiante bandiera di resa. Per dieci secondi resto a fissare attonito il fiocco che scende prima di realizzare. Schizzo fuori lasciando, la ruota ad Amarilli e ignoro le stelle che per un attimo punteggiano il mio cielo dovute all'urto inevitabile dell'alluce sul famigerato bordo che ho fatto rialzare. Costantino mi sgambetta dietro. Gli urlo di tornare dentro, ci mancherebbe anche di dover fare adesso la manovra bambino a mare.

Mi ricordo il carabiniere dall'aria furbetta che aveva buttato il salvagente nel piscio del Tevere il giorno dell'esame esclamando 

- Uomo a mare! - e la mia perfetta manovra di allora col barchino fuoribordato. Se Costantino mi cadesse in acqua adesso saprei ripescarlo in tempo? Il pensiero mi fa rabbrividire mentre il fiocco mi schiaffeggia ripetutamente: ho proprio paura che non ce la farei. Con rabbia smanaccio il fiocco cercando di domarlo. La scotta frusta le mie gambe, gli schizzi me le lavano ma ho passato un braccio intorno allo strallo e non posso essere facilmente sbalzato via. Pesto il fiocco, lo tengo giù come posso e il mio sguardo va in alto, lungo lo strallo: il grillo della drizza sta percorrendo gli ultimi centimetri verso la testa dell'albero. Perduto lassù  fino a migliore occasione.

Sgarroccio il fiocco e stringendolo in una bracciata torno cautamente verso il pozzetto. Non vedo dove metto i piedi ma sto bene attento a non urtare con l’alluce che già mi duole orribilmente il bordo bastardo. Alzo bene il piede e lo scavalco, poggiandolo sul gradino. La Sgnuffi beffarda sculetta e pamf! sbatto sul bordo lo stinco dell'altra gamba: livido e sangue, mica una botta da niente. L'imprecazione che mi sfugge spinge la Sgnuffi oltre le bocche nella rada di Lipari dalle acque ridossate e placide.

Il solito problema dell'attracco. E’ consigliato Sottomonastero, ma io vedo traghettoni e basta. Poi scapolando una gigantesca prua nera appare un cinquanta metri di banchina con quattro velieri e un motoscafo. I fondali sono subito di un paio di metri scarsi e per mettermi con la poppa alla banchina devo andare a ficcare la prua. sotto le palafitte del ristorante Mistral sfiorando sassoni coperti da mezzo metro d'acqua. Sembra. un ancoraggio perfetto: negozi a due passi, acque immobili. L'equipaggio si tuffa subito nelle boutique per turisti dando un altro duro colpo alla liquidità di bordo, che purtroppo non ha nulla a che vedere con l’acqua in sentina.

La sera poi si cena al Mistral serviti da perfetti camerieri che ci rimpinzano con leccornie da diecimila complessive. Giusto prezzo però data la sontuosità e la squisitezza del menu. Sicuro adesso di sacchi ce ne vorranno duecento per mangiarci in quattro, ma nel beato luglio 1973 "austerity" era una parola sconosciuta confusa tra austerely e Austin sui vocabolari inglesi. Ed Euro era solo un venticello.

Epe gonfie e pasciute, in pace col creato e le creature, rientriamo a bordo, percorrendo i dieci metri dieci che ci separano da cotanto ristorante e comincia il ballo. Un'incredibilmente moscia onda al traverso investe il fianco della Sgnuffi. E’ il suo punto debole: toccata là dà inizio ad un moto pendolare sempre crescente. Le cime di poppa levano nella notte il loro monotono canto di usura. Ne tengo d'occhio una che sembra sul punto di rompersi e annoto mentalmente che ne devo comprare un'altra: poca cima, poco marinaio. Ma anche: pochi soldi, poca cima coi prezzi che corrono.

Anche la catena a prua é soggetta ad energici strappi e la Sgnuffi rotondetta va a controllare. Al ritorno in pozzetto, chissà, inciampa forse nella scotta del fiocco e piomba con tutto il suo dolce grazioso peso sul bel tavolo rotondo da lei pittato. Crack! Il tavolo si spezza nelle due metà costituenti, si schiodano i longheroni e il secondo finisce in strana posizione urtando, con violenza il mignolo e l’anulare della zampina destra. L'ululato sale nella notte chiara.

Passerò la notte con un occhio alla cima consunta che geme e si assottiglia e l'altro ai ditarelli della moglie che geme e si gonfiano. Lunga é l’azione di convincimento che i salsicciotti bluastri non significano dita rotte ma solo travaso per distorsione. In ogni modo devo segnare sul libro di bordo che il secondo non può più camminare.

All'alba ho gli occhi gonfi io. Non appena aprono i negozi mi tuffo lungo la main street di Lipari in cerca di corde. Che dolci sovrapprezzi, gente! Se andate a Lipari sperate che non vi si rompano i legacci delle scarpe o dovrete scegliere tra l’andare scalzi e l’andar pelati. Io pelato lo sono già in tutti i sensi e tento di convincere una vecchia panettiera a darmi per tremila lire una cordaccia di qualche porcheria che sega le dita. La vecchia si ostina a pesare la mezza matassa e a chiedere seimila lire. Poi alla fine chiudo a cinquemila col pianto nel cuore. Erano le ultime. Adesso devo trovare una banca fiduciosa per cambiare un assegno.

C'é una banca lungo la main street ma non é fiduciosa manco per niente. Mi guardano gli impiegati in cravatta e camicia con aria di aperto sospetto. Piedi nudi infilati in sandali di plastica da quattrocento lire, braghe di tela consunte e sporche, maglietta pietosamente stazzonata, barba non rasa da due giorni, occhi gonfi in cui deve essere rimasto fotografato un nodo, tra la cima consunta e le dita gonfie dei piedi del mio secondo. Dico che sono arrivato con la barca e ho finito i soldi. Quelli pensano che abbia attraversato il Mediterraneo a remi fuggendo da qualche ergastolo. Si rifiutano perfino di telefonare alla mia banca di Roma nonostante la mia offerta di pagare la telefonata.

Per fortuna trovo la Cassa di Risparmio e, fatto esperto dalla precedente esperienza, entro sorridente e gioviale. Mi appoggio al banco e dò un colpetto all'impiegato:

- Che sventolata ieri eh? Stavo tra Cefalù e Vulcano con il mio yacht e mi ha strappato il fiocco. Ho dovuto dire al nostromo di dare motore e filare. Ah, devo cambiare un assegno... – Non aspetto consensi, é ovvio che chi ha un nostromo ai suoi ordini é sicuro di vedersi accettato un assegno. E infatti, cambiano centocinquantamila senza batter ciglio.

Torno a bordo allegro con cima e grana e si parte per dare una prima occhiata in giro. Rifaccio le bocche, calme adesso e mi infilo, nel bellissimo porto di ponente di Vulcano, che poi non e' un porto ma una rada molto chiusa,pittoresca. Ormeggio alla ruota senza problemi e data la tranquillità delle acque decido di ripescare la drizza del fiocco finita in testa d'albero. La cosa più semplice sarebbe salire a prenderla. Non ho il bansigo ma ho una scaletta di corda che ho fabbricato con le mie mani. Però io non ci entro col sedere e poi chi mi tira su? C’è chi si tira su da solo ma sta da qualche altra parte. Guardo Amarilli che mi fissa spaurita. Il biondo secondo si offre mettendo bene avanti le, ditarelle, bluastre del piede destro. Scartata. Costantino si offre con tutta la sua incoscienza. Scartato. Amarilli non si offre: tocca a lei. La tireremo su. usando mantiglio e drizza della randa. Non c'é pericolo! Ma il pallore della primogenita mi induce ad un discorsetto sul tipo di quello dei capitani che cercano volontari: se non vuoi andare, non andarci, però se non ci vai non potremo più usare il fiocco e forse un giorno rimpiangeremo amaramente questo. Amarilli sempre più pallida balbetta che ci va .

- Senti, noi ti tiriamo su, però in qualsiasi momento, se senti di non farcela diccelo, che ti tiriamo giù.

Si fa issare fino alle crocette, poi il suo sguardo vaga sul mare e nonostante le mie esortazioni a guardare solo in alto guarda invece in basso. E’ la fine. Molliamo lentamente drizza e mantiglio.

- Sei stata bravissima lo, stesso. Non ti Preoccupare, inventerò qualcosa.. - Tecnica di consolazione necessaria.

L'acqua e' calda e trasparente, metto in libertà l'equipaggio e comincio a meditare guardando la punta dell'albero che disegna cerchietti lassù contro il cielo. Io più il mio braccio facciamo almeno, due metri e mezzo. Il mezzo marinaio è lungo un paio di metri. Che altro c'e': il bastone del tendalino quasi tre metri. Troppo ce ne vuole: ah, la, canna da pesca di Costantino! Dovrei arrivarci. Mentre l'equipaggio sguazza beato intorno alla barca io comincio il folle montaggio, legando e sovrapponendo i pezzi. Quando, dondolante e insicura innalzo nel cielo, I'incredibile asta arrivo proprio all'altezza di punta d'albero. Ma tenere quel po' po' di bastoni col braccio teso in alto é già difficile, tenerli fermi quasi impossibile.

Mi fa male il collo e strizzo, invano gli occhi per tentare di scorgere che fine abbia fatto il grillo, che deve essere incastrato contro la puleggia che porta la drizza dentro I'albero cavo. Il sole sbrilluccica sull'anodizzato oro e poi e' troppo, lontano. Calo il bastone a tre stadi e mi precipito a prendere il binocolo. Metto a fuoco ed esploro: eccolo, là! Il grillo é bloccato contro la puleggia e mostra le gambe divaricate oscenamente senza più il pernetto passante. Questo e' successo allora: sotto lo sforzo della sventolata ha ceduto, il grillo evidentemente sottodimensionato. Ma adesso pescarlo é davvero un problema: l'unico occhiello é quello lasciato dal pernetto passante, non più grande di qualche millimetro. Provo con una molletta da bucato assicurata ad una lunga cimetta e poi tenuta aperta da, una seconda molletta fissata sulla canna da pesca. Innalzo I'accrocco e i bagnanti cominciano a seguire con un certo interesse. La mano mi trema, mi sembra di aver portato la molletta al punto giusto. Strappo e.. viene giù tutto sulla mia testa. Risus abundat in ore stultorum. Vorrei poterlo scrivere nel cielo, sopra gli sghignazzanti stesi sulla sabbia.

Devo pensare un'altra cosa. Una pesca vera e propria. Monto un'ancoretta sulla cima della canna e tento di nuovo. Fatica tremenda. Sudore che cola, mano che trema. Mi sembra di avere agganciato e tiro: I'ancoretta resta su da qualche parte e la canna scende sbilenca perché le legature cominciano ad allentarsi.

Il risus abundat più che mai. Ma io sono testardo. Assicuro in punta alla canna un amo da otto. Lo lego e lo fermo con del nastro adesivo. Riprendo la pesca. Appena un'ora e quaranta dopo, al centoseiesimo tentativo, I'amo incoccia l'anello lasciato dal perno passante e tra il silenzio di tutta Vulcano tiro giù il grillo e la drizza appresso. Io sento intorno a me la marcia trionfale dell'Aida mentre solennemente recupero la drizza.

Dopo tanta pesca aerea, un po' di quella sub per riposare. Ho sentito parlare delle cernie di Vulcano, perfino Mike Bongiorno le pesca. Per me c'é solo un gronchetto da un paio di chili. Meglio di niente.

Gronchetto in umido e pastasciutta a bordo mentre cala dolce la notte e ci raggiungono le musiche del night psichedelico che tinge di cangianti colori le rocce sulle nostre teste.

Siamo rimasti in rada noi e un velierino francese. Decido di passare la notte in quel paradiso invece di andare a dondolare a Sottomonastero. Però mi sposto per prudenza pi,é a ponente dove attraccati ad alcuni gravitellini ci sono dei motoscafi ricoperti con teli. Se li han messi lì vuol dire che e' il luogo più riparato. Un ricchissimo paio di palle! Alle due di notte, la Sgnuffi freme. Poiché non vengo a raccontare qui i fremiti della Sgnuffi supersex, alludo evidentemente a quelli della barca.La Sgnuffi freme perché una mano di vento ha frugato fra. le sartie con prepotenza. Freme il vascello, freme il capitano. Esco a vedere. C’é calma assoluta di vento. Troppo assoluta. Si sente intorno che qualcosa trattiene il fiato prima di soffiare con forza.

Tonf ! Tonf

Qualcosa urta spudoratamente i fianchi della Sgnuffi. Nel buio accendo una torcia: uno sfacciato barchino sbatte la poppa. Frrrr! Una raffica, calda di vento fa tremare Pacqua e spinge più forte il barchino contro il fianco della Sgnuffi. Scendo sul ca- notto per cercare di vedere quale dei due abbia arato e trovo la cima del barchino aggrovigliata alla catena dell'ancora con tutto il gavitello. 

Il cielo si oscura all'improvviso. Un nuvolone lo sta riempiendo. Per liberarci del barchino bisogna salpare l'ancora. Le raffiche di vento cominciano a susseguirsi sempre più frequenti. Guardo il veliero francese che si dondola al centro della rada, addormentato con la lucina a prua di fonda. Quello skipper sembra assai poco preoccupato del peggiorare del tempo ma e certo più esperto di me e forse conosce bene l'uscita dalla rada costellata di scogli che gia non si vedono pi,é nel- la notte diventata molto più nera. 11 secondo si sveglia e arriva zoppicante a prua: che si fa?

Dal momento che bisogna levare l'ancora tanto vale filarsela a Lipari, ci sarà l'onda molle al traverso ma nient'altro. Sono d'accordo a metà, nella rada di Lipari c'é un altro approdo molto più ridossato di Sottomonastero, é il Pignataro. Arrivarci di notte per la prima volta non sarà piacevole ma neanche passare la notte a guardare le cime che cigolano lo e'.

Così si decide: via per il Pignataro.  Lasciamo, la splendida rada di Vulcano e attraversiamo le bocche nere come la pece col cuore in gola. Il vento adesso é forte, vagamente libeccio tra sud e ovest. Ma a tratti sembra girare quasi a maestrale, in ogni modo a Lipari saremo al sicuro.

Tre quarti d'ora dopo mi avvicino al Pignataro. Due fioche lampadine sulla banchina e la sagoma di navi militari. Quando metto in folle comincio a scarrocciare forte. Ridò elica. Non sari una manovra facile, la banchina è alta e non c'é nessuno per passargli una cima. Poi vedo un grosso, gavitello bianco e rosso, libero. E’ sormontato da un gigantesco anello. Urlo alla Sgnuffi di acchiapparlo col mezzo marinaio e ci metto la prua sopra. La Sgnuffi si distende a prua e protende il gancio.

- Preso! - 

Cerco di dare un colpo indietro per fermare I'abbrivio ma una raffica di vento contrasta la manovra. La barca tende a procedere. Sparisce oltre la prua la testa bionda del secondo, poi si inarca evidenziandosi il fatal fondo di schiena. Il povero secondo é costretto a far forza sulle ditarelle gonfie e mugola di dolore ma eroicamente non molla. Corro a prua a darle una mano. Agguanto il mezzo marinaio e tengo forte. Il grosso gavitello sfrega sulla fiancata e sento la catena che lo collega al corpo morto raschiare la chiglia per tutta la lunghezza, ma non lascio la presa e strappo quasi il galleggiante dall'acqua. La barca,domata, si ferma.

- Una cimaaa! - urlo strozzato e il secondo zompetta al mio fianco e me la passa. Assemblea plenaria di tutte le mie forze: passo la cima nell'anello del gavitello e mollo. La barca, guidata dalla briglia indietreggia verso la bancbina. Assicuro la cima al bittone di prua: e' fatta! Per evitare strani giri vado a -terra col canotto a passare una cima di poppa e alle quattro posso riprendere il sonno del giusto. Il gran vento, soddisfatto, si riposa con me. E all'alba tutto é tranquillo e sereno: beato quel francese che se l'é saporitamente dormita nella bella rada di Vulcano. Qui I'acqua puzza.

Con sole e mare piatto veleggio di nuovo verso Vulcano: stavolta Porto di Levante. Mi ancoro nell'ampia rada nei pressi delle solfarole sottomarine. Dietro a noi viene ad ancorarsi un due alberi in legno nero. Bella barca. Si chiama Lupo di Mare. Mi immergo col fucile: le bolle di gas che salgono dal fondo marino hanno sbiancato tutto: alghe, pesci e rocce. Strano paesaggio da fantascienza. Persino il tordone che infilzo è candido. Sara buono? Pesce bianco al sugo: ottimo. Mi preoccupa l'eco scandaglio che rimanda infinite eco: che sarà successo? Gli vado a dare una guardata: non é niente, solo non c'é più. La testa del transducer, quella delicata che non bisogna neppure disincrostare per non rovinare, non c'é più. Intorno sul veto di muschio che già ricresce in carena, i segni delta catena del corpo morto di Pignataro. Avevo detto agli artisti toscani che la testa dell'ecoscandaglio mi sembrava troppo sporgente, ma ormai era bello e fissato e a loro, parere andava bene così. In effetti e' andato bene finché non ha incontrato la catena.

La sera setaccio Lipari paese ma nessuno sa che cos'é un ecoscandaglio. L'ausilio elettronico a bordo si va sempre più riducendo. Ormeggia sulla nostra sinistra un Euros 41, sono in sei sulla barca, vengono direttamente dalla Costa Azzurra. L'occhio del francese valuta  il Multi stupito:

- C'est drole! - esclama di tanto in tanto. Lo lascio stupirsi per un po' e poi gli spiego l'arcano di tante somiglianze nei dettagli tra la mia e la sua barca: la mia la fa la Multimare, la sua la vende. L'osmosi di pensiero é evidente.

Alla mia destra si ancora un Ockelbo col tettoino di te]a. Ne sbuca una. coppia giovane e bruciacchiata dal sole. Si fa amicizia, lui é di Biella come me (piccolo il pianeta!) e i due si sono sciroppati una galoppata di cinquecento miglia su quel barchino pieno sopratutto di benzina per i due fuoribordo, navigando spesso abbrancati ai tientibene e senza possibilità di difendersi dal sole. Forza dell'amore: la signora riesce ancora a sorridere sotto i segni delle bruciature di terzo grado! La coppia piemontese ha fatto quasi le nostre stesse rotte ma non ci siamo mai incontrati. Facciamo insieme alcune considerazioni: i porti del meridione sono completamente vuoti di barche da diporto. Per esempio adesso nella rada di Li- pari ci sono otto imbarcazioni da diporto e ben tre Isono francesi, eppure siamo nella seconda metà di luglio. Mo. dove so- no le trecentomila barche dichiarate dall'UCINA? Evidentemente ben stipate su cinque file a Portofino et similia. Popolo di navigatori!

E’ bello chiacchierare con i nuovi amici seduti in pozzetto con un whiskettino in pugno. Si parla di sub, dei ritrovamenti archeologici di Lipari che sono costati la vita a due archeologi tedeschi un paio di anni prima, si parla di barche, dei costi e della voglia di farsene una. più grande, più barca Si parla di ferrocemento e mi dicono di essere amici di quel due coniugi di Torino che si sono fatti I'Aletes completamente da soli ed é roba di quattordici metri e fischia. Ci vogliono tante cose per una simile impresa: il coraggio per iniziarla, la costanza per continuarla (mesi, anni!) e la certezza di essere ben decisi a rompere con la vita "normale", perché quando uno si fa una barca così dopo deve viverci sopra e farne la propria casa, diventare un meraviglioso abitante dei mari e ricavare da vivere dalla barca. stessa: ed e' proprio que lo che stanno facendo i proprietari dell'Aletes! Loro troveranno sulla loro strada i quaranta ruggenti, noi non siamo ancora pronti e abbiamo le nostre gatte da pelare qui, nei quaranta belanti!

Sognare e' bello, navigare realmente presenta anche fastidi. Ma in fondo uno naviga anche per essi. Un gioco, uno sport, qualcosa con cui misurarsi. E allora misuriamoci con questa bella foschia che alle undici di mattina ci avvolge come ovatta al largo di Panarea la bella. A tentoni arrivo a S. Pietro: non in piazza S. Pietro, ma allo scalo di Panarea, la gemma. Sarà il grigio, sarà l'aspettativa delle cose troppo decantate ma per noi Panarea é un po' una delusione. L'acqua è limpida ma non più che in altri posti non inquinati

Il calendario annuncia il giorno 20 di luglio, la digressione non voluta sulle coste sicule ci ha portato via giorni non previsti. E ai primi di agosto c'e' un sequestro di persona che mi aspetta: devo scrivere la sceneggiatura di quel film che il produttore vuol chiamare "Milano odia, la polizia non può sparare". Almeno una capatina a Roma la dovrò fare. Sacrifichiamo Salina, Filicudi e Alicudi e facciamo vela per Stromboli.

Poiché l'unico porto delle Eolie è a Lipari, chi può fa la gita a Stromboli in una sola giornata tornando poi a Lipari per passare la notte. Ma noi dobbiamo poi attraversare e andare in Calabria, un simile avanti indietro non ci attrae. Tenteremo: se il mare é buono dormiremo a Stromboli, altrimenti si vedrà.

Stromboli vale la crociera.  Ci si arriva piccoli piccoli sul mare e ci sente sovrastati da quell'immenso cono di carbone che fuma e brontola minaccioso. Giriamo in silenzio intorno al gigante: la sciara di fuoco è come una gigantesca lacrima che scivola verso il mare di un blu così violentemente scuro che non sembra di acqua. Uno schioppo come di fucile. Un masso si stacca e piomba in mare sollevando un alto spruzzo. Polifemo ha scagliato li sua prima pietra! Elica, gente! Se il gigante si sveglia del tutto saranno dolori. E' la prima volta che avverto nella natura un senso autonomo di religione. Qualcosa che sarebbe religioso anche senza la paura dell'Uomo. La piccola bianca Sgnuffi si agita come può e gira intorno al colosso di nero lucente e sull'altro versante 'un po' di verde attenua la primordialità del paesaggio. Poi le casette bianche e il campanile aguzzo di un paesello.

Buttiamo l'ancora a Scalo Scari, a una trentina di metri dalla riva di nerissima sabbia. La catena va tutta giù ma l'ancora sembra fare presa. Scalo Scari è scalo perché qualcuno ci fa scalo. Potrebbe chiamarsi benissimo Spiaggia Scari o Mare Aperto Scari o anche semplicemente non chiamarsi proprio perché in realtà non c'é nulla da chiamare. Ho paura di quest'acqua scura ma anche ne sento il fascino. E con un po' di batticuore che mi immergo con pinne e fucile.

Sotto un paesaggio incredibile: come sopra la sabbia nera, quaggiù é candida. Come sopra è grezza, quaggiù e' finissima. Scendo sul fondo nuotando verso l’isola perché sotto la Sgnuffi si spalanca un pauroso, precipizio nero senza fine. Sui quindici metri plano lentamente in una conca candida: qua e là massi erratici interrompono Ia liscia monotona della dolcezza quasi collinare. L'orizzonte e' vicino perché le colline precipitano nel nero assoluto dopo qualche decina di metri e io volteggio senza peso con Ia straordinaria acutissima sensazione del dejà vu. Di colpo capisco: la luna! Armstrong e soci che ballonzolano in quelle morbide polverose, bianche conche punteggiate da macigni e con il nero dell'orizzonte cos! vicino da dare l'impressione di uno scenario montato in un teatro di posa. Vengo su a prendere aria con dispiacere e subito mi reimmergo. In quella sabbia candida una forma scura e piatta volteggia come un piccolo aquilone per poi appoggiarsi e sparire nella polvere del fondo. Una sogliola! Nuoto con calma e cerco di riscoprirne i bordi: incredibile, come sappiano sparirti davanti agli occhi. Sfioro con l'arpione Ia sabbia. Un guizzo veloce, una planata e di nuovo Ia sogliola e' scomparsa. Tengo fisso quel punto: sulla sabbia non c'é assolutamente niente. Sicuramente niente. E’ stupido sparare. Ignoro il cervello e sparo. La sogliola infilzata in pieno guizza intorno all'asta. Un altro aquilone volteggia tre metri più in Ià. E poi un altro sull'orlo dell'abisso. Sono in un mare di sogliole! E’ una caccia facile, troppo facile, una volta capito il trucco. Per renderla più divertente decido di cercare di prendere le sogliole solo al volo e non quando sono posate sulla sabbia. Anche cos! non è difficile, però e poiché in barca siamo in quattro decido di fermarmi a quattro sogliole. Uccidere per mangiare é primitivo. Uccidere per il solo gusto di farlo, é sport da gentiluomini e se uno acchiappa una barca e va in giro per i mari è proprio perché un certo tipo di gentiluomo gli fa schifo. Una volta a pagliolo le mie quattro sogliole diventano rombi: o almeno ci provano. La mia esperienza in pesci piatti è alquanto scarsa e questi poi sono neri come tutto e' nero qui a Stromboli ad eccezione dei fondali lunari.

Oltre la spiaggia di carbone luccicante scorgo un gran cubo di cemento munito di un grosso anello: deve essere una specie di corpo morto o una sintesi di banchina. Scendiamo a terra remando, col pram e ci informiamo. Un vecchio pescatore sputa saliva nera sulla sabbia tipo inferno: sono quei di Lipari che mettono in giro la voce che le barche possono sostare solo da loro, così i turisti vanno tutti a spendere Ià. A Stromboli vengono solo a vedere le poi tornano a Lipari. Ma é una bugìa nera!

Per esempio lì, a Scalo  Scari, si può stare sempre e benissimo a meno che si alzi il vento. Sputa nero e poi precisa: il vento da scirocco. E poiché oggi non é tempo da scirocco ci si può passare la più tranquilla delle notti: basta ancorarsi vicini a terra e passare una cima dalla poppa all'anello che gia avevo visto. Torno in barca e prendo la cima. Intanto arriva l'aliscafo con grande sciacquio e scarica frotte di turisti che storcono la bocca disgustati perché la sabbia nera incrosta i loro virginei piedi.

Rimando a terra il secondo con la cima della cima e subito trova due volenterosi che si arrampicano fino al grande anello per assicurarla la'. Io ho salpato l'ancora, non tutta, me la porto a ciondoloni appesa ad una quindicina di metri di catena. Aspetto che tocchi e mi avvicino alla spiaggia. Ho quasi la poppa all'asciutto e ancora non tocca! Devo buttare più catena, tutta la catena e finalmente mi sembra che abbia preso. Costantino mi riporta il canotto remando da professionista e così anch'io posso scendere a terra. Il  canotto deve per forza essere abbandonato sulla spiaggia se vogliamo fare un giro per I'isola.

La stradetta che si arrampica verso il paese si intrufola in mezzo a strane piccolissime case bianche che fanno un gran contrasto con tutto il nero delle rocce. Anche il verde degli alberi é un verde più scuro che altrove. In alto, nel cielo sereno, il gran pennacchio del vulcano. Scendono e salgono la stradetta dissestata stranieri di tutte le razze. Italiani pochi: probabilmente perché é un'isola troppo severa, troppo faticosa, che sporca di nero. Ma è di gran lunga la più bella isola delle Eolie. L'unica vera gemma dell'arcipelago, l'unica terra che veramente é difficile trovare altrove.

Ceniamo a base di frittata di pesce e beviamo malvasia. Non malvasia di quella che si può comprare dappertutto, ci spiega la donnetta che ce lo mesce nei bicchierozzi, ma il " suo "  malvasia ricavato dalle "sue" uve lasciate appassire nella "sua" vigna prima di vendemmiare. Peccato che alla fine ci spari anche il "suo" prezzo che é certamente adatto più al forte marco tedesco che alla debole lira delle mie tasche.

Torniamo sulla nera spiaggia che é buio e ci aspetta una sgradevole sorpresa: il canotto é ancora là ma senza remi. C'é ancora gente che si aggira nel buio della spiaggia. Il secondo occhio di lince e fianchi da blocco stradale scopre e affascina una guardia di Finanza che unisce alla nostra la sua personale costernazione. Dichiara solennemente che fino all'anno precedente mai nulla spariva dalle spiagge nere di Stromboli. Ammette avvilito che la scomparsa dei nostri remi é la terza scomparsa che viene denunciata. La Sgnuffi occhioni dolci scodinzola e incalza: l'isola è piccola, i remi si devono trovare! La guardia sospira, allo scodinzolamento del bikini nell' ovatta nera della notte stellata e certo non pensa ai remi. Poi costretto a far mente locale dall'inflessibilità del secondo cerca invano di spiegare alla mia dolce cocciuta meta che remi da canotto anche nella piccola Stromboli ce ne saranno almeno cento paia e che sono tutti indistinguibili. Minacciando di spargere la voce e di bloccare la corrente turistica verso l'isola, la superbikinata risale immusonita nel canotto senza remi e io mi aggrappo alla cima che ci lega al masso e tiro riportando la famigliola verso la panciuta Sgnuffi. Sono appena a bordo quando dal buio una voce chiama: e' la guardia di Finanza. Raggiante un agente agita qualcosa: un paio di remi!

RIsalto nel pram e via di nuovo lungo la cima. Mi passa i temi: chissà, qualcuno li ha trovati sulla sabbia. nera, o forse il ladro terrorizzato dalle minacce del mio secondo in due pezzi, ha deciso di restituire il maltolto. Tornano i remi e torna L'armonia a bordo. Satolli e anche un po' brilli,. stivando una bottiglia di malvasia per i giorni futuri, Possiamo, abbandonaci in cuccetta sotto il cielo più stellato del Tirreno. La .Sgnuffi e praticamente ormeggiata in mare aperto eppure passiamo una delle nottate più placide della crociera.

Il mattino preme con la nebbia dell'alba. Spanno i vetri e guardo fuori. Il mare é sempre calmo, Strombolicchio si eleva come un fallo titanico dalla nebbiolina che già si disperde verso l'alto ai primi raggi del sole. Il bollettino dei naviganti é idilliaco. Si salpa per l'Italia. Prua sulla costa. Dopo lunghe consultazioni di portolani maggiori e minori, decido di puntare su Cetraro e per trovarlo far rotta su capo Bonifati.

Sono le 07-00 precise quando alzo la randa e metto in moto il diesel. Il vento é quasi inesistente. Rotta vera 37°' e rotta bussola, dopo la sapiente compensazione dell'amico Carcò, 32°'. Abbiamo davanti 55 miglia di Tirreno. Sole e mare calmo. Senza vento, tutto a motore con la randa che sbatte anche se tesata a ferro. Tanto vale ammainare. Ecco una traversata dove mi compiaccio per la scelta della barca: se avessi dovuto andare solo a vela sarei fermo come un chiodo.

Sono passate da poco le quattordici quando, dritto di prua, come in un esercitazione perfettamente riuscita si delinea Capo Bonifati con la sua torretta quadrata. Bene, capo! Stando alla carta dell'Idrografico Cetraro é a sud del capo di qualche miglio. Cos! correggo la rotta accostando per rotta bussola 40°. Si delinea chiara la linea costiera morbidamente ansata e dietro le alte montagne calabre. Comincia, binocolo sugli occhi, la solita ricerca dell'approdo. Faccio scorrere lentamente il binocolo lungo la costa: sabbia, sabbia, sabbia. Casette, casette, casette. Ombrelloni, ombrelloni, ombrelloni. Ma questo cavolo di porto dove si é cacciato?

Quelli che legiferano in materia di nautica da diporto. é noto che fanno venire ai naviganti due palle come mongolfiere: bisognerà sacrificare quelle di uno skipper per innalzarle sui moli dei mimetici porticcioli del sud? Il Portolano dice che tra Acquappesa e Intavolata c'é una cospicua macchia bianca nella quale si riconosce una scarpata di pietra a sostegno di una strada serpeggiante. Ed effettivamente mi serpeggia un dubbio inquadrando una delle tante scarpate col binocolo: così se quella é Acquappesa non é Cetraro. Ma allora Cetraro dov'é?

Dice il Portolano: cospicuo l'edificio di una colonia a sud del paese. Il poveraccio che ha scritto la frase deve essere passato da queste parti col Duce a palazzo Venezia. Allora le uniche cose cospicue erano gli edifici delle colonie. Adesso di cospicuo c'é che un mare di villette e casette sempre uguali ha stupendamente uniformato migliaia di chilometri delle nostre belle coste e bisognerà cominciare a studiare una segnaletica litoranea per chi si accosta dal mare. Bei cartelloni vistosi con frecce e scritte come: SIETE A 40°15' Lat. N e 160°02'E e poi PER 'X' 3 mg. COSTEGGIANDO VERSO NORD.

Continuo, a tenere rotta perpendicolare alla linea di costa: solo avvicinandosi di più ho speranza di capire qualcosa. Quando sono a duecento metri dalla spiaggia e già nel binocolo inquadro le gambe delle belle ragazze stese al sole mi convinco che la porti non ce ne sono. E allora accosto parallelo alla costa diretto verso nord, alla ricerca del porto che deve pur esserci vicino a Capo Bonifati. L'urlo terrorizzato della Sgnuffi mi fa rallentare. Mi affaccio e scorgo sulla mia destra, a pochi centimetri dalla barca, la macchia scura di un grande scoglio sommerso da una metrata d'acqua sì e no. La Sgnuffi continua a strillare: siamo in mezzo agli scogli! Rallento ancora e sento un sudorino freddo mentre uno scoglione coperto da mezzo metro d'acqua mi lambisce la chiglia. Sulla prua tutto l'equipaggio sta discutendo: Amarilli dice che c'è acqua, almeno due metri sugli scoglioni. La Sgnuffi e Costolo urlano che ce n'é una spanna. La tremenda verità è più dalla parte del secondo: ho portato la barca in mezzo a dei bastardi scogli sommersi. Nemmeno uno mette fuori la testaccia di pietra per avvisare del pericolo. Se ne stanno tutti proditoriamente sotto il pelo dell’acqua.

Metto la Sgnuffi alla ruota e faccio, sgombrare la prua. A velocità ridottissima guido a cenni la Sgnufli tra le macchie scure degli scogli. E’un supplizio di dieci minuti. I dieci minuti più lunghi della crociera. Il pericolo, più grande corso finora. La Sgnuffi galleggia ancora per puro caso. Se prendevo di petto uno dei primi scogli addio barca. Certo la spiaggia non era lontana e difficilmente saremmo morti, ma sarebbe certamente morta in noi la passione dello yachting. 0 no?

Fuori da quelle bastarde chiazze nere, allargo ancora un poco e punto, verso un gozzo da dove due signori stanno, pescando. Accosto e pongo la domanda ormai consueta:

- Il porto dov'é? -

Uno dei due mi indica un punto della costa. Guardo e non vedo niente. Ma lui insiste: non si vede ma c'è.  Devo far rotta verso quei grandi serbatoi che si scorgono contro il fianco della montagna: sono serbatoi di nafta e un giorno quando il porto sarà finito serviranno appunto le barche. Sulla fiducia dell'indicazione, rotta sui serbatoi. Fiducia ben riposta: insieme ai serbatoi si va delineando, una riga grigia che forse é una scogliera. Il Portolano va sempre letto, poi però ricordarsi che non è la Bibbia con la quale spesso condivide solo l'antichità delle annotazioni.

Quindi leggo di Cetraro e ammiro il pianetto del 1961 che mostra una specie di filamento sassoso scolante da un'insenatura sabbiosa tutta aperta al mare senza banchine e senza profondità.  Ma poiché Cetraro era uno degli scali previsti in inverno già mi ero procurato il piano del porto che l'Idrografico vende per 600 lire e che é completamente diverso da quello gratuito inserito nel Portolano: là si vedono due bei moli che cercano di chiudere un ampio specchio d'acqua. Però dentro c'è acqua solo per le barchette di carta dei piccoli cetraresi: m. 0,40 .... 0,60 .... 0,20... li chiamano metri ma questi sono centimetri gente! C'è solo un piccolo passaggetto con acqua più alta di un. metro e forse si potrà accostare nei primissimi metri del sottoflutto. Con grande attenzione e patema infilo il naso della Sgnuffi nel porticciolo in cui, il Portolano raccomanda fervidamente quelli che proprio si ostinano a voler entrare devono continuamente scandagliare. Io scandagliare non so, ed ecoscandagliare non posso per via di quella benedetta boa del Pignataro.

Poi vedo un ragazzo che dall'alto del molo si lancia nell'azzurro e dopo perfetta carpiata giù a capofitto nell'acqua verde chiaro.Certo venti centimetri d'acqua non possono essere a meno che quello sia uno del circo Togni abituato a tuffarsi in una botte. Puf, puf, puf! Entro nel porto. Tutti siamo spencolati fuori bordo per tentare di scorgere la sabbia traditrice che da un momento all'altro ci imprigionerà la chiglia. Dal molo alcuni cannisti ci osservano divertiti. Rallento e chiedo:

- Quanta acqua c'é qui?- Uno, risponde con un gesto vago:

 - Cinque o sei metri!

Portolano maiale! Do' un po' di gas e metto la prua verso il centro del porto, poi vado a marcia indietro ad ormeggiarmi in banchina. Gran bella comoda banchinona: sono l'unica barca in tutto il vastissimo porto. Proprio come se il porto fosse mio. Belle bitte, begli anelli per facilitare l'ormeggio e spaziosissimo il marciapiede in banchina protetto poi da un ulteriore muro in cemento. Abbiamo appena finito la manovra di attracco che una seconda barca si affaccia alla bocca del molo. E'  il due alberi in legno dipinto di nero che già abbiamo ammirato a Vulcano: il "Lupo di Mare". Compie una tranquilla manovra e viene a mettere la poppa a due metri dalla nostra. Mi avvicino in banchina per prendere la prima cima. Sul veliero, sono in due, buttano e ringraziano.

Adesso nel porto siamo in due ma il Porto continua a sembrare un'opera assurda: non c'é una casa intorno, solo scoscese ripe. Il paese di Cetraro è a dodici chilometri. Dodici chilometri di strada in salita che certamente renderanno a Cetraro i turisti nautici rari come... no, come mosche no perché qui abbondano, ma insomma rari. Enormi i serbatoi di carburante: forse qui faranno attracco le petroliere, chissà. Due distributori in banchina che ancora non funzionano ma certo funzioneranno e probabilmente saranno molto utili per gli accendini dei cannisti seduti sui moli. Due baracche sul fondo del Porto: una è una specie di pescheria e l'altra fa ombra ad un rudimentale bar frequentato dagli operai del cantiere. E poi, preziosissima, una fontanella che ha la strana particolarità di buttare acqua. Perché in tutti i porti toccati, tranne Cefalù, non mancano quasi mai le fontane, manca soltanto l'acqua.

Sontuosa cena con ricca spaghettata della Sgnufli e Simmenthalmente buona cucinata in modo originale, e solo la fantasia inesauribile del mio popputo secondo può ancora trovare modi originali per una scatoletta dopo quasi un mese di crociera. Ma il bollettino delle 23.00 e' un vero bollettino di guerra: avviso di burrasca forza 8 in arrivo dalla Sardegna. Si prevede peggioramento su tutti i Tirreni alti, bassi e medi. Il moto ondoso in rapido aumento. Colpi di vento da maestro.

Siamo a Cetraro e ci resteremo. Anche se qui c'e' solo l'acqua. Dovremo mangiare senza pane perché nessuno mai si sciropperà dodici chilometri per una pagnotta. Si prevede un soggiorno forzato poco gradevole.

Nanna profonda e indisturbata. Al mattino esco al sole delle 08.00 e guardo il grande specchio portuale deserto. Deserto? Ma guarda, quelli del Lupo di Mare non hanno avuto paura del bollettino! Hanno salpato! Effettivamente fuori dal molo il mare é placidamente calmo. Ma io ho fede nei bollettini e preparo una tranquilla colazione per quattro poi annuncio che si passerà la giornata in placidi lavori di bordo: prima cosa, si andrà alla fontanella a riempirci la pancia d'acqua.

Il secondo canticchia e inizia un bucatino, mentre io e il resto, dell'equipaggio portiamo la barca alla fontanella e cominciamo l'operazione acqua. Di tanto in tanto il mio sguardo va al mare aperto che luccica calmo sotto il sole: ma dov'é la burrasca? Comincio, ad armeggiare con le carte e il compasso: ma via, da qui a Maratea sono 31 miserabili miglia! Roba che col motore al massimo le posso fare in quattro ore e mezza! Che deve succedere in quattro ore e mezza con un mare che sembra d'olio?

Quando mi stacco dalla fontana per lasciare il posto ad una paranzella che è arrivata nel frattempo, ho gia deciso e invece di tornare in banchina volgo la prua verso il. mare aperto. La Sgnuffi resta. con la bocca aperta e la vaschetta col bucatino in mano. Ma poiché io sono il. secondo dopo dio e lei è soltanto il secondo dopo di me non può fare altro che chiudere la bocca e posare la vaschetta rimandando il bucatino.

Per due ore la prua della Sgnuffi fende un mare plumbeo e animato da una onda lunga dall'apparenza quasi vischiosa. Siamo in vista dell'isola di Dino quando un brivido sembra scuotere la barca. Un lungo brivido, strano che certamente ha provocato il vento eppure non mi 6 sembrata una raffica. Al largo intravedo la sagoma ormai famigliare del Lupo di Mare e vedo che scioglie tutte le vele allargando ancora la rotta verso ovest. Lassù ci devono essere veri marinai per una simile manovra con un avviso di forza otto in arrivo!

Io dirigo sempre più teso verso Maratea. L'onda lunga e vischiosa diventa dura di colpo e si innalza. L'anemometro comincia ad oscillare sul tre-quattro. Poi la prima scoppola che lo porta a sei. E torna indietro ma si stabilizza a cinque. E’ vento fresco di NW, maestrale in piena regola. Me lo immagino sbucare fischiando sul golfo del Leone, investire le martoriate coste di ponente di Corsica e Sardegna e poi con un bel fetch piombare addosso alla povera inesperta Sgnuffi che arranca disperata verso Maratea.

Spranghiamo gli oblò,chiudiamo anche la porta dopo aver tesato la randa che porta con forza schiacciando la Sgnuffi contro l'onda sottovento e impedendole di ballare troppo. Ma il mare ci arriva letteralmente addosso: nel giro di quindici minuti siamo in mezzo alla burrasca e al ribollire di schiuma. Al traverso, di Janni il ballo, comincia a mettere in moto il pentolame. Il secondo e l'equipaggio sopravvivono aggrappati alle cuccette del quadrato.

Come al solito strabuzzo gli occhi nel disperato tentativo di individuare il porto di Maratea. L'anemometro si é inchiodato sul sei e finché prendo il mare al mascone si tonfa ma non mi sento in pericolo, però so dal pianetto del porto di Maratea che dovrò prendere le onde al traverso per entrare. La lettura del Portolano consiglia di stare a 50 metri dal fanale di sopraflutto. Le montagne che sovrastano Maratea sono coperte di nubi e così quel bel cristone che so torreggiare su una vetta non é visibile. Gli spruzzi e il sale rendono opaco il vetro e il tergicristallo disegna belle incisioni di sale. Testa fuori allora. Ma per vedere bene mi servono gli occhiali e gli occhiali fanno subito la fine del vetro e senza la possibilità del tergicristallo. Adopero gli occhi acuti del secondo e viene avvistato un muraglione e delle case. Il muraglione sembra chiudersi contro la ripida scogliera. Eppure io so dal pianetto che la bocca del porto è rivolta a sud, cioè da questa parte. Bisogna avvicinarsi. Bisogna accostare! Le ondate che ci investono sbattono poi contro la scogliera con tuoni di cannonate e pizzi di schiuma che si innalzano per una decina di metri. Bisogna aver fede nei pianetti! La bocca del porto deve essere là, follemente là vicinissima alla scogliera!

Rallento e passo la ruota al secondo: voglio ammainare la randa. Mollo la drizza e vien giù tutto: il boma batte sulla tuga rumorosamente. Il mantiglio si è sfilato e ha mollato. Acchiappo il boma e imbrago la randa disperatamente mentre il boma mi porta a spasso con violenza sulla tuga. La cima del mantiglio mostra l'ignobile causa del guasto: non era stata fatta l'impiombatura! Il mantiglio passava dall'anello in testa del boma e poi era ripiegato su. se stesso e soltanto innastrato!!! Un bel nastro rosso che io credevo celasse una buona impiombatura al punto di averci affidato la pelle della povera Amarilli quando l'ho tirata su fino alle crocette!

Due brividi mi corrono lungo la schiena: uno di paura per quello che poteva succedere (per quanto avessi anche attaccato una drizza di sicurezza) e uno di rabbia contro il bastardo che ha sistemato in quel modo il mantiglio. Se fosse successa una disgrazia giuro che l'avrei trovato e gli avrei spezzato la schiena a calci.

Acchiappo la cima del mantiglio e la passo di nuovo nel boma, lego con un buon nodo da ancorotto rimandando l'impiombatura a tempi migliori. La scogliera e' paurosamente vicina. Urlo alla Sgnuffi di allargare. Il mare ci investe con più rabbia per il fondale meno profondo. Piombo in quadrato e frantumo l'unghia dell'alluce destro contro il consueto maledetto bordo, ma non ho tempo per sentire quel dolorino: prua al mare, gas! Si allarga e intanto vedo la bocca del porticciolo: boccuccia, budello, trappola. Sarà un fatto psicologico ma quel pertugio quasi radente la scogliera bombardata dai cavalloni mi sembra accuratamente studiato per provocare naufragi.

Per un attimo considero l'idea di procedere. Mi han detto che a Sapri han fatto un porto che ancora non é segnato sul Portolano ma che è sicuro con ogni tempo. Ma là, oltre il pertugio, c'e' una selva di alberi di fortunati skipper che certo staranno,al bar a succhiarsi un drink gelato con la cannuccia. Anch'io voglio stendermi al loro fianco e commentare la drammaticità di questo momento. Però il momento dura ancora. Il secondo, legge il Portolano, e avverte pallido: 

- Dice di tenersi a cinquanta metri dal fanale del molo. -

Cinquanta metri! Ma dove sono, cinquanta metri? Ma se saranno dieci sporchi maledetti metri! Non di più mi sembra largo lo sfintere del porto di Maratea. Decido e avverto stentoreo tutto l'equipaggio:

- Tenetevi gente che si entraaaaa! -

Prua verso lo sfintere. Splasssssc! La prima ondata al traverso ci corica verso terra ma subito la Sgnuffi schizza sulla chiglia offesa e il riflusso la sbatacchia a sdraiarsi verso il mare. Sono al massimo dei giri. La barca sembra ancorata, presa dal flusso e dal riflusso delle ondate, poi schizza in avanti. Buuuum! Ancora un'ondata proprio in pieno: oddio! La punta dell'albero tocca il moletto striminzito che parte dalla radice delle scogliera a stringere ancora di più lo sfintere. Non lo tocca, é solo una specie di saluto, cerimonioso. E poiché il mio albero é gentile con tutti subito saluta la punta del molo di sopraflutto con eguale cerimonia. Così, dopo avere sfiorato le testate dei due moli, la Sgnuffi schizza nelle acque appena ondulate del porto. Metto in folle, stressato. L'equipaggio sciama in coperta. Butta fuori i parabordi, ammira il porticciolo, col grande piazzale e le casette vezzose ancora non finite. Fondali abbondanti e molte barche all'ormeggio, per lo più motoscafi e motoryacht. Dalla banchina ragazzi con maglia recante il nome di Maratea ci fanno cenni di avvicinamento. Giù l'ancora e manovra. Poppa in banchina. Ma la banchina é alta sul livello del mare e ornata da bittoni incredibilmente giganteschi. Su uno di essi siedono due grasse signore coi loro figli. Sembrano bitte per la Leonardo. Preferisco ormeggiarmi agli anelli infissi in banchina e poi col canotto dirigo verso l'unica scala che incide l'alto bordo di pietra per permettere ai cristiani di salire sul piazzale. Un bel piazzale e in fondo un bar discreto e un negozio che vende tutto, fuorché la frutta. Purtroppo il paese è lontano e irraggiungibile a stanche gambe piene di mare e ad allucioni gonfi di sbatacchiamenti. Ma il drink con la cannuccia e le gambe stese sotto il tavolo, quello non me lo leva nessuno.

Ed è appunto, mentre sto sorbendo che vedo la sagoma snella del Lupo di Mare pararsi davanti allo sfintere schiumoso del porto. Mi gusto l'entrata del veliero: anche lui saluta le due testate dei moli prima di trovarsi in acque più riparate. Il veliero viene ad ormeggiarsi proprio accanto alla Sgnuffi. Mi avvicino sorridendo: mi sembra quasi che siamo gli unici italiani che navighino per il basso Tirreno in questo luglio. Anche i due uomini del veliero mi salutano con un cenno. 

- Si fa la stessa strada, eh? - mi dicono.

- Stamattina ho visto che voi eravate partiti nonostante il bollettino e mi son fatto coraggio partendo anch'io! - I due si guardano con muta e reciproca accusa:

 - Te l'avevo detto di sentire il bollettino! - dice uno

- Non I'avevate sentito!? Porca miseria! Aveva detto forza otto in arrivo! -

I due sgranano gli occhi: altro che bel vento! Perché quando han sentito le prime raffiche si son detti: bel vento! E hanno, spiegato le vele. Una veleggiata favolosa che per poco non spezzava tutto. Adesso si ride. Loro non sapevano, e io che sapevo mi son messo in mare incoraggiato dalla loro ignoranza. Si ride per poco. Il vento continua a rinforzare: é adesso un lungo, fischio continuo che cresce di tono nelle raffiche. La scogliera subisce un bombardamento continuo: le onde esplodono nelle caverne scavate dal mare facendo tremare le montagne.

Non si ride più perché tutti stiamo guardando quanto va succedendo: le ondate che si spezzano con ferocia contro la ripida scogliera a strapiombo vengono riflesse con gran forza dentro il porto. Ad ogni botto, un'onda riflessa più alta. La nostre bar- che cominciano a ballare. Tesano le catene delle ancore come cavalli imbizzarriti. Il riflusso spinge la poppa della Sgnuffi a sfiorare l'alta banchina di pietra. Costantino urla il pericolo. Io recupero della catena e mollo due metri di cima a poppa. Ma l'ondata successiva ignora le mie misure e riporta la poppa a sfiorare la pietra. Recupero, altra catena e mollo nuova cima.

Il mare ingrossa ancora. Simile ad un sottile sottomarino si infila ancora nel porto una barca a vela. E’un barca vecchia strettissima e lunga con grandi slanci a prua e a poppa. Entra. Traversandosi, sdraiandosi, sommergendosi, ma entra. A bordo c'é una giovane coppia di sposi: sono stati sradicati dalla burrasca dall'ancoraggio della Molpa, presso Palinuro. Sono stanchi ma felici di essere in un porto che sembra sicurissimo chiuso com'é da ogni lato. Ormeggiano e scendono a terra per ristorarsi. Mi tocca saltare come un grillo sulla barca che danza in modo folle nonostante le cime che cercano di tenerla. Non mi ricordo il nome della barca ma viene subito soprannominata "la ballerina". Tento di tesare il cavo dell'ancora, ma non viene in forza. Tira, tira, viene su l'ancora! Anche Filippo, uno dei due skipper del Lupo di Mare, viene in soccorso. La Sgnuffi la aggancia col mezzo marinaio per evitare che ci sbatta contro, un ragazzo col canotto tenta di riportare l'ancora. al centro del porto.

Il ballo di risacca si fa sempre più pauroso. Arrivano macchinate di skipper e di marinai a spostare i motoryacht verso il centro, del porto allontanandoli dalla banchina. Ma il centro del porto come tutti i centri é puntiforme e non potrà mai ospitarci tutti. I bravi ragazzi in maglietta osservano allegramente che se il mare aumenta ancora bisognerà uscire per salvare le barche. Uscire!?  Passare attraverso quell'intestino retto, quello sfintere ribollente, sfiorare le cannonate e poi trovarsi in quel caos di acqua? Povera Sgnuffi, il gallo non ha cantato per la terza volta ma io piuttosto ti saluto e prendo il treno.

Il ballo aumenta. La Sgnuffi va avanti e indietro e Lupo di Mare indietro e avanti. Le crocette si sfiorano pericolosamente. Pinne e maschera e muta. L'acqua del porto è torbida di sabbia ma non sporca. Seguendo la catena arrivo alla mia imitazione di Danforth posata sulla sabbia del fondo. La sollevo e cerco di portarla oltre alcuni macigni che stanno tre metri più in Ià. Fatica da Sisifo! Faccio mollare un po' di catena mentre Filippo dalla banchina puntella la poppa col mezzo marinaio per evitare che sbatta. Porto la catena sul fondo con sommozzate continue e infine riesco a spostare la mia imitazione di Danforth rifilatami come autentica.

E' ancora Filippo, robustissimo, che viene in mio aiuto. Agguanta i remi e fa forza: lo scalmo di plastica Pirelli si spezza come plastica qualsiasi della peggior marca. Il canotto defluisce sull'ondata di risacca. Provo col motorino: quattro cavalli non bastano per vincere la risaccuccia del porto, mentre insulti atroci si levano al cielo all'indirizzo dello sconosciuto lazzarone che ha progettato il porto trappola.

Siamo Ià dentro e non possiamo starci, non possiamo andarcene! Arrivo a buttare la CQR usando un canotto rigido. Adesso sono afforcato con due ancore ad angolo acuto ma il mare ignora tutto e la Sgnuffi continua ad essere portata indietro di metri e metri fino alla banchina per poi ripartire con violenza incredibile richiamata dalla grande tensione della catena e del cavo, piombato. Come elastici di una fionda si tendono schioccando le ci- me di poppa. Scendere in banchina è adesso un gioco di alta abilità: usare il canotto é pericoloso perché le barche fanno avanti e indietro come giganteschi pistoni che potrebbero spiaccicare canotto e malcapitato contro i massi squadrati della severa banchina. E allora ci si mette all'estrema poppa e si attende: quando l'onda innalza la poppa e la spinge verso la banchina si coglie l'attimo culminante del moto per balzare a terra. Una frazione di secondo di ritardo e si è perduti.

Cala la notte e cala una pioggia della madonna. Ma lo skipper non può stare dentro:l'avanti e indietro della barca è davvero pazzesco. Le cime schioccano paurosamente. Ed infine il primo schianto: una cima di nylon da diciotto millimetri che aveva sollevato ironia al Circeo per la sua esagera

Dal piazzale macchine accendono i fari: altre ne arrivano. Vengono a godersi lo spettacolo di quei pazzi che resistono su quelle barche sollevate, inclinate, spinte avanti e indietro, che sbattono, urtano, si sdraiano, si impennano in una sarabanda infernale.

Dal Lupo di Mare mi passano una cima: ci leghiamo di prua e poi io ne passo un capo alla "ballerina" che si leghi anche lei. Forse ondeggiando in massa... Crash! Le crocette! La mia crocetta ha incocciato in quella di maestra di Lupo di Mare e gli ha divelto il paravele. Ci stringiamo di più, cercando di incastrare la mia unica crocetta equidistante dalle due di Lupo di Mare.

Passa la notte a cambiar cime, a controllare, a sperare. Viene il giorno ma il ballo continua. Continua il maestrale. Solo la pioggia dà requie. Pallidi, con occhi cerchiati e stomaco contratto, facciamo tutti il salto da poppa atterrando più o meno bene in banchina abbracciati al bittone triposto.

Da lì osserviamo il gran ballo, della Sgnuffi: pazzesco pensare che siamo stati là sopra per tutta la notte! La prua a tratti si alza verso il cielo, resta un attimo, sospesa e poi schianta giù mentre la poppa si inclina a quarantacinque gradi innalzandosi di un paio di metri prima di schiantare con movimento avvitante dal lato opposto. Il colpo d'occhio sulle barche é grandioso: ognuna ha un suo movimento, un suo passo di ballo. Non sembrano affatto ricevere tutte la stessa onda. La "ballerina"ritma un fantastico shake scodettando venti volte al minuto con grazia e leggerezza. Lupo di Mare danza un potente tango figurato invertendo con grazia e possanza la sua marcia tra ancora e banchina, banchina e ancora.

Un motoryacht di dieci metri sta ritmando invece un vorticoso walzer al centro del porto con furiosi giri concentrici e doppi passi. Sambe e rumbe sono saltellati senza respiro dalle barche più piccole, mentre una vecchia paranza appesantita d'acqua si inchina al ritmo di uno spirou. Mentre io, il secondo e Amarilli decidiamo per le sedie del bar, Costantino si arma di canna e lenza e va a torturare un paio di signori che ha scorto sul molo. Sto finendo il mio cappuccino quando un grido di vittoria risuona argentino sovrastando acuto il rombo del mare:

- L'ho preso! L'ho preso! L'ho preso! - Costantino corre attraverso il piazzale con la canna e la lenza in pugno: all'amo guizza qualcosa lungo una dozzina di centimetri.- L'ho preso! Papà! Papà! Ho pescato! Un un cefalo! Quel signore mi ha detto che è un cefalo! L'ho preso là, vicino al pescberegio! -

Mettersi adesso a spiegargli che si dice peschereccio sarebbe ignorare tutto della psicologia infantile. Ci toccherà tornare a bordo, perché Costantino vuole assolutamente pranzare col "suo" cefalo al sugo.

Alberto, l'altro skipper del Lupo di Mare, mi invita a una pescata per distendere i nervi. Io lo capisco: andare sott'acqua, in un mondo di silenzio e di immobilità, lasciare per un poco la follia che c'è sopra è davvero come un sonno ristoratore.

Pinneggiamo verso la testata del molo di sopraflutto. Arriviamo nella zona del ribollimento. Schiuma fino a cinque metri di profondità. Forse qualche cefalo, ma la forza delle ondate è troppa e bisogna impegnarsi completamente per non farsi scagliare sui massi della base del molo. Mi sposto qualche metro al ridosso, e mi immergo. A dieci metri c'è una strana conformazione, come un portale inca. Due enormi massi verticali reggono un lastrone orizzontale alla Stonehenge. Oltre la gran porta, un buio misterioso. Mi affaccio: qualcosa di scuro, di enorme mi volteggia sul vetro della maschera spinneggiandomi sul naso. La cernia più grossa della mia vita! Non mi sono neanche ricordato di avere il fucile! Riemergo eccitato. Chiamo Alberto e torniamo sotto in due. Varchiamo il portale: dentro ci sono quattro corridoi. che si perdono nel buio. Li esploriamo fino alla prima curva uno dopo l'altro: il cernione deve essere nel suo boudoir più interno. Poi a terra ci diranno che é da tempo che il cernione abita quella tana, ma nessuno riesce a prenderla.

Il folle ballo, di Maratea dura tre giorni e tre notti. Spezzo due cime a poppa e ne riduco una terza al lumicino. Sposto la finta Danforth quattro volte spinneggiando come un pazzo. Sfioro la banchina con la poppa infinite volte in un incubo ossessivo. Nessuno dorme per tre notti. Alla terza sfondiamo la porta di una delle casette ancora non terminate per andare a mettere dei materassini a terra e far dormire almeno i bambini: ma Amarilli e Costantino hanno paura a starci da soli, il secondo sostiene che posso avere bisogno di lei per una manovra improvvisa e io non posso certo lasciare la barca: vorrebbe dire perderla.

Quando all'alba del terzo giorno il vento cala, quelli del Lupo di Mare decidono di partire. Fuori il mare e' ancora grosso ma andrà certo calando. lo guardo le ondate che continuano a frangersi con clangori sotterranei contro le rocce a francamente non me la sento.

Lupo di Mare leva le ancore e affronta lo sfintere. Sballottolato, coperto di schiuma, passa. Corro sul molo di sopraflutto per vederlo in mare. Cavalca le grandi onde con la leggerezza di un puro sangue. Mi viene voglia di andare: mi han detto che a Marina di Camerota c'è un porto serio. Abbiamo un mezzo appuntamento Ia. La mia paura é il pozzettone: se il mio pozzettone si riempie, poi chi lo vuota? Certo, i buchi perché è autovuotante, se Nettuno gli dà un quarto d'ora di tempo tra un'ondata e l'altra. Avevo chiesto all'ingegnere di allargare i buchi, dovevo insistere.

Dopo un paio d'ore passate a rimirare le frange schiumose che si arrampicano su per Ia parete nel disperato desiderio di constatare come siano adesso meno alte, annuncio all'equipaggio abbrutito, Ia decisione di partire. Il desiderio di abbandonare il porto trappola supera Ia paura del mare grosso. Nessuno obbietta. Si salpano le due ancore e metto motore dirigendo, baldanzosamente verso lo sfintere.

Uscire é più facile che entrare. Si tratta certamente di una questione di ottica: dallo stretto andare nel largo, sembra più facile che dal largo infilarsi nello stretto. I salamelecchi dell'albero ai due moli mi spaventano meno perché adesso so che non tocco e che mi raddrizzo. Eccoci di nuovo in mare. Posso far rotta sui cavalloni e anche Ia Sgnufli si comporta bene cavalcandoli con disinvoltura. Il vento adesso è appena tre e tiro su Ia randa. E’ giovedì 26 luglio.

Il VHF tace, Napoli Radio é ancora lontana. Il moto ondoso sventa a tratti le vele che poi si gonfiano di colpo di vento con sonori flop. Sono seduto in pozzetto alla scotta della randa e sto addentando un super panino amorevolmente composto dal secondo quando al flop della sventata mi ritr vo un bozzello praticamente fra i denti: tutto l'accrocco che demoltiplica Ia scotta della randa si é staccato dal boma cadendomi sul panino proprio mentre me lo sto infilando in bocca. Il bel panino viene sbriciolato dalla botta mentre io saltello per il vasto pozzetto succhiandomi le unghie crudelmente pestate.

La Sgnuffi strapuggia, stramba e straorza. E boma va da una sartia a quella opposta. Lo acchiappo e divento scotta di randa vivente: solo adesso mi rendo conto della vera forza che un venticello qualunque esercita su una randina come Ia mia di quindici metri quadri! Il boma mi porta a spassoper il pozzetto, devo puntare i piedi a murata per reggere la spinta. Urlo:

- Datemi la scotta!- Costantino mi guarda interdetto: 

- Che cosa scotta?-

- La scotta! la cima! Quella cordaccia lì-!

La Sgnuffi rolla col mare al traverso. Amarilli rotola in fondo al pozzetto con il bozzello in pugno. Il secondo è abbrancato alla ruota nel tentativo di tenere la rotta.

- Prua al ventooo! - strillo mentre le braccia mi si allungano nel disperato sforzo di reggere il boma.

Per caso o per scienza la Sgnuffi mette la prua al vento e la forza del vento sulla randa cala. Posso reggere il boma con una mano e acchiappare il bozzello della scotta della randa: solito guaio! Ancora una volta é saltato il pernetto del grillo! Ingegnere, ingegnere quante volte il tuo nome è stato ripetuto invano su quel mare che si va allungando al largo di Maratea! Imbriglio il boma alla meglio con tre giri di scotta e poi mi precipito a cercare un grillo di ricambio. Sfioro con l'alluce il bordo d'entrata, abbranco la cassetta dei ricambi, la spalanco, acchiappo uno dei bei grilloni da 1.500 lire che avevo comprato a suo tempo e piombo a sostituire quello che ha ceduto. Pochi minuti dopo, siamo di nuovo in rotta. Colto da atroce sospetto vado a prua ed esamino il grillo del fiocco: stessa solfa. Il pernetto è già discretamente storto e pronto a saltare da un momento all'altro. Vorrei sostituirlo subito ma lo stroppo ha un occhiello troppo piccolo per un grillo da 1.500 lire, è proprio dimensionato per quelli da cinquecento lire. Faccio un conto: i grilli così sul Multi sono quattro, ce to che il cantiere ha fatto un bel risparmio! Pazienza: nessuno e' perfetto!

Venendo da sud l'imbocco del porto di Marina di Camerota è ben visibile e accosto senza problemi. A pochi metri .dal molo di sopraflutto spunta dall'acqua una curiosa sovrastruttura: chissà, forse un traliccio per reggere un fanale che non c'è, o i resti di una boa che segnala un bassofondo. Giro al largo per prudenza ed entro nell'ampio e tranquillo bacino portuale. L'ampio giro di banchina è gremito di natanti. Il sud deserto é gia finito, stiamo rientrando nei depositi perenni su tre file. Forse bisognerebbe istituire una specie di parcheggio orario: quando il mare è buono, sosta permessa quattro ore, non di più. Cullandomi in stupide utopie accosto all'ultima barca del-a fila che e' il nero Lupo di Mare. Già Filippo mi fa ampi segni per guidarmi proprio al fianco della sua barca. Però la banchina finisce col Lupo di Mare, il molo continua ma non é più banchinato e c'è pericolo di sbattere contro i grossi massi buttati in disordine alla sua radice. Con oculata manovra riesco ad accostare. La poppa mi resta a quattro metri dal molo ma col canotto é facile e rapido raggiungere la banchina. Le cime di poppa le vado a legare tra le pietre, cercando di ignorare gli strati puzzolenti da letamaio accumulati tra i massi. A Marina di Camerota han fatto un bel porto e adesso devono fare dei bei cittadini insegnando loro che i moli portuali no-n servono assolutamente per lo scarico delle immondizie. Ho appena terminato l'operazione ormeggio che entra in porto un peschereccio gigante e, bello tranquillo, manovra mettendo la poppa in direzione dei due metri di spazio che ho lasciato fra la Sgnuffi e Lupo di Mare. All'estremità della banchina si sta radunando una piccola folla di donne e bambini che salutano i marinai del peschereccione. Qualcuno mi chiede di fare spazio perché dal peschereccio devono scaricare in banchina. Che fare? Un volenteroso già zompetta tra le immondizie per liberare le mie cime di poppa e spostarmele di pochi metri. Mi tocca salpare l'ancora e spostarmi tirato da poppa con le cime da ormeggio. La poppona del peschereccio super si infila agevolmente nella decina di metri che adesso mi separano da Lupo di Mare dalla cui coperta Filippo e Alberto mi fanno segni di rassegnazione.

Sto per mettere in  acqua il canotto quando avverto un colpetto a prua: un barchino mezzo marcio qualcosa che un tempo fu una barchetta a vela, sbataccbia in fiancata, ormeggiato ad un gavitellino. Vado a terra con una cimetta, saltello sulle buste colme di rifiuto e tento di tirare un po' più in là  il barchino. Ma non c'é verso. E' ben ormeggiato al gavitello che tende sempre a tornare sotto la mia prua. Torno a bordo e studio un accrocco col mezzo marinalo: aggancio il barchino e lo spingo via, poi fisso il piede del mezzo marinaio alla rete che ho fra i candelieri. La rete è fitta ma il piede del mezzo marinaio tende a sfondare. Lo avvolgo con buste di nylon e alla fine tiene. Sto osservando con compiacimento la mia geniale soluzione quando un cupo suono di sirena mi fa alzare la testa: un secondo super peschereccio sta tranquillamente manovrando per infilare la poppa nei due metri di spazio rimasti fra ]a Sgnuffi e il primo peschereccio rompiglione.

- Eh no! Qua un po' alla volta mi sbattono fuori dal Porto!-

Il nuovo gigante accosta e da bordo mi urlano di non muovermi. Io non mi muovo ma la mole in avvicinamento è tragica.Dal primo peschereccio, già ormeggiato viene passato al nuovo venuto un cavo che ha il diametro d'un cosciotto della Sgnuffi bionda e viene dato volta sull'argano di poppa. Adesso il secondo gigante avanza macchine al minimo strusciando sui pneumatici da camion che fungono da parabordi del primo peschereccio. Noi siamo tutti a prua della Sgnuffi armati di parabordi ridicoli ometti contro il mostro. Un urlo: il cavo è uscito dall'argano. Un attimo di panico. Il peschereccio allarga verso di noi, ci sfiora mentre noi puntiamo le nostre aste disperati. Bestemmie feroci dell'equipaggio dei due pescherecci e il cavo viene rimesso in tensione appena in tempo. Un centimetro per volta l'immane mostro si allontana di nuovo ma resta alla fine a Poco piu' di mezzo metro da noi. Ci sovrasterà per tutta ]a notte e le parole rassicuranti dei marinai rassicurano poco.  Seratina mondana con passeggio sul lungomare e coppe di gelato offerteci dagli amici del Lupo di Mare.

Il giorno dopo si fa vela per San Marco di Castellabate. Il tempo si è di nuovo ingrugnato e così! passiamo davanti al bel Palinuro con un mare in crescendo e non possiamo, fermarci come previsto per visitare le sue famose grotte.

Sulle secche di Punta Licosa soffia a forza sei e il mare schiumeggia notevolmente. Si balla ma non c'è problema perché ormai siamo abituatissimi e abbiamo trovato i posti dove si devono incastrare gli oggetti per non ritrovarseli in testa ad ogni scrollone: nel lavello si incastrano bene le bottiglie e i termos, occorrerà costruire qualche violino per le bicchieruole che adesso suonano le une sulle altre (i violini non servono per accordare il suono ma per tenerle ferme, infatti si chiamano misteriosamente così quella specie di piccole casseforme in legno per piatti e bicchieri). Sulla cuccetta a pullman si possono lasciare squadrette e compasso e matite. Invece I'Hitachi e la bussola di rilevamentoè6 bene metterli a pagliolo sotto il tavolo pieghevole. Ognuno di questi oggetti (e tanti altri) han trovato il loro posto a forza di farci bernoccoli e lividi ogni volta che si è mosso il mare. Adesso che la crociera volge al termine saremmo quasi pronti per cominciarla. 

Doppio Punta Licosa bene al largo per essere sicuro di andare franco dalle secche e poi accosto, per entrare nel golfo di Castellabate. Il mare mi becca quasi al traverso perfetto e diventa difficile restare in piedi nella pancia ondeggiante della Sgnuffi. Io sto attaccato alla ruota del timone e al massimo mi spello le nocche delle dita sul famoso, spigolo, del mobiletto del cruscotto, però mi spello gli occhi alla ricerca affannosa di questo San Marco di Castellabate. Il giro della costa del golfo si presenta perfetto senza segno veruno di opera portuale. Due agglomerati di case: quale sarà San Marco e quale Santa Maria? Comincio a tirar giù anche gli altri santi per far mazzo. In un ritaglio di fotografia del porto pubblicata sulle pagine di Quattro Ruote Mare vedo che dietro al porto ci sono delle arcate. I cavalloni ci spingono verso terra senza pietà e sento che spesso il timone non governa quand'è preso nel cavo dell'onda.

- Sgnuffi! Qual'è il porco porto? Questo a destra o quello a sinistra!? - grido al secondo che aguzza la vista: equamente sistemate due massicciate si defilano rasenti alla spiaggia sia presso un abitato che presso l'altro. La Sgnuffi indica a sinistra:

- Secondo me il Porto è là! - E questo scioglie il dilemma. Lo scioglie nel senso che dirigo sicuro dalla parte opposta. Mica per spirito di contraddizione ma perché ogni skipper deve sfruttare al massimo le qualità del suo equipaggio e io so bene che il mio secondo unisce ad una acuta vista un incredibile senso dell'orientamento. Incredibile nel senso che sbarella di centottanta gradi precisi. Basta farle fare il giro del palazzo in cui abitiamo da una una dozzina d'anni per confonderla totalmente. (Fu infatti con un trucco, del genere che le feci infilare ignara il Inio appartamento da scapolo ai bei tempi ... ).

Infatti una veletta, si dibatte fra le ondate e poi schizza dietro alla massicciata di dritta: ]a bocca del Porto diabolicamente mimetizzata come sempre, Qua ogni porto è "cosa nostra" e lo trova soltanto chi lo ha costruito, i suoi parenti di primo grado, una signora che si fa di nascosto dal marito e un cefalo da fogna che si lascia guidare dal suo istinto di merda. Queste ed altre vieppiù colorite frasi mi escono dalle labbra mentre mi infilo nella sdentata bocca di San Marco. Lupo di Mare dondola già alla fonda con la poppetta affilata in banchina. Anche qui Filippo e Alberto mi guidano nella manovra e metto la poppa tra una dozzina di maleodoranti cassette di pesce marcio, tre taniche sfondate, una partita di preservativi galleggianti, una ciabatta di quella signora che si fa il costruttore e una partita di bucce di anguria scavate a barchetta dai dentoni dei sanmarchettari.  Colorito mare italiano sul quale mi piace innalzare un cartello con la scritta: PORCO TURISTICO, ma purtroppo nel mare di altre cartacce non si nota neppure. Pazienti pescatori buttano le lenze nei varchi che riescono a farsi prendendo a calci le cassette galleggianti.

Però c'e' acqua. Un rubinetto in banchina con I'acqua. Corro con la manichetta (che non é quella della giacchetta ma il tubo di plastica) per fare il pieno e lo attacco felice al rubinetto. Ma qui il sindaco, o I'assessore o chi cavolo se lo frega di qualcuno, ha avuto una gran pensata: sul rubinetto c'é uno di quei pulsantini: se premi viene acqua. Se molli non viene più. Poiché il rubinetto ha un diametro di un centimetro per riempire i miei seicento litri di cassoni sembra che dovrò passare tre ore e tre quarti a premere il bottone, munito fra I'altro di una molla di contropressione davvero energica. Intorno, i resti di cento marchingegni escogitati dagli skipper per bloccare l'infernale rubinetto in posizione di erogazione: fili di ferro arrugginiti, pezzetti di canna, un mare di minerva spezzati, chiodi, elastici, un preservativo (non é colpa mia se qui li usano più della pillola!) un bossolo di pistola (forse qualcuno nervosetto gli ha sparato dentro) spaghi spaghini e spaghetti, bastoni, forcine, ami contorti e teste d'acciughe. Mancano solo le teste di minchia dei rubinettari locali.

E’ Filippo che riesce a bloccare il pulsante dopo una mia mezza ora di inutili tentativi. Lo blocca con fil di ferro e due pezzi di legno: uno che preme sul pulsante e un altro che girando sul fil di ferro ne moltiplica la pressione. Viva Filippo! Per premio gli dò I'altro capo della manichetta per una bella doccia.

Ahi, ahi! Saltella il povero Filippo sotto il getto dell'acqua che gli arrossa la pelle. Butta la manichetta che investe con uno schizzo Amarilli che strilla e zompetta: ahi! Ahi! . La Sgnuffi sbuca da sotto coperta e agguanta la manichetta:

- Oh finalmente posso farmi una doccia senza sentire brontolare il Pagnucco (io N.d.A.)! - e si gira I'acqua addosso sbarrando gli occhi e lanciando un ululato. Mi avvicino e tocco l'acqua: è bollente! Per un attimo resto perplesso: ecco perché quel pulsante! E io che li avevo insultati! Qui distribuiscono gratis acqua calda e naturalmente si preoccupano che non vada sprecata! Poi il mio sguardo va oltre il rubinetto sui duecento metri di tubo di ferro che corre al sole prima di sparire nella sabbia rovente davanti all'albergo dalle arcate. Acqua calda gratis sì, ma elargita dal dio sole!

- Chi si vuole fare la doccia? Chi si vuole fare una bella doccia calda? - passo con la manichetta di barca in barca perché l'acqua bollente non la posso mettere nei serbatoi e spero che scorrendo si rinfreschi. Dai pescherecci sudati e unti marinai mi guardano senza alcun interesse addentando angurie e scaraventando le bucce in acqua. Dopo un'ora l'acqua continua a scorrere calda. Bisognerà aspettare la notte per fare il pieno.

Cena a bordo dopo inutili tentativi di telefonare al Circeo. Inutili con la radio, inutili coi telefoni a gettoni che ingoiano tutto e non restituiscono più niente.

A bordo del Lupo di Mare ci sono visite. Filippo e Alberto qui sono di casa, queste sono le loro acque abituali. Mi presentano così il "più grande pescatore del mondo", Petracchione conosciuto anche ai CB come Radio Grillo. Petracchione pesca le cernie da un quintale calando sagole da un centimetro con raffi al posto degli ami innescati con polpi interi. Per la ferrata si mette la sagola su una spalla e si piega con violenza in avanti, poi tira su con l'incredibile forza delle sue braccia. Subito dopo la guerra venivano a spiarlo da centinaia di chilometri di distanza, ma Petracchione le sue secche le conservava segrete. Ancora si racconta di una epica sfida tra Petracchione e alcuni magnati del big game fishing presentatisi come i più randi pescatori del mondo. Scommesse da diecimila lire a pesce erano allora pazzesche perché c'erano i pesci ma non le diecimila lire. Adesso é chiaramente tutto all'inverso e le diecimila servono per comprare le esche ma non ci sono più i pesci.

In ogni modo Petracchione contro tutti: porta la barca sulle sue secche e tutti buttano le lenze. I magnati hanno lenze di monofilo di nylon: roba allora quasi sconosciuta e di gran lusso. Petracchione butta canapi ritorti, ma dopo trenta secondi si piega a pagliolo per ferrare. Tira e commenta: questa é una cernia piccola, quaranta chili non ci arriva... I magnati ridono finché il testone immenso della cernia non affiora e Petracchione la sbatte a pagliolo. Adesso, la sfida, va a farsi benedire davanti allo stupore, alla gioia di quei pescatori che mai avevano tirato su e visto tirar su roba del genere. Petracchione acclamato re delta pesca accetta di mostrare il sistema alla moglie di uno dei magnati e anche questa dopo un po' sente la toccata e Petraccbione acchiappa il canapo e, con uno'strattone violento, ferra. Poi ripassa la lenza alla donna affinché recuperi il pesce. La donna tira con tutte le sue forze. Niente. Tira il marito e dice che l'amo si è impigliato in una roccia. Tira Petracchione e senza sforzo sale il pescione. Robetta da trenta chili. Insomma la sera i poveracci tornano in porto abbarbicati sul flying perché il pozzetto e' colmo di cernioni. Il peso massimo é di centoventi chili.

Petracchione sogghigna: qualcosa può ancora tirar su anche oggi se vuole, certo la pacchia di allora é finita per sempre. E sospirando acchiappa un pezzo di monofilo di nylon da cento e lo strappa con un colpo delle mani. Strabuzzo gli occhi: per quel poco di traina che ho fatto so bene la resistenza di un monofilo simile! Filippo ride vedendo lo stupore e mi narra la storia della messa in crisi di una fabbrica di nylon il giorno in cui portarono nei suoi magazzini Petracchione. La richiesta e': un nvlon di quello buono, resistente. Il direttore mostra del buon monofilo da trenta. Petracchione lo acchiappa e dà uno strappo. Il direttore sorride: non vorrà mica rompere il nylon con le mani? Quello gli sega la pelle! Il suo monofilo ha una resistenza alla trazione pari a cento libbre per... Ma sgrana gli occhi: Petracchione ad un secondo strattone l'ha spezzato con leggero schiocco e butta i due pezzi: quel nylon non è buono. Lui ne vuole uno buono. Il direttore gli dà del monofilo da sessanta. Stessa scena. Petracchione scuote la testa: non è buono! Si arriva al monofilo da cento e poi il direttore scappa a bersi un grappino o a nascondersi da qualche parte.

Petracchione intanto parla col CB e usa il suo pseudonimo in barra nautica che è Cirillo Radio. Voci amiche, scambio di notizie. C'è anche un frocetto Volpe Qualcosa che vuole conoscere Petracchione , personalmente... Dio salvi il Re! Come dicono a Buckingham Palace ogni volta che la regina rompe le noci con le chiappe. Tra una storiella e l'altra si fa tardi. Domani Lupo di Mare torna a casa, a Salerno. Noi invece si farà rotta per Amalfi. Così siamo agli addii.

Traversata per Amalfi quasi senza storia con vento di prua e tutto motore. Amalfi e' bella da qualunque parte la si guardi. Civilissima anche nelle pulitissime acque portuali che pure sono molto più frequentate di quelle di San Marco. Segni di antica civiltà anche nella gente. L'ormeggiatore autorizzato e' un signore vestito di un completo candido, al quale non oso dare la mancia perché resto nel dubbio fino alla fine se sia davvero un ormeggiatore o solo un cortese professore di filosofia che si trova a passare per la banchina. Gentile il ragazzo che viene ad offrirci il ghiaccio e sorride quando gli mostro il frigorifero di cui la Sgnuffi quest'anno è munita. Cortese la barista alla quale lascio in deposito il cesto di bottiglie vuote per poi riprenderle piene al ritorno.

La visita al duomo di Amalfi vale tutta la lunga scalinata al sommo della quale si erge. La macchina dentro la chiesa che dovrebbe parlarmi della storia del Duomo ingoia le cento lire e tace: ma qui siamo già in territorio clericale. Mi accodo ad una comitiva di inglesi e ascolto la piatta cantilena della guida. La povera Sgnuffi supersex è dovuta,restare fuori perché un gran cartello avverte che i fedeli possono entrare soltanto se "cristianamente" vestiti. Inutile quindi presentarsi come un povero cristo. Le belle gambe della Sgnuffi che tutti possono ammirare nude e abbronzate per la strada, diventano peccaminose e disdicevoli al di la dei bellissimi portali dell'antico Duomo. Povera Chiesa quanta strada ti resta da fare! La Sgnuffi e i pargoli sfogano il loro malumore comprando ninnoli e souvenir.

Al tramonto ci raggiungono altri tre pargoletti e relativi genitori. Sono fratello e cognata della Sgnuffi che hanno ben filiato e adesso si va tutti a festeggiare con pizze e vino bianco gelato. Domani ho in programma un giro a Capri per poi arrivare ad Ischia per la sera. A Ischia c'é un'altra sorella della Sgnuffi con relativi pargoli. I miei invece sono tutti alpini.

Duilio, che sarebbe il fratello della Sgnuffi che ha ben filiato, decide di tornare a Napoli e scaricare la buona filiazione nonché la brava madre di famiglia e tornare per l'alba del giorno dopo con l'autobus di linea: così potrà accompagnarci nel tratto di crociera. E così è.  Prima di salpare, il professore di filosofia che forse qui fa l'ormeggiatore, ci porge un foglietto in cui la premurosa Capitaneria si informa sul nostro programma. Chissà, forse per dare l'allarme nel caso non arrivassimo a Ischia, o più semplicemente per mantenere un'antica tradizione. Forse il foglietto verrà subito archiviato e dimenticato.

Mare buonino e Capri subito a prua. Capri é il punto debole della Sgnuffi, mica la barca che se ne frega ovviamente, della Sgnuffi a 37°. Sono anni che ci rimpinza di aggettivi: Capri è il più bel posto della Terra, Capri è unica e meravigliosa, Capri è la terra dell'amore, Capri ha colori incredibili, Capri residenza di imperatori, eccetera eccetera eccetera. Capri è stata sopratutto la vacanza dei suoi sedici anni. Sedici anni virginei e romantici, sedici anni come quelli della buona Nonna Speranza, sedici anni così diversi da quelli delle sue coetanee da renderla più vicina a una lettera di Jacopo Ortis o a un lamento del giovane Werter che alla copertina di Playboy di cui pure ha tutto l'aspetto esteriore.

Colma la mia testa, la Sgnuffi ha riversato i suoi aggettivi da liceo classico nelle teste dei pargoli che adesso aspettano questa famosa Capri dall'acqua cristallina e unica dove le barche appaiono come sospese nel nulla e i fiori danno all'aria l'intenso profumo di un sogno d'amore, con un sorriso sarcastico ben fisso sulle labbra. Guardo, le faccette impietose e già colme di sadica maligna gioietta mentre fissano la famosa forma della più famosa isola del mondo e prego tra me: Fatti bella Capri, fatti bella altrimenti oggi sarai bollata per i tempi dei tempi.

Il cielo si abbigia. Il mare ha un colore scuro, poco invitante. Accosto a Capri puntando verso i Faraglioni: voglio dare all'isola tutti i vantaggi arrivando proprio nel suo punto più famoso, più decantato. Ecco, ora i "pipoli" lanceranno esclamazioni di meravigliato stupore e smetteranno la loro aria da supercritici. 

Ma è un brutto giorno per la Sgnuffi. Il cielo musona. I faraglioni dopo aver visto Panaruzzi, Strombolicchi, Formiche, Sconcigli, Canne e Botti per un intero mese si rivelano anche ai miei occhi indulgenti come degli onesti normali scogli vicini ad un'onesta normale costa. Il mare è torbido e le scogliere sono un carnaio. Stalattiti di gambe scolano per ogni dove. Barchini affollano l'orlo dell'isola per l'intero giro.

Amarilli e Costantino si guardano e poi cominciano a storcere la bocca schifati. La povera Sgnuffi si arrampica sugli specchi: oggi e' brutto, oggi c'è troppa, gente, abbiamo sbagliato faraglioni (sì, ba detto anche questo!), l'isola è bellissima dentro, le stradette e le botteguccie, la piazzetta e le verandine fiorite. Ma nulla cancellerà più la smorfia di sarcasmo dalla faccia dei "pipoli" che girano il dito nella piaga: meglio Ponza. Palmarola cento volte meglio. Tutto qui Capri? E così via. lo taccio e guido la Sgnuffi di indifferente vetroresina al periplo dell'isola alla ricerca di un posto per buttare l'ancora e pranzare.

Barche dovunque e grappoli umani sulle scogliere. Amarilli comincia a calcolare come deve essere pulita l'acqua di Capri supponendo che tutte quelle persone facciano cacca e pissi anche soltanto una volta al giorno. La bionda Sgnuffi si è chiusa in sdegnoso riserbo e invoca a tratti la conferma del fratello:

- Dillo tu, dillo tu com'era bella Capri! - 

- Era! Era! Era! - fanno in coro gli impietosi. Devo intervenire col tono burbero del secondo dopo dio per zittirli: si butta l'ancora! Ho spinto la Sgnuffi in un'insenatura dove già vedo all'ancora un bel po' di barche e motoscafi. Giù tutta la catena nell'acqua cupa. Avrà toccato il fondo l'ancora? L'onda ci fa dondolare sensibilmente ma per noi, marinai rotti ormai a ben altri sballottolamenti, la cosa è quasi inavvertibile. Il povero Duilio sbianca e la pastasciutta del suo piatto mostra viso incerto sulla direzione da prendere. Duilio insiste per farla scendere nello stomaco ma quella lotta per tornare dallo stomaco al piatto.

Per non darla vinta a quella stupida pasta, Duilio decide che è bello fare un bagnetto e si tuffa. Bello non è perché l'acqua è fresca. Visto che ormai è dentro gli dico di andar sotto a dare un'occhiata all'ancora. Si immerge e riemerge sbuffando: per quanto ha potuto vedere la catena scende dritta dritta a piombo sotto la prua. Tanto vale tirarla su e andarcene. Tra gli sghignazzamenti dei pargoli, la Sgnuffi in vetroresina volge la poppa all'ingrugnata Capri mentre quella polposetta volge il fondo schiena al colto e all'inclita andandosi a chiudere nella toilette. Quel localino che prima si chiamava gabinetto per non dire la parola cesso che a sua volta era stata inventata per non dire il vero nome del posticino che era cacatoio. Mentre sto tenendo, questa dotta lezione di etimologia fuggiamo da Marina Piccola che intravediamo colmissima di barche e chiusa al traffico, per puntare su Ischia, la verde.

A Ischia la verde c'é il più bel porto del Tirreno. Lo sanno tutti e quindi inutile ficcarcisi dentro. C'é il porto nuovo di Casamicciola che è anche più vicino alla casa della sorella della Sgnuffi. Porto nuovo di notevole vastità con ancora qualche posto libero in banchina. Ormeggio regolare e poppa in banchina. La Sgnuffi ancora traumatizzata dal nostro periplo di Capri non scende. lo, Duilio e pargoli si parte alla ricerca della casa sororale.

Sarà che Duilio é ancora nautopata e si sente rollare l'asfalto sotto i piedi, sarà il sole ancora così caldo, fatto é che sbaglia strada e ci guida verso monte Epomeo. Una scarpinata tremenda con la lingua fuori per la sete. Ansimanti e distrutti arriviamo infine alla casa sororale che poi era a duecento metri dal porto! Ma la sorella non c'é più perché aveva il turno all'ospedale a Napoli (non come malata ma come medico) e c'é invece la moglie del fratello del marito della sorella. Poi arriva anche il fratello del marito della sorella e mi comunica ufficialmente che la mia decisione di ripartire l'indomani per Ventotene é sbagliata. Mi interesso vivamente: perché? Perché Ventotene é molto lontana da Ischia, più di sessanta miglia e non ce la faccio in un giorno. Io so che Ischia è quasi equidistante tra Criiù e Vento-ene e mi ricordo che da Forio, ai bei tempi dell'adolescenza del mio folle felice matrimonio, vedevo perfettamente l'isola stagliarsi come una scatola da scarpe posata sul mare. Timidamente osservo che, a meno di spostamenti dell'ultima ora ma che certo sarebbero comunicati ai naviganti tramite gli Avvisi dell'Idrografico, Ventotene dista da Ischia venti-ventidue miglia. Ma il fratello del marito della sorella della Sgnuffi é assolutamente categorico: Ventotene é lontana, molto lontana. Non mi resta che tornare subito in barca a controllare. 

La notte nel porto di Casamicciola è perfettamente consigliabile ai sordi. Dopo una serata colma di sirene laceranti di vaporetti che suonano prima di attraccare e prima di salpare, cala di silenzio del dopomezzanotte. Tutti noi raggiungiamo le cuccette e schiacciamo l'inerme pisolino che non può opporsi ne' lamentarsi. Ed e' un pisolino piccolo piccolo perché alle ore 02.00 tempo locale l'ululato bestiale di una sirena ci fa balzare tutti in piedi. I colpi delle cinque capocciate si susseguono velocissimi: tom, tam, too tek, tic. Tic é il colpetto lieve di quella di Costantino che sfiora appena lo spigolo del portabiti sopra la sua cuccetta. L'ululato spaventoso che ha frantumato il povero pisolino é seguito da uno schiaffone acqueo che ci manda tutti e cinque imbambolati a sbattere una seconda capocciata contro la murata di dritta: pom, pam; poc; pek, pic. Pic è il colpetto lieve della testa di Costantino che sfiora il bordo della porta della sua cabina che si è spalancata sotto l'ondata.

Non abbiamo il tempo di bestemmiare perché mentre un secondo folgorante ululato sbrindella quello che resta dei nostri timpani intorpiditi. L'ondata di riflusso che proviene dalla banchina ci sbatacchia come birilli tutti e cinque contro la murata di sinistra: crom, cram, croc; crek; cric. Cric é il colpetto lieve della testa di Costantino sull'imbottitura della sua murata. Tutta colpa nostra. Se fossimo stati giustamente sordi probabilmente non ci sarebbe accaduto nulla.

E’un ragionamento che non mi placa e balzo fuori deciso a stampare un cazzotto sul naso di quel becero di capitano che porta un traghetto dentro ad un porto a quel modo! Altro che i poveri pescatori di San Vito che pigiavano sui remi  per non svegliarci col ronfare discretissimo dei loro diesel! Ma il traghettone mi ricaccia sotto coperta con un terzo ululato che mi fa rintronare tutto e annebbiare i propositi di violenza. Per tutta la notte i maledetti traghetti fanno su e giù e fischiano fischiano i mortacci loro! Si balla, si beccheggia, si rolla, si alambarda, si sculetta, si sussulta, insomma gente, Casamicciola!

Duilio fugge pallido all'alba con la mappatella dei suoi vestiti nonostante che il traghetto per Napoli non parta che di 11 a tre ore. Noi fuggiamo poco dopo diretti a Ventotene nonostante che io abbia un po' di febbre e di maldipancia. Fuori il ballo é strano. Un mare color piombo senza vento e quasi senza onde visibili: pure la Sgnuffi balla forte. Probabilmente un mare lungo incrociato poco visibile ma molto sensibile. Il cielo é uniformemente grigio. Poiché mi son beccato tutti i fischi dei traghetti mi son perso il bollettino. Chiamo Napoli. Con me chiama uno yacht 

- Io tornerei indietro. -

- lo no. - Rispondo altrettanto sibillino. E chiamo Napoli. Anche lo yacht spagnolo chiama Napoli. Al traverso di Forio arriva una seconda schicchera. La Sgnuffi imbronciata da quando i Faraglioni non hanno più l'acqua verde smeraldo mi comunica seccamente che lei non riesce a tenere la barca in rotta perché ingavona continuamente e va da tutte le parti meno che Ià dove io ho detto che ci sarà Ventotene e mi molla la ruota ritirandosi sdegnosamente sulla sua cuccetta a guardarsi lo smalto delle unghie.

La tensione si tende ben bene a bordo. Allungo uno scappellotto ad Amarilli per calmarmi un poco cogliendo l'occasione del consueto disordine nella sua cabina di prua. Prendo la ruota e scruto l'orizzonte: grigetto perfetto, dovunque. Nessuna scatola da scarpe sul mare, neppure un vago sospetto. Non vorrei che avesse avuto ragione il fratello del marito della sorella del mio secondo e che l'abbiano spostata.

Chiamo Napoli e con me chiama anche lo yacht spagnolo, che subito dopo chiama me sul canale sedici. Ci scambiamo informazioni meteo e considerazioni poco lusinghiere sull'operatore di Napoli Radio che non risponde ma che non può non sentirci dal momento che Napoli è lì a due spanne da noi. E infatti con finto candore due minuti dopo Napoli risponde. Io sto lasciando Ischia ma il ballo diventa sempre più schiantante eppure il livido mare non mostra onde alte. Ma sento che la Sgnuffi viene schiaffeggiata da tutte le parti in carena ed effettivamente non tiene la rotta. Alzo la randa, ma non stabilizza un beneamato. L'anemometro segna a tratti tre e a tratti zero. Da Napoli mi danno il meteo: tempo incerto, o fa bello, o fa brutto. Questo e' il succo, però non si prevede la fine del mondo. Adesso il ballo si fa caotico, e l'onda schiumeggia.Il vento è sempre alterno, soffia anche un po' da una parte, un po' dall'altra. C'è qualcosa di strano, di brutto, di lugubre nell'aria che opprime.

Proprio in questo momento la Sgnuffi in vetroresina, sicuramente in combutta con quella morbidetta, affonda la prua in un buco apertosi all'improvviso davanti a lei e poi sbatte la coda su una scarpata d'acqua che un attimo fa non c'era. Sbarello di sessanta gradi con la rotta. Mi incacchio. Viro tutta la ruota a sbraito:

- E va bene! Torniamo! - 

Filo verso Ischia per la seconda volta. Vedo Forio. Ecco, almeno posso ormeggiare a Forio, tanto per cambiare buco. Ma l'onda mi incalza e Forio è porto sconosciuto. Quando passai per Forio, ai tempi dell'adolescenza del matrimonio il porto non c'era e c'era solo un bell'odore di merda sulla spiaggia. Ma forse un qualche bambino l'aveva appena fatta. Io però ricusai una stanzetta che mi aveva preso in affitto il fidanzato di una sorella di mia moglie. Però non di quella sorella medico, quell'altra laureata in lettere. Sì, la famiglia della Sgnuffi é tutta di sapientoni.

Viro di nuovo e mi ritrovo davanti al fungo di Lacco Ameno. Il mare sembra calmo adesso e la Sgnuffi rolla appena. Il cielo è sempre uniformemente grigio però di una sfumatura più chiara. Io brontolo da mezz'ora, brontolo che dovrei fare di testa mia e non stare a sentire gli isterismi delle donne. Brontolo che lo skipper deve poter decidere in assoluta libertà senza subire pressioni e condizionamenti. Brontolo che un capitano ha il diritto di mandare a fondo la sua dannata barca con tutti i passeggeri se questo gli sembra la cosa migliore. E calco su quel "passeggeri". Degradati sul campo da equipaggio a passeggeri. Brontolo e più brontolo più mi incacchio. Mi monto dentro ben bene e poi esplodo:

- Io vado a Ventotene porco mondo!!!! - e giro tutta la ruota con furia. Colta di sorpresa la Sgnuffi rampa sull'onda e si gira di centottanta gradi. L'altra, sdraiata in cuccetta, non si scompone, continua a guardarsi le unghie e dice:

- Appena fuori si balla di nuovo. -

- E si balli allora! - sento nelle vene l'ostinazione del capitano Ackab. Riaffondo la prua verso la stimata direzione di Ventotene. E si balla. Ma la mia rabbia gode ad ogni colpo. Di più, di più, ma verso dove dico io! E' solo verso le 14.00 che scorgo, più a est del previsto la Ora che Ventotene è là a prua mi permetto di sorridere alla Sgnufli:

-E allora? Ecco Ventotene. -

Il secondo dà un'occhiata distratta alla nebulosa forma scura e poi si stringe nelle spalle:

- Non c'era bisogno di fare tutto questo ballo. Ci si arrivava domani col mare calmo.- E invece oggi col mare mosso. Tiè!

Conosco Ventotene per esserci stato in una specie di codicillo di luna miele al terzo o quarto anno del mio gaudioso matrimonio. So che c'è un porticciolo antico romano bellissimo come pezzo archeologico ma minuscolo per il diporto e così sicuro, naturalmente sicuro, che non ha il minimo ricambio di acqua. E questo significa fanghiglia maleodorante. Poi ricordo che facevo i bagni in una bella cala che si chiamava Cala Rossano in fondo alla quale si vedevano i resti di un molo distrutto: Quello degli antichi romani stava ancora là, ben saldo, quello dei romani di oggi il mare se l'era bevuto in quella famosa mareggiata del 4 novembre del '66. E sulla spiaggia di Cala Rossano capitava uno strano ragazzo di nome Carmine che anche se non richiesto raccontava a tutti la storia avventurosa della sua vita sentimentale, specialmente colorendo un suo matrimonio per corrispondenza con una americana fatto allo scopo di ottenere l'espatrio e la cittadinanza USA. Ma quando vide la sposa, vide centocinquanta chili di sposa e proprio non ce la fece. Non ce la fece a salirle sopra. Così andò invece in California ad una scuola per soli camerieri maschi. Poi chissà come tornò a Ventotene. Pregava di mandare a Cala Rossano qualche nostra amica che volesse convivere con lui, anche bruttina, anche non vergine, perché  quelle dell'isola lo evitavano per colpa della grettezza della mentalità dei genitori: lui era gia sposato a quindi non doveva più frequentare ragazze. Ma non era sposato,perché poi aveva divorziato: niente!

Tutto questo anni fa. Adesso ritrovo quel molo distrutto ricostruito e ben massiccio. Entro a Cala Rossano: non c'e' barca viva. Bella manovra e poppa in banchina. Ho appena terminato l'ormeggio e fatto le mie brave gasse quando ecco zompetta verso di me, assolutamente identico perfino nel vestiario (maglietta rossa e pantaloni blu) il bravo Carmine che, ovviamente non può riconoscermi e mi ammonisce:

- Dottò, qui non si può stare! Questo non è un porto, qui fa mare! Adesso vengo a bordo io e vi piloto nel porto vecchio! C'é una secca all'ingresso ma con Carmine andate sicuro, dottò!-

Io so benissimo che non c'è nessuna secca all'ingresso del porto vecchio, ma lo lascio fare, poi gli chiedo improvvisamente notizie della cicciona americana. Un lampo di paura passa negli occhi di Carmine che mi scruta. Posso leggere in quello sguardo il dubbio feroce: a questo che gli avrò raccontato? Non lo lascio sulle spine, poveretto e gli faccio il riassunto della storia. Annuisce compreso:

- Tutto vero, dotto', tutto vero... Ah sì, adesso mi ricordo,... -

Manovro io mentre lui chiacchiera ed entro a Porto Vecchio tranquillamente perché il mare adesso è calmo. Una volta dentro Carmine si inorgoglisce:

- Visto, dottò? Con Carmine si va sempre lisci! Adesso accostate là.-

Accosto alla banchina con un po' di paura perché mi ricordo che il fondale è scarso sotto banchina. Carmine balza a terra e poi mi guida con ampi gesti attirando l'attenzione benevola di tutti. Nel porto ci sono dieci barche e lo riempiono. E'  talmente stretto, che si deve buttare l'ancora contro il molo di fronte per poter arrivare in banchina, in compenso è talmente riparato che probabilmente si starebbe sicuri anche senza ancora.

- La pietra bianca, dottò! Butti Ià, davanti alla pietra bianca e poi qui di poppa!-

Obbedisco. Butto l'ancora alla pietra bianca e poi vengo indietro. Tutto bene, ma quando mi affaccio sotto la pala del timone ci sarà esattamente un dito d'acqua. Indico la cosa a Carmine: non mi va, un dito d'acqua va e viene e se tocco con la pala son dolori. Carmine sospira (questi turisti non si accontentano mai!) e poi decide che non vuole lasciarmi scontento. Basta tornare alla pietra bianca e poi con la poppa... con la poppa... corre lungo la banchina e scova un angolino vicino allo scalo di alaggio: 

Vado alla pietra bianca e poi mi metto con la poppa verso lo scalo. Qui c'é fondale e sto bene. Carmine balza a bordo:

- Perché siamo, amici, dotto', quattromila! - e tende la mano. Gliela stringo. Ride.

- Quattromila per dirmi di andare alla pietra bianca non è un po' troppo?! - E’astuto Carmine e ammette subito che è troppo, ma sospira triste. Adesso sta con una donna, una brava donna che fa anche delle ciambelle favolose, però i turisti sono pochi, a Ventotene non è come Ponza, quà viene poca gente e allora... allora quattromila non sono tante... Voglio anche una ciambella? Mille e cinque. Non che navighi nell'oro, ma alla fine cinquemila con la ciambella gliele dò'. Uno che recita così bene se li merita, a Roma una comparsa vuole quindicimila lire per fare un passaggio davanti alla macchina da presa.

Dal porto di Ventotene é meglio non uscire se non quando si parte definitivamente, per via delle ancore aggrovigliate e della ristrettezza. Così giù il canotto e via per Santo Stefano, l'isolotto già sede di un ergastolo. Scale scavate nella roccia con infinita pazienza da gente senza speranza, resti lugubri di scarpe, marcite, teoria di celle spaventose, di bracci circolari come un'ossessione, di scritte che vorrebbero essere cristiane e sono soltanto orrende, quale quella che si può ancora leggere sul cancello, del cimitero: Qui finisce la giustizia degli uomini, qui comincia quella di dio. Un modo come un altro per dire ad un probabile assassino: non credere che crepando risolvi, il bello viene dopo. Alla faccia della pietà cristiana.

Salpando per Ponza si chiude il grande giro, l'anello si salda, la crociera è finita. E’ stata bella ma anche estenuante, tanto che ad un certo punto accosto direttamente per il Circeo in un improvviso desiderio di casa. Entro in porto strombettando festosamente. E festosamente vengo accolto dagli amici della banchina e delle barche. Von Palafitten é sempre a prua con la canna in pugno, Peppe si sbraccia per segnalarmi il punto d'ormeggio che grida di avermi "tenuto".

C’é anche Alfredo che si complimenta per la nostra incoscienza che ci ha portato sull'onda dei quaranta belanti insieme all'onda della nostra inesperienza. Ci addita Alfredo alla platea: ecco, gente che naviga davvero. E’ tutto, un po' buffo ma piacevole. Quando ancora eravamo nella foschia al largo del Circeo, l'apparire del verde monte, del faro candido e della nostra casetta rossa ci aveva portato umidore agli occhi. Si parte per tornare. Si naviga per riattaccare nel calore di un porto amico.

Scendiamo dalla Sgnuffi e la guardiamo: brava fida Sgnuffona! Sporca, ammaccata sulla battagliola, con i piccoli segni delle nostre cento battaglie, adesso sei proprio la nostra barca. Domani torneremo a scaricare sacchi e avanzi di provviste. Oggi ci sentiamo come vuoti e colmi nello stesso tempo.

Guardo la banchina abusiva, quel porto inesistente, la faccia di Peppe e quella degli amici: ma perché sono partito?   E’ talmente evidente che questo é il più bel posto del mondo!

                                                                                                    FINE

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