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                                                     La mia America                                         

Nessuna storia é a lieto fine ma è bella lo stesso 

se si smette di raccontarla in tempo.            

(dedicato alle mie donne:  

Mara, Amarilli, Melissa e Clarissa.)

CAPITOLO I

IL CASO E LA NECESSITA'

- A scuola ho studiato francese e tedesco. -

L'ho dovuto dire sempre più spesso negli ultimi mesi perché il cinema italiano é in crisi.

A memoria mia é sempre stato in crisi ma stavolta sembra grave. Siamo a metà degli anni Ottanta, secolo ventesimo ovviamente: il western spaghetti é morto, la commedia all'italiana non tira più e la televisione imperversa vista da tutti e scritta da nessuno. E io scrivo per mangiare. Anche il mio agente deve mangiare e mi cerca datori di lavoro americani.

Decine di attori, registi, operatori, scenografi e produttori in cerca di fortuna fanno i pendolari Roma-Los Angeles. Chi non parla inglese finge di capirlo per non cambiar mestiere.

Per i registi è facile: imparano a dire "go", "close up", "fuck off", "intercourse" e poi chiamano il daily coach, un bilingue che gli fa godere l'americano.

Per tecnici e maestranze è un problema di cibo ma ormai anche a Beverly Hills si mangiano discreti spaghetti all'amatriciana.

Per gli attori è un po' più duro: per ficcarsi in testa battute straniere devono violentarsi il birignao.

Il mio amico Pigozzi, un precursore che si fa chiamare da sempre Alan Collins, mi ha detto che nei primi tempi del suo english acting oltre alle proprie battute doveva mandare a mente le ultime parole di quelle dei colleghi per sapere quando "attaccare". Un giorno, dovendo "entrare" dopo un "ready" con un "up yours!", stava con le orecchie ben aperte per non lasciare silenzi morti che avrebbero tolto verità alla scena, quando un senatore in visita agli studios disse una frase ai microfoni della TV finendo proprio con la parola "ready". Per riflesso condizionato Alan Collins sparò il suo "up yours!" applaudito da sette milioni di spettatori.

I nostri attori sono abituati da anni a petare inglese, con accento siculciociarnapoletano perché tanto sono doppiati sia in inglese che in italiano.

A Cinecittà e dintorni non c'è più film, tranne qualche commediola pecoreccia, che non venga girato in inglese per via delle labiali: i mercati internazionali non sopportano labbra dicenti "marmellata" mentre le orecchie sentono "jam".

Uno dei nostri grandi attori giurò pubblicamente negli anni Settanta che non avrebbe mai pronunciato sul set una sola parola inglese e per mantener fede alla promessa recita ora in silenzio, muovendo le labbra secondo le sillabe americane e va benissimo lo stesso.

Le sceneggiature si scrivono ancora in italiano e son tradotte prima di andare sul set, ma ci vanno sempre più di rado e noi autori dobbiamo cercare produttori americani e, ahimè, loro vogliono copioni in inglese.

Ho provato a far tradurre a spese mie la sceneggiatura di Stradivari e ho pagato trentamila lire a pagina per la certezza di una traduzione corretta e il sospetto che il copione fosse morto come l'italiano del liceo classico.

Mi diceva mia madre nei tempi beati dell'adolescenza, ignorando il mio grande amore per una compagna di scuola, che le cose ben fatte son quelle che si fanno da soli.

Ma io, da solo, sceneggiature e dialoghi, soprattutto dialoghi, li potrò scrivere mai in inglese?

- Mai!- mi conferma categorico il direttore della Panvista English School fissandomi la rètina - Neanche vivendo a Los Angeles per dieci anni. E le dimostro subito il perché. Vede quelle signore?- m’indica due piacenti femmine impellicciate visone selvaggio che lo stanno attendendo davanti alla sua scrivania- Lei direbbe ad alta voce "cazzo"?-

- A freddo? -

- Adesso. Senza motivo. Forte, che la sentano le signore.-

- Senza motivo no.-

- Benissimo. Adesso io le dico che in America cazzo si dice prick. Dica ad alta voce "prick".-

Esclamo con forza:

- Prick!- Le due signore mi danno un'occhiata annoiata e il direttore esulta:

- Ecco vede? Lei sa che prick vuol dire cazzo. Lo sa il suo cervello superficiale ma il suo cervello profondo non lo sa e quindi la parola prick non solleva in lei assolutamente niente. Per lei non ha colore, capisce? E non ce l'avrà mai. Il cervello profondo non recepisce più i colori delle parole dopo gli undici anni.-

- Un'altra cosa non avevo recepito.-

- Ossia?-

- Che quelle due signore sapessero l'inglese.-

- Of course che lo sanno- ride il direttore- sono mia moglie e mia figlia. Due autentiche Wasp: entrambe nate a Boston.-

- Don't say bullshit, dad!- gorgheggia uno dei due visoni.

- E senza i colori del cazzo non posso scrivere dialoghi, vero?- urlo forte e chiaro. I due visoni sorridono e il direttore annuisce vigoroso come un bisonte.

Per aumentare la mia disperazione Carlo Ponti ha preso l'abitudine di sogghignare ogni volta che mi firma modesti assegni in lirette e me li sventola sotto il naso con finta aria dispiaciuta sospirando che se fossi nato in California mi darebbe dieci volte di più e in bei dollaroni sonanti.

Poiché ho famiglia e sono piemontese, non mi abbandono al pessimismo e mi iscrivo al corso intensivo della Panvista English School insieme alla mia bionda metà: venti giorni di full immersion con professori e video dalla mattina alla sera.

Non andrà nel cervello profondo ma qualcosa da qualche parte va perché riesco a chiedere centomila dollari a un ebreo californiano di Fresno che vuol far scrivere a me e a Ezio Pizzi una storia sull'attentato subìto da Giovanni Paolo II.

Ezio ha avuto la fortuna di essere stato prigioniero di guerra degli Yankee e di avere poi sposato una bella Elena di Milwaukee. Da una prigione all'altra, per lui la lingua dei carcerieri non ha più segreti.

Il produttore di Fresno ride e mi risponde, masticando inglese e sigaro, con una manata sulle cosce. Ho imparato a dire "one hundred thousand dollars" ma non a capire le risposte. Guardo il sigaro masticato: forse avrà parlato in yiddish...

Sto per scendere di ventimila dollari ma il collega bilingue mi ferma in tempo:

- Dice che è troppo poco.-

Guardo ammirato l'americano: in trent'anni di carriera, "troppo poco" non me l'ha mai detto nessuno. Alla faccia di tutte le storielle sugli ebrei e sul loro attaccamento al denaro: bisogna proprio impararlo 'sto prick di inglese!

Mi viene in soccorso morale il direttore della Panvista English School complimentandosi per i miei progressi e raccontandomi che Conrad imparò l'inglese a quarant'anni eppure riuscì a scrivere i suoi famosi romanzi. Fiorisce un sorriso sulle mie labbra ma lui me lo recide subito:

- Non dialoghi parlati però! E l'inglese d'America cambia da posto a posto e di mese in mese!-

- Pazienza. Scriverò i dialoghi in italiano e me li farò tradurre.-

Il direttore sorride da muovere le orecchie: ho trovato un aspirante collaboratore. Mi prende sottobraccio per nuovi consigli affettuosi:

- Devi andare un po' negli States. Non in albergo come un turista, devi andare in casa di amici, parlare, parlare, stare sempre in mezzo agli americani.-

Lo guardo fisso e si mette una mano sul cuore: non ha più casa a Boston. Mi metto la mano sul cuore anch'io: non ho amici americani.

Sembra che non ci sia soluzione.

CAPITOLO II

TU MI DAI 'NA CASA A ME, IO TI DO 'NA CASA TE....

"Cambio villino al Circeo con due camere a Manhattan", così il Messaggero a pagina dodici su tre colonne."

Ci sono dei momenti nella vita in cui ci si sente chiamati: io ho un villino al Circeo e mi servirebbero due stanze a Manhattan!

L'articolo parla di una nuova moda: lo scambiocasa, scritto così tutta una parola: homexchange. Ci sono migliaia di americani vogliosi di Italia disposti a cedere le loro case in cambio delle nostre. Roma è in testa alle preferenze. Per ragioni storiche, penso io. No, per il film "Vacanze Romane ", dice il giornalista, e la scena della Eckberg nella fontana di Trevi ne "La Dolce Vita". C’è un recapito americano: scrivo e con venti dollari di spesa mi arriva a casa un volumetto zeppo di indirizzi e di fotografie di case.Sono migliaia di villette a uno o due piani con giardino, spesso con piscina, sempre con aria condizionata e full appliances, ossia con tutti gli elettrodomestici che per lo standard americano vanno dal microonde al congelatore passando per lavapiatti, lavapanni, asciugatore, frigo da macelleria all'ingrosso, tritarifiuti, broiler, grill e frullatori vari.

In questi giorni c'è ancora l'URSS, San Pietroburgo si chiama Leningrado e quasi tutti i miei amici intellettuali si dichiarano comunisti convinti, ma l'appena arrivato Gorbaciov deve già aver visto questo catalogo e gli è venuto una voglia perestroika di fare un cambio casa:

"AAA. Cedesi grande appartamento al Cremlino con annessa direzione di superpotenza evanescente in cambio di un villino pressi di Berkeley, San Francisco, con possibilità di conferenze su come distruggere l'URSS senza combattere."

Nella mia villetta al Circeo l'aria condizionata non c'è, non c'è neanche la lavapiatti, il frigorifero è da 90 litri però nel giardino ho anch'io la mia bella piscina: 9 metri per 4, ma sempre piscina è!

Convoco la Sgnuffi, moglie solo davanti a Dio, voluttuosa concubina negli anni antedivorzio, degradata oggi a borghese convivente con gli stessi diritti di una qualunque moglie dal volubile e barbaro mutar di leggi, e Sciltian ancora detto Prucino, l'ultimo della covata e unico che abbia accettato di studiare l'inglese quando aveva otto anni diventando, adesso che ne ha undici, l'anglista della famiglia, la cui collaborazione per la stesura di questi "diari di viaggio" diventerà essenziale.

Decidiamo di tentare la ventura di slancio: due scambi uno appresso all'altro: una famiglia a luglio e un'altra ad agosto! Ci "faremo" la costa est, quell’atlantica, la più vicina, la più europea, come mi dice Luciano Salce scuotendo la testa.

Scuote perché, dice lui, la vita negli USA è molto cara e due mesi laggiù con moglie e figli mi costringeranno, al ritorno, ad accettare qualsiasi lavoro e a trascurare la qualità. Gli sorrido grato: il buon Luciano mi fa credito di poter produrre "qualità" semplicemente limitando la trascuratezza.

Scrivo una dozzina di lettere sperando che qualcuno risponda. Ancora non c’è la e-mail! Tre settimane dopo ho undici lettere di risposta e una telefonata drammatica: un uomo mi parla da Boston in tono allegro ed amichevole ma io non capisco un prick.

Lo prego, nel mio inglese da venti giorni di full immersion, di limitarsi a rispondere "yes" oppure "no" alle domande che farò io.

- Ti chiami Mangione e chiami da Boston?-

Non dover usare il laterale "lei" o il plurale "voi" fa sentire subito amici.

- Yes! I'm Mangiioni and I'm calling from Newton, near Boston and...-

- Stop please!- lo blocco perentorio e poi chiedo con orribile accento e sgrammaticature ignobili aggravate dall'emozione, se vuol scambiare per luglio.

- Yes! I'm just phoning to...-

- Stop!- si ferma, sento che ansima.

Gli dico che sono d'accordo per luglio e chiedo se voglia scambiare anche le auto.

- O yes. I've got a Chevrolet...-

- Stop!- lo interrompo: per i dettagli mi dovrà scrivere perché l'inglese lo leggo ma non lo capisco, specialmente per telefono senza l'aiuto del movimento delle labbra.

- Yes.- conclude un po' triste. Io invece esulto: per luglio saremo a Boston! Anzi a Newton, un paesino satellite immerso nel verde a poche miglia dalla nobile capitale del Massachussets!

Per lo scambio di agosto, studiamo attentamente le undici lettere e scegliamo quella degli Edwards, una famiglia che ci offre una villa ad Atlanta, Georgia.

Ho comprato una gigantesca carta degli States: tra Boston e Atlanta ci sono mille miglia, milleseicento chilometri per gli eurocentrici, come da Roma a Copenaghen. Si possono fare in aereo, in treno oppure in pullman. Sciltian propone di andarci in macchina ma il pensiero di guidare su quelle enormi autostrade dalle infinite corsie viste nei film, con quei labirintici svincoli che disegnano immense dalie sulle carte, mi mette un senso di angoscia acida in fondo allo stomaco.

Propongo il pullman: così vedremo il paesaggio e attraverseremo città famosissime come NewYork, Filadelfia, Washington, Baltimora...

La Sgnuffi si impunta. Impuntarsi è una sua caratteristica: vuole stare qualche giorno a NewYork.

In questi giorni lieti quando la mia bionda a forma di violino si impunta, io uso discutere violentemente per giorni prima di accontentarla, ben sapendo che ha torto, ma per la gioia di farla felice. Avendo purtroppo fatto la cosa sbagliata lei non sarà felice e dirà che é tutta colpa mia.

La Sgnuffi non sbaglia mai: costringe sempre gli altri a decidere quello che vuole lei e se è sbagliato peggio per gli altri.

Questa volta non trova opposizione e la sua determinazione bellicosa sfuma nella perplessità: siamo tutti d'accordo, staremo tre giorni a NewYork, così il viaggio in pullman sarà meno faticoso: prima tappa Boston-NewYork, seconda NewYork-Atlanta.

Mancano pochi mesi al grande viaggio, riprendiamo lo studio dell'inglese assai più motivati. Alla Panvista scelgo "Love Story" come film propedeutico: al primo passaggio sul video è un pianto. Non capisco quasi nulla, la colonna sonora è in presa diretta con tutti i rumori ambientali su cui si distende il famoso motivetto romantico che fa da leitmotiv per tutto il film. Il direttore mi dà una trascrizione dei dialoghi: così posso seguire un po' meglio, ma alcune frasi restano incomprensibili. Sorrido alla figlia del direttore che oggi veste un miniabito firmatissimo e le chiedo aiuto:

- Il protagonista ripete spesso "up yours", per me vuol dire "su vostri", tu che sei di Boston...-

Non mi lascia neppure terminare, con un luminoso ingenuo sorriso, mi risponde:

- Vaffanculo.-

La guardo stralunato e lei ride. Mi parla con l'accento anglosassone di quando Sordi doppiava Cric e Croc:

- Cosa hai capito! Non a te!- abbassa la voce arrossendo per dire "up yours", sillabe che a me suonano innocenti, e la alza allegra per dire che significano press'a poco vaffanculo.

Se ne avessi ancora bisogno, la fanciulla mi dà un bell'esempio di che significa non captare il colore delle parole.

Vedo Love Story trentotto volte ma fino alla scena in cui il medico svela al biondo Oliver Barret che la sua bruna bellissima moglie Jenny Cavalleri deve morire. Odio chi mi vuol far piangere.

Non posso evitare l'inizio col giovane vedovo che sospira "What can you say about a twenty-five year old girl who died? That she was beautiful and brilliant? That she loved Mozart and Bach, the Beatles and me?" ma poi il film prende un ritmo veloce con un dialogo allegro e scanzonato, lontano dalla versione caramellosa del doppiaggio italiano. In inglese è un bel film: comincio ad apprezzare la lingua di Shakespeare.

Con Butch Cassidy il mio morale tocca il fondo e comincia a scavare: non capisco una parola! Parlano parlano i bravi Paul Newman e Robert Redford e dicono "Yep" per "sì" e "stick around", letteralmente "incòllati intorno" per dire "rimani". La moglie del direttore mi consiglia di lasciar perdere il genere western e mi propone Cabaret con la Minnelli.

Lo vedo tredici volte ma non riesco a star dietro alla bizzarra Liza che parla con la velocità di un fucile a pompa. Il film é bello e non mi annoio mai.

Siamo a giugno e vado a fare i biglietti. Amarilli, la mia primogenita già maritata e madre di due pargoli, mi consiglia l'agenzia Nouvelles Frontières. E' un'organizzazione francese, nonostante ciò Bernard, il direttore, è gentile e competente. Il volo che costa meno è Sabena, bisogna volare Roma-Bruxelles e poi prendere l'aereo che per Boston e Atlanta. A conti fatti, anche se all'andata ci fermeremo a Boston, conviene fare il biglietto di andata e ritorno Bruxelles-Atlanta.

Per il trasferimento in pullman da Boston a NewYork e poi fino ad Atlanta dovremo arrangiarci da soli: avrò un mese intero a Boston, anche se non capisco Paul Newman riuscirò a comprare il biglietto di un autobus!

Il buon Bernard mi prenota per tre notti, a cavallo tra luglio e agosto, un'ampia camera a due letti doppi all'Holiday Inn, Manhattan, 57esima West.

Mi dà un talloncino che chiama "voucher" e pago cento dollari per ogni notte che, Bernard assicura, sono comprensivi di tutto tranne una piccola percentuale per le tasse locali.

Poiché di questi tempi il dollaro sta quasi a duemila lire, non é proprio a buon mercato. I tre giorni in più passati a NewYork mi costeranno come uno dei tre biglietti aerei che ho appena pagato. Ma quella di NewYork è un'idea mia e la Sgnuffi si chiama fuori.

Parlando con gli amici, quasi tutti cinematografari, dopo il primo entusiasmo per l'idea affiorano curiose perplessità:

- Dare la propria casa a gente che non si conosce... -

- Anche noi per loro siamo gente che non conoscono...-

- Sì, ma vedi, loro sono americani, superficiali, senza tradizione...-

Le mogli dei miei amici, femministe accanite, reduci da violente battaglie per il diritto al lavoro paritario e sostenitrici teoriche della divisione degli obblighi di cucina, di lavatura e di stiratura, (teoriche perché hanno quasi tutte una filippina che fa i lavori domestici, raramente un filippino...) arrotondano occhi stupiti e chiedono con incrinature orripilate nella voce come possiamo permettere che degli sconosciuti mangino nei nostri piatti, dormano nei nostri letti e cachino nelle nostre tazze.

La Sgnuffi dichiara che mai e poi mai permetterebbe a mani straniere di toccare le sue cose ma noi nel villino con piscina del Circeo non ci andiamo neppure d'estate perché, sceneggiatura su sceneggiatura, abbiamo comprato un'altra casetta sulle rocce, proprio dietro il faro, con una vista stupenda per accontentare la mia innamoratissima metà che ama dipingere tramonti e mari in tempesta violentemente tagliati dalla luce dei fari.

Così superiamo alla radice uno dei problemi più spinosi che affligge i nostri angeli del focolare quando si progetta uno scambiocasa: la gelosia feticista delle proprie cose.

Magari nei piatti ci fan mangiare i loro gatti, ma un americano sconosciuto no.

Nel villino con piscina di solito passano l'estate mia sorella Giusi detta Giuspi e suo marito Pino, detto Pino, insieme alla mia vecchia "mamòta" detta "marmota".

Avvertiti per tempo, si sono affittati un appartamento in una casa accanto per luglio e agosto. E' importante che vengano ugualmente a mezzo giugno per dare un minimo di assistenza agli ospiti americani. Mia sorella ha comprato un corso su dischi per imparare l'inglese ma si è fermata alla lezione numero tre perché dopo le sembrava arabo, mio cognato non ci ha mai nemmeno provato. Dovranno esprimersi a gesti perché nessuno degli scambisti sa una sola parola di italiano. Mangione una ne sa, il suo cognome, che lui pronuncia "Mangiioni".

Lascio cartelli di istruzione in inglese dovunque: come si usa la piscina, come si usa la lavapanni, come si apre e si chiude l'acqua potabile, dove si compera e come si usa la bombola del gas, dove sono i negozi, quali sono i ristoranti più interessanti della zona, quali gite sono consigliabili, come si deve prendere il sole mediterraneo, come si usa il mio Mercedes 240 diesel e come si guida in Italia (the green light is a tip, the red one means only look out and the yellow one is for gaiety...).

C'è il problema dei soldi, non quello di averli o non averli perché chi non li ha non ha nemmeno il problema. Chi li ha e si accinge a fare uno scambio casa si deve chiedere: quanti dollari devo portare?

Mi procuro una bella carta VISA, nuovissima diavoleria per questi tempi, perché negli States dicono che ci puoi pagare anche le sigarette, compro mille dollari in contanti e duemila li prendo in traveller’s chèque, che sono quegli assegni che si possono riscuotere solo rifacendo la propria firma davanti alla faccia sospettosa di un cassiere straniero dopo avergli mostrato il passaporto.

Il biglietto aereo di ritorno é già pagato, meglio avere poca liquidità.

Luciano Salce scuote di nuovo la testa: quella cifra basta appena in Italia per un mese a una famiglia di tre persone.

- Tre persone spendaccione! Oggi in banca mi han fatto pagare il dollaro 2065 lire perché nessuno ancora sa che cosa sia l’euro…-

- Fa niente. Per un americano dieci dollari sono la mancia del benzinaio... Non ti basteranno mai!-

Mi preoccupa ma per fortuna non mi convince. Anche il bravo Luciano è travolto dalla nostra sottocultura sinistrorsa antiamericana: la prima volta che farò il pieno negli Stati Uniti pagherò 16 dollari per la benzina e scoprirò che non si lasciano mance al benzinaio perché chi non usa il self service paga qualche cents in più per litro.

Una settimana prima della fatidica partenza, vado con la mia auto al Circeo e la parcheggio davanti alla villa, poi torno a Roma con Riccardo, il marito di Amarilli, di simpatie giovanili missine che gli hanno lasciato uno strascico di antiamericanismo destrorso e ha deciso per la Grecia: sane vacanze alle origini della nostra romana civiltà. Insomma sia da destra che da sinistra arrivano sconsigli al mio viaggio americano.

L'ultima notte a Roma non riesco a dormire. Mi rombano nel cervello frasi come " How do you do?", "I am coming from Rome", "I am Italian and my name is Ernesto", "I am a writer, a ....." come si dice sceneggiatore? In preda al panico balzo dal letto e mi tuffo sul dizionario: si dice "screenplayer"!

Torno a letto ma subito altre frasette mi assalgono: "I like America very much", "How much for this?","I want a ticket to go...", "Is this NewYork?" e che diavolo, saprò riconoscere NewYork!

Ho comprato tre guide della città e le ho studiate con attenzione, e poi ho già una certa pratica.

Non sono mai stato a NewYork, ma prima che il cinema mi ammettesse nel ristretto cerchio degli scrittori pagati, usavo (questo è "I used to...", spesso mentre parlo in italiano sorprendo il mio cervello che traduce in inglese, automaticamente, per conto suo. Non so se è bene o se è l'inizio di una crisi nervosa), stavo dicendo, I was saying, che prima di guadagnare col cinema, per mangiare scrivevo, con pseudonimi americani, libri gialli ambientati a NewYork. Per renderli credibili mi ero comprato una pianta della città e così potevo far correre Jack Migol, il detective dalla vendetta facile, con la sua spider rossa giù per la Bowery, farlo girare a destra per Canal Street e fargli imboccare l' Holland Tunnel senza timore di contestazioni topografiche.

Poiché di gialli falsamericani ne avevo scritti tanti, mi ero impratichito di NewYork e adesso quando le guide mi confermano che sulla First Avenue si può mangiare il filetto alla romana, vitello tonnato e "pastas" al ristorante Parioli Romanissimo e che all'incrocio tra la Central Park West e la 79esima c'è il museo di Storia Naturale col planetario, mi sembra di esserci stato.

Ho localizzato decine di negozi, di palazzi, di musei, di club e di ristoranti per cercare di darmi coraggio e di sentirmi meno straniero quando formicherò sul fondo di quei canyon di vetrocemento in mezzo a yuppies e homeless di ogni razza senza capire una parola di quel che mi diranno.

Si incrociano le ultime lettere di conferma con gli scambiatori americani: com'è il clima in Italia d'estate? Very nice. Com'è il mare? Very clean. Che fare contro la mafia? Nothing, come i nostri governi.

Chiedo ai Mangione di Newton come sono i neighborougs e mi rispondono che sono tranquilli. Gli abitanti? Cordiali! Boston? Bellissima e sicura. Anche da Atlanta identiche risposte. Via col vento!

Sergio Leone si liscia la barba poi fa un po' di ginnastica nervosa aprendo e chiudendo le mani:

- Quando abbiamo girato "Il Mio Nome é Nessuno" a New Orleans abbiamo dovuto pagare la mafia locale per evitare guai e a New York c'è un morto ammazzato ogni dieci minuti.-

Alzo le spalle stoico:

- Tanto a NewYork ci staremo solo tre giorni...- scoprirò anni dopo che la mafia il povero Leone l'aveva nella troupe italiana che gli fece credere di aver dovuto pagare centomila dollari ad un'inesistente padrino di New Orleans.

Tonino Valerii, il regista che ha guardato negli occhi Henry Fonda mentre diceva battute scritte da me, ora mi fissa pieno di apprensione:

- E le bombe?-

Siamo a quello che ci sembra il boom del terrorismo arabo ed è un boom che esplode con tremenda frequenza anche se nessuno pensa ancora alle Twins. Rassicuro Tonino enumerando sulle dita le precauzioni prese:

- Primo: passaporti italiani perché dopo Sigonella gli arabi ci amano. Secondo: linee aeree non statunitensi, non ebraiche e non inglesi per evitare l'IRA e non spagnole per evitare l'ETA. Terzo: via Bruxelles che é la rotta più tranquilla e quarto se scoppierà una bomba sull'aereo nemmeno ci accorgeremo di morire. -

- Io vado a fare i bagni a Roseto.- conclude in tono saggio Tonino. Non l'ho convinto.

 

CAPITOLO III

IL PRIMO GIORNO DEL PRIMO VIAGGIO DEL PRIMO SCAMBIO

Sono le sette del mattino, ora abitualmente poco vissuta da tutta la famiglia. Io sono uno scrittore notturno e le mogli degli scrittori notturni sono amanti dell'alba, non perché a loro piacciono le albe, ma perché fanno l'amore all'alba e tendono poi a dormire fino a mezzogiorno.

In quella che ancora ci sembra, per mancanza di confronti, una gigantesca hall d'aeroporto, la Sgnuffi è un grappolo di borse: acini turgidi di tele colorate, di vera pelle e di plastiche accese, dondolano ad ogni movimento dei suoi fianchi. Si ferma con aria interrogativa in mezzo a due gigantesche valigie di nylon blu munite di rotelle. Sta mimando la battuta: "Chi sarà l'uomo infame che costringe questa bellissima donna esile e frale a questo facchinaggio pesante?"

- Ognuno porterà la sua roba!- avevo sentenziato una settimana prima vedendo in corridoio allinearsi innumeri bagagli di ogni foggia e dimensione- Siamo turisti non profughi!- avevo ironizzato ben sicuro di non ottenere risultato alcuno.

Vista non sufficiente l'aria interrogativa, adesso la Sgnuffi si piega sulla destra per acchiappare la maniglia della prima valigia in una cascata di tracolle e borse a cui cerca di rimediare spingendo in alto le sue rotondità posteriori. Un marocchino, per non perdersi la visione, travolge col carrettino delle valigie un agente armato di mitra e viene sottoposto a perquisizione dettagliata per la ricerca della bomba, vera ossessione del momento.

La Sgnuffi é riuscita ad abbrancare il guinzaglio della valigia alla sua destra e ora pencola sulla propria sinistra in un ondeggiare furioso di acini rigonfi.

- Unicuique suum...- sorrido umanisticamente soddisfatto mentre poggio sui rulli il mio unico valigione. Sciltian appoggia il suo borsone dietro alla mia valigia e resta coi suoi due zaini sulle spalle: dentro ci sono i libri di scuola. E' bello avere un figlio studioso ma spero che non si annoierà tanto da doverli aprire.

La mia bionda concubina ha finalmente agguantato il guinzaglio della valigia di sinistra e sta riacquistando un precario equilibrio messo in forse dalle teorie degli attrattori strani che non fanno mai ripassare le ciondolanti borse due volte per gli stessi punti, e tira con tutte le sue forze.

Le ruotine delle valigione, carcate da mezzo quintale di short, T-shirt, pullover, collant, jeans, body, baby-doll and so on, si sentono già arrivate e non girano più.

Diventa tutta rossa la Sgnuffi, per lo sforzo che enfatizza come uno schiavo egizio incatenato ad un blocco di arenaria per la piramide di Cheope.

Sento su di me lo sguardo critico della hostess della Sabena e corro a liberare lo schiavo prendendo io le sue catene: le valigione immense si muovono solo se alzate di peso e portate sulla tela semovente a rischio di ernia.

La hostess guarda la pesa, fa un conto e mi sorride: con questa quintalata, dividendo per tre il peso complessivo dei bagagli si hanno quarantacinque chili per uno. Ci sarebbe da pagare un piccolo extra. La Sgnuffi protesta sostenendo che lei pesa soltanto 49 chili e che la somma andrebbe fatta peso viaggiatore più peso bagaglio. Un ciccione che aspetta pazientemente dietro noi scuote i suoi boccoloni rossi in evidente disaccordo.

I belgi vogliono lanciare la loro compagnia di bandiera e accettano la teoria della Sgnuffi che guarda le sue due valigie sparire nelle fauci orlate di gomma portate dal tapis-roulant e mi dà un'occhiata di apprensione:

- Sicuro che ce le mandano a Boston?-

Ho un gesto di invito alla speranza ma mi rendo conto che non basta e insisto con la hostess che controlli bene le etichette sui bagagli perché nonostante che il nostro biglietto sia fino ad Atlanta, Georgia, noi ci fermeremo a Boston, Massachusetts.

La hostess mi sorride tutta denti: non mi devo preoccupare, loro belgi sono molto attenti: troverò il bagaglio all’aeroporto di Boston. La Sgnuffi mi guarda perplessa: non mi resta che sperare nella Sabena, altrimenti sarà colpa mia.

Cerco la mano della Sgnuffi ma non la trovo nel grappolo delle borse e la tiro via per la tracolla del beauty-case. Il Prucino segue, cercando di dare al suo viso paffuto e infantile un'aria cosmopolita e mi dice serio:

- Papà, non chiamarmi più Prucino. Chiamami Sciltian.-

Il controllo dei bagagli a mano avviene tra uomini armati di mitra. Il mio borsetto supera indenne i raggi X mentre le borse di Mara scatenano tutte le suonerie.

Scatole di creme, tubetti di gel, forbicine per manicure, forcine e bigodini per capelli, tutto finisce sul banco per una divertita ispezione di giovani poliziotti a cui la Sgnuffi fa occhioni da gazzella umidi di innocenza.

Passate le borse é la volta della Sgnuffi che supera le forche caudine del metal-detector in un allegro trillare di campanelli. I poliziotti si fanno più attenti: ora la Sgnuffi si deve spogliare dei suoi metalli: venticinque cerchietti d'oro che le vanno dal polso al gomito, uno per ogni anno di felice matrimonio, otto anelli uno per dito meno i pollici, un intreccio di catene e catenine d'oro e d'argento con ottantadue ciondoli, due cascate di anelli d'oro una per orecchio e cinque grosse forcine ondulate piantate nella folta chioma bionda.

Potrebbero fermarla per esportazione non autorizzata di tesori nazionali ma la negligente ostentazione con cui la Sgnuffi si mette e si leva tutto quel metallo suggerisce più bigiotteria di piazza Vittorio che ori di Bulgari.

Per Sciltian è il primo volo e lo consuma col naso incollato al doppio vetro dell'oblò a guardare nuvole di panna. Io passo gran parte del tempo a cercar posto per allungare le gambe senza sgambettare le hostess che sgambettano su e giù fra le file dei sedili.

Atterriamo a Bruxelles accolti da una pioggerellina belga sporca di carbone. Sono le nove e l'aereo per Boston partirà alle dieci e mezza. Una brioche e un cappuccino mi costringono a tirar fuori il mio francese che quando arriva in bocca si impiglia così drammaticamente con l'inglese della full immersion che il barista mi risponde con l'ironia di Jeeves. Eppure sono stato per trent'anni orgoglioso del mio francese imparato sui diari di Casanova quando avevo tredici anni.

Anche all'ufficio bagagli sono costretto a bofonchiare in inglese per chiedere, su incitamento della Sgnuffi, se le nostre valigie siano state messe sull'aereo per Boston. L'impiegato ci guarda come poveri buzzurri e annuisce: of course. Di corsa.

L'aereo rulla sulla pista, stavolta dietro al finestrino ci sono io e sento una stretta al cuore: sto per lasciare il vecchio continente. Come già Colombo, sto puntando verso il nuovo mondo. Intorno si incrociano incomprensibili frasi che temo siano inglesi. I motori salgono di giri, fremono le strutture, vibrano le poltrone, frullano nell'aria frettolose parole e poi un fischio sottile si acuisce negli ultrasuoni e scompare: silenzio, si vola!

Non appena l'aereo acquista ala e vira ampio, il chiacchiericcio riprende fitto mentre la terra si abbassa sotto di noi. Nessuno guarda fuori dagli oblò, aprono il giornale, sistemano meglio lo schienale per un pisolino, si lasciano sommergere dai propri pensieri assumendo quelle facce vuote che mi ricordano quelle dei pendolari sul trenino della sera che portava ai Castelli.

L'aereo punta verso l'alto. Torco il collo per guardare il cielo, la faccia schiacciata sulla plastica del finestrino: lassù l'azzurro si stinge in un color cappuccino. Affascinato guardo quel marrone che incupisce al salire dell'aereo verso la quota di traversata mentre torna il disperato sogno della mia adolescenza di navigare nel nero dello spazio e diventare un veterano abbronzato da centinaia di soli...

In uno squarcio di nubi, piccola e frastagliata sotto di me, la Gran Bretagna verdemarrone su sfondo cobalto. Caro Shakespeare, essere o non essere? Non so ai tempi tuoi ma adesso essere, prick, essere!

 

CAPITOLO IV

TERRA! TERRA!

- Il pianeta gira verso oriente dandoci l'impressione che il sole si sposti verso occidente- spiego con la gioia di chi vuol travasare nel figlio la propria sapienza- Noi voliamo in senso contrario al movimento della Terra e così guadagniamo ore. Il volo durerà circa 7 ore ma quando noi arriveremo a Boston saranno solo le tre del pomeriggio invece delle cinque e mezza e dovremo mettere a posto gli orologi.-

- Allora continuando a volare così andremmo indietro nel tempo!-

Spiego che c'è un meridiano nel Pacifico per il cambio data ma perdo l'attenzione di Sciltian che ha visto qualcosa nell'Oceano e mi invita a guardare.

- Cosa sono?-

Il mare è punteggiato da piccoli scogli bianchi alla deriva.

- Iceberg! Ma... avesse sbagliato rotta 'sto pilota!-

La Sgnuffi si torce e dà un'occhiata giudiziosa:

- L'avevo detto io che era meglio se portavo anche una pelliccia!-

- A luglio? Andiamo a Boston, mica al polo...- ma quegli iceberg là sotto mi smentiscono con l'evidenza delle cose.

C'è una carta con le rotte della Sabena e seguo col dito quella che unisce Bruxelles con Boston e che si inarca molto verso nord. Un rigurgito dei miei studi nautici mi fa esclamare: - Rotta ortodromica! Ma certo! Vedi, Sciltian, la rotta più breve non è quella che sembra sull'atlante per via della deformazione che la carta subisce per la proiezione di Mercatore...-

Sciltian neanche mi ascolta. Guarda eccitato quei brandelli di ghiaccio sul blu intenso del mare ed è giusto che non gliene importi niente delle proiezioni di Mercatore.

L'aereo si sta abbassando: nitidissimo, elegante, l'arco di terra di Cape Code, punto di arrivo della rotta sbagliata percorsa dai Padri Pellegrini.

Un'ampia virata mi riporta sul blu assoluto dell'Atlantico mentre la voce del capitano annuncia in inglese e in francese che stiamo scendendo su Boston.

Mi incollo alla plastica rigata del mio oblò: so che questo primo sguardo sarà l'eterno simbolico ricordo che assocerò alle parole "Stati Uniti". Sento le dendriti dei miei neuroni fremere pronte allo scatto per creare nuove sinapsi e collegare finalmente un'immagine diretta ai milioni di parole immagazzinate sull'America nel corso di tutta la vita.

L'aereo sfonda un velo di nuvole: siamo già bassi! Sotto di me, come un gioco per bambini, centinaia e centinaia di casette coi tette aguzzi, disposte a file, a cerchi, a quadrati, inframmezzate dal verde e punteggiate da minuscoli laghetti blu, come un presepe infinito.

Voliamo sui tetti, sui giardini, sulle piscine e io lascio che tutto mi entri negli occhi, a cascata: l'America!

Ecco cos'è l'America: non le torri di Manhattan, non le autostrade a ghirigoro, non le praterie dei pellerossa, i deserti del west, non i bronx, le quinte avenue, i golden gate, le statue della libertà, non Al Capone, Kennedy, Marilyn Monroe, non gli shuttle, l'IBM, la General Motors, no, l'America è fatta da milioni di casette col pratino davanti e dietro e una famiglia dentro.

Un insetto mi solletica una guancia. Lo caccio con gesto istintivo e mi trovo la punta delle dita bagnate. Le casette commuovono, i nostri palazzoni di appartamenti fanno orrore. Qualcosa di ancestrale mi fa preferire tane individuali separate a favi razionalmente sovrapposti. Bestia per bestia, meglio un mammifero che un insetto.

Dobbiamo allacciare le cinture, il capitano ringrazia e comunica che fuori ci sono 72 gradi. La Sgnuffi sussulta: non ha preso le creme solari a copertura totale! La tranquillizzo, sono Fahrenheit, tradotto in gradi nostrani vuol dire che non fa né caldo né freddo.

Con un doppio sobbalzo l'aereo tocca il suolo americano e si trasforma in pullman correndo per alcuni chilometri su immense autostrade asfaltate fino ad attaccarsi ad un grande tubo. Caro Cristoforo, sono arrivato anch'io!

La hostess ci sorride in inglese. Un passeggero mi urta e si scusa in inglese. Ci avviamo coi nostri bagagli a mano lungo un corridoio infinito punteggiato da grandi scritte luminose in inglese.

Un'onda di irrealtà mi accarezza come se stessi per svegliarmi. Ho la sensazione di essere un alieno, di apparire mostruoso agli abitanti di questo pianeta sconosciuto. Respiro profondo ma anche l'aria è diversa, come se miliardi di parole inglesi avessero lasciato in essa impronte ignote, viene voglia di parlare romanesco ad alta voce per crearsi un alone di concretezza.

L'immensità delle strutture fa sentire piccoli. La Sgnuffi ciondola le sue borse naso all'aria e Sciltian individua la freccia, lunga una decina di metri, che ci invita a scendere nel sottosuolo per ritirare i nostri bagagli.

Dozzine di grandi anelli semoventi, affollati come tavoli di un immenso casinò, fan fare passerella a valigie di ogni forma e colore.

Schermi televisivi avvertono su quale ruota usciranno i bagagli provenienti da Bruxelles.

Minuti di suspense: la valigia mia arriva subito, quella di Sciltian poco dopo, ma occorrono dieci giri prima che appaiano i due monoliti blu della Sgnuffi. Il volto apprensivo della donna mia si distende in un sorriso di autocompiacimento: se non arrivavano era colpa mia, ma poiché sono là il merito è delle grosse etichette che lei ci ha incollato sopra.

I belgi avevano ragione di vantare la loro precisione e li maledico mentre carico le valigie da ernia su un carrello spingendolo, stile Sisifo, verso il controllo passaporti.

La folla bianca gialla e nera si autordina in una ventina di code che si allineano perfettamente parallele davanti a uomini in divisa da cui dipende il nostro ingresso negli Stati Uniti.

C'è una riga gialla disegnata sul pavimento e nessuno la supera. Uno alla volta i passeggeri sono ammessi oltre la linea e mostrano il passaporto con sincronismi anglosassoni. Eppure questa gente è ben lontana dal cliché inglese: il colore predominante è lo scuro avvolto in stoffe stampate con colori chiassosi, scarpe da tennis, braconi al ginocchio e borsoni sgargianti. Proprio non sembrano dei milord ma nessuno supera la linea gialla, nessuno cerca di fare il furbo e passare davanti agli altri. Vuoi vedere che questi cafoni colorati son più civili dei discendenti di Cesare?

Per mimesi diventiamo anche noi diligentissimi e perfetti e quando tocca a me mi fermo col piede a due dita dalla linea gialla ben attento a non pestarla. Ci fan cenno di procedere: io, la Sgnuffi e Sciltian ci presentiamo all'esame d'ammissione.

Il funzionario mi chiede qualcosa in una lingua sconosciuta. Lo fisso frastornato. Lui ripete, insistendo in quei suoni assurdi. L'emozione me li dilata sollevandomi echi nelle orecchie. Sciltian mi tira per la giacca:

- Vuol sapere che mestiere fai.-

- E se siamo qui per affari o per turismo.- rincara la Sgnuffi.

Il funzionario chiama con un cenno una brunetta che mi sorride e mi chiede in bell'italiano che mestiere faccio e se siamo in America per turismo. Confermo confuso e avvilito.

Peggio di così l'impatto con l'inglese non poteva essere, potrò in futuro scrivere capolavori in questa lingua ma la Sgnuffi mi rinfaccerà a vita questo tragico primo incontro. Mi consolo pensando che la vita é breve.

Oltre il controllo passaporti aspetta una folla tutta mani agitantisi, richiami, saluti, e festosi cartelli.

Mister Mangione mi ha scritto che ci sarà una sua vicina di casa ad aspettarci all'aeroporto mentre a Roma lui incontrerà Riccardo, mio figlio-in-legge, che lo porterà al Circeo.

In terza fila, un grande cartello bianco annuncia a caratteri cubitali GASTALDI. Qualcuno lo agita per attirare l'attenzione ma non si vede chi, coperto da una fila di bambini. Mangione mi ha mandato un nano?

E' una piccola signora dalla zazzera grigia, un condensato di vivacità, che saltella per superare le teste dei piccoli che le fanno schermo: levo alto un braccio e lo agito. Dal suo metro e pochi devo sembrarle un gigante: ma gli americani non sono tutti altissimi?

Questa mi arriva poco più su della cintura, le stringo la mano con un falsamente sicuro "how do you do?" seguito da un poco speranzoso "Do you speak italian?".

La piccola donna sì è messa in moto, veloce come un uccello, ha stretto la mano a Mara alleggerendola di un grappolo di borse, dato un buffetto a Sciltian, detto tre volte "how do you do" seguito da un suono che è probabilmente il suo nome, buttato il cartello in un portarifiuti, scosso la testa per rispondere alla mia domanda, tirato fuori dei bigliettini da una tasca della giacca, trovato quello giusto e ora avviandosi di buon passo dice con improbabile cadenza e accenti casuali:

- Ho la maia macchìna. Vénite.-

Sciltian si illumina: allora parla italiano, male ma lo parla! No, lo legge soltanto senza sapere quello che dice. Qualcuno le ha preparato i biglietti e quello è il numero uno. Se lo infila nella tasca dei biglietti usati e ci precede come un soldatino verso gli immensi parcheggi i cui vetri specchiano l'azzurro chiaro del cielo, oltre un ardito cavalcavia che supera un'autostrada a dodici corsie separata al centro da uno spartitraffico verde largo come un campo di calcio. La seguo, iniziando la traversata e spingendo il mio carrello, i muscoli gonfi come uno schiavo mandingo.

E' veloce e dopo duecento metri ansimo e rallento supplicando Sciltian:

- Dì a Motorino che si metta in folle...-

Sciltian ride. La vispa signora battezzata Motorino sorride senza capire e senza rallentare. La Sgnuffi mi fa un cenno imperioso affinché mi affretti.

Sciltian guarda in su. Anch'io guardo in su ma c'è soltanto un gran sole.

- Il sole americano, papà. E' proprio come nei telefilm: più luminoso del nostro.-

Ha gli occhi socchiusi, il naso arricciato e l'aria felice. Perché sciupare la magia spiegandogli che il sole è il medesimo e anche la latitudine è quasi la stessa? A lui qui il sole sembra più luminoso, forse lo è davvero perché anche a me i colori sembrano più vividi per l'intensità nuova con cui guardo le cose.

Motorino si è infilata sotto la volta di un sconfinato hangar pieno di lussuose auto allineate in schiere perfette, disposte su più piani uniti da fantascientifiche piste che si avvolgono verso l'alto.

L'americanina spalanca le portiere di un'auto giapponese dalla linea filante e ci sistemiamo alla meglio riempiendo ogni volume coi nostri enormi bagagli. Mi siedo accanto a Motorino appassionatamente abbracciato ad uno dei valigioni della Sgnuffi. La donnetta avvia l'auto e allinea sulla sua gamba destra tre striscioline di carta fittamente scritte. Legge la prima che porta un vistoso numero due in un angolo:

- Avete àvuto un buon vaiaggiò?-

- Yes.-

L'auto corre in mezzo al verde. Vorrei chiederle dov'è Boston, se Newton è lontana, vorrei comunicarle tutta la mia simpatia e la mia gratitudine per essere venuta a prenderci all'aeroporto e le dico:

- Thank you for...- lascio in sospeso sperando che capisca. Motorino annuisce e legge il bigliettino numero tre:

- Aio sono una àmica of Mangiionis...-

Biglietto inutile. L'avevamo capito.

Motorino guida su per bellissimi viali sinuosi, passiamo accanto ad un laghetto con gente che nuota e prende il sole e faccio notare alla Sgnuffi che probabilmente la pelliccia non serve. Legge il biglietto numero quattro:

- Qvesto lago di Newton Highlands.-

- Bello...- sono vivamente preoccupato. Abbiamo svoltato otto volte a destra e sei a sinistra lungo viali tutti uguali, fra villette tutte diverse ma rese uguali dal veloce susseguirsi di facciate, patii, prati all'inglese perfettamente rasati, piscine di ogni forma e dimensione.

- Uh guarda!- Sciltian mi indica qualcosa con entusiastica meraviglia. Cip e Ciop saltellano su un prato, le guance gonfie di arachidi. Sposto il mezzo quintale che mi grava addosso e indico i due scoiattoli alla Sgnuffi:

- Due scoiattoli!-

La Sgnuffi si illumina di gioia e lancia un urletto di incredulità:

- Là! Altri due!-

Le allegre bestiole si inseguono velocissime, salgono sugli alberi, discendono, saltano fra i rami. Altri se ne aggiungono, in un carosello di squittii. Al nostro passare gli scoiattoli si bloccano e ci guardano masticando con le loro buffe guanciotte a palloncino, ritti sulle zampe posteriori.

Motorino cerca con lo sguardo il motivo del nostro entusiasmo ma non lo trova. Ci dà un'occhiata critica e mi sento di nuovo marziano quando conclude con un gesto di indifferenza:

- Squirrels.-

Prati, alberi enormi, cespugli di fiori, facciate di ville in mattoni rossi o in legno dipinto e dovunque squirrel che ballano, si rincorrono, saltellano o stanno immobili come pupazzi a fissarci coi loro occhi tondi.

Sciltian batte le mani eccitato e Motorino mi dà un'altra di quelle occhiate di disagio e ripete:

- Only squirrels.-

Vorrei dirle che da noi è raro vedere degli scoiattoli e mai in mezzo alle case. Vorrei dirle che è bello perché quegli animaletti allegri ci han dato il miglior benvenuto nel loro paese e dico:

- Squirrels... beautiful.-

Ormai ho perso il conto dei giri fatti nel labirinto di viali, quando Motorino ferma l'auto davanti ad una villetta in legno color crema dai tetti aguzzi come quelle delle fiabe.

Chiuso in un grande prato cintato con una rete metallica un cagnetto abbaia festoso spiccando grandi salti contro il cancello. Riesce ad aprire il catenaccio e corre davanti alla macchina con frenetici balzi e patetici scodinzolamenti del suo moncherino di coda.

- Banji!- esclama Motorino balzando a terra. Spalanchiamo le portiere e Banji mi saltella felice contro le gambe come se fossi il suo Ulisse tornato a Itaca.

Motorino lo prende in braccio e torna a chiuderlo nel prato ammonendolo nella sua lingua, poi saltella su per i tre scalini che immettono in un piccolo patio e spinge una porta a vetri invitandoci a entrare.

Arrancando coi valigioni della Sgnuffi chiedo nella strozza

- It is open?-

Motorino mi guarda e mi offre una chiave:

- This is the key. Don't use it. There is a tenant on the third floor.-

Chissà se ho capito: non devo usare la chiave perché c'é un tenente al terzo piano... non ha molto senso.

Motorino se ne va lasciando sospese nell'aria frasi gentili nel tono ma incomprensibili nella sostanza.

 

CAPITOLO V

NEWTON HIGHLANDS

E' affascinante entrare da padroni in casa d'altri. Andiamo in esplorazione cominciando dalla cucina grande come un salone con un acquaio da albergo, un frigo a doppia porta per conservare provviste nel caso di un assedio tipo Fort Apache, un tavolone da pranzo per la truppa, mobile gas con forno a sei fuochi per cuocere i bisonti e un grosso cubo pieno di comandi elettronici: un forno a microonde, sconosciuto in Italia in questo beato Ottantacinque.

Un finestrone, buono come uscita d'emergenza, si apre a ottanta centimetri da terra rendendo abbastanza inutili le porte.

Il living col televisore è poco più grande della cucina, mobili in stile coloniale, poltrone ricoperte di stoffa color sacco, diviso dalla sala da pranzo per gli ospiti di riguardo da una vetrata pieghevole. Una lucida scala di mogano porta sotto terra e ai piani superiori.

Quello che c'è sottoterra si chiama basement ed è ingombro di attrezzi d'ogni tipo come se un giardiniere, un fabbro e un falegname vi facessero deposito. Sopra ci sono le stanze da letto: quattro, disposte lungo un corridoio in legno scuro che si affaccia a balconata sulla scala. La Sgnuffi sceglie subito la nostra: una matrimoniale tutta rosa col letto incastonato in una veranda trapezoidale tutto coperto di fronzoli e trine.

Le finestre a ghigliottina, non ci sono persiane e la privacy è difesa da esili trasparenti tendine a molla che si possono calare dall'interno.

- Ecco un posto che non sarà mai buio... - brontolo.

Sciltian si stabilisce in fondo al corridoio in una cameretta ad un letto, molto vezzosa poiché mister Mangione ha solo figlie femmine. Una delle camere ha una porta che dà nel sottotetto: una profondità buia ingombra di vecchie bambole, cavalli a dondolo, cassettoni da pioniere e polverosi grovigli di ferro e di legno dai contorni misteriosi e inquietanti.

La scala si stringe e sale al terzo piano. Esploriamo in fila indiana fino ad una porta chiusa. Tentiamo la maniglia e l'uscio si apre: un grosso gatto d'angora ci soffia un malvenuto. La stangona in bikini che salta giù dal letto invece ci sorride accogliente e parte con una mitragliata d'inglese micidiale.

- Excuse me... excuse me...- cerco di ritirarmi salendo sui piedi di Sciltian che occhieggia da dietro ma l'amazzone scuote la lunga criniera e sorride a sincerità garantita sparando una seconda raffica in cui riesco a isolare la parola "tenant". Allora il tenente è lei!

Suona il telefono nel living e corro giù liberato, ma mi blocco davanti all'apparecchio nero e trillante. Se lo alzo qualcuno mi parlerà in quella lingua sconosciuta che usano qui.

- Papà, non rispondi?- mi sollecita Sciltian e nessun padre può mostrarsi vile davanti ad un figlio di undici anni. Sollevo la cornetta e una voce di donna mi aggredisce con entusiasmo e calore:

-Hallo! Blow-shon-blow-shon-bloubloublé... eibl, leibl, cassel... right? Blow-shon-blow-shon wonderful, aichén, aicàn, maiqun, ya? Gudtrip, gudtrap, yordick, no?...Aiem aion welcomiar...me Corsetti, Gastaldi's there?- So che Gastaldi sono io, Corsetti dev'essere quella che tartaglia questi suoni nasali.

Una donna spinge la porta d'ingresso ed entra sorridendo gioviale:

- Nice to meet you! I'm Paula!-

Ho un'idea luminosa, rispondo "nice to meet you" a Paula e le passo la cornetta del telefono.

Parla fitto e incomprensibile poi attacca la cornetta e torna ad investirmi con un inglese strettissimo e veloce. Le fisso invano le labbra: non le muove. I bostoniani parlano con un sette ottavi di bocca immobile.

Ho un'arma pronta mandata a memoria:

- If you speak slowly may be I understand a little.-

- Oh sorry!- si scusa Paula e riprende a parlare rallentando sulle prime tre sillabe e poi riconquistando la consueta velocità.

Mando sotto la Sgnuffi, che sa l'inglese quanto me ma ha molto più faccia tosta e abilità nella comunicazione gestuale. Me la ricordo anni fa a Praga dialogare per ore con una cecoslovacca usando parole italiane, mimica e disegnini.

Paula aspetta invano risposta ad una sua domanda e la Sgnuffi indica la villetta accanto alla nostra (nostra per un mese a tutti gli effetti). Paula annuisce vigorosamente. Punta il dito sul suo ampio petto e poi indica anch'ella la villetta. Abbiamo capito che abita là ed è quindi la nostra vicina di casa.

La Sgnuffi indica le nostre valigie chiuse e mima il gesto di aprirle aggiungendo la parola "baggage" tre o quattro volte. Paula annuisce e sorride e dice qualcosa che deve significare che ci lascerà aprire le valige in pace, poi fa il gesto di mangiare e noi annuiamo in gruppo. Aggiunge gesti e inutili suoni rapidi e se ne va soddisfatta. Restiamo con l'atroce dubbio: si è invitata a cena o ci ha invitati a cena?

Sistemati i nostri panni negli armadi che i nostri ospiti hanno vuotato per noi, iniziamo la nostra vita di neoamericani.

Il monumentale frigo dei Mangione è pieno di cibi surgelati ma ci sembra brutto saccheggiarlo e andiamo a fare la spesa. C'é una mappa sul tavolo della cucina con dei punti strategici segnati in rosso: chiesa e supermarket. Anima e corpo. Studio la strada che porta al cibo, sorrido alla famiglia per mostrare una sicurezza che non ho, agito le chiavi dell'auto che ho trovato sulla mappa ed esclamo:

- Let's go!-

Un saluto allo scodinzolante Banji e ci sediamo nella lucidissima Chevrolet Cavalier color amaranto che luccica nel box spalancato.

Infilo la chiavetta, si accendono dozzine di spie luminose e rintocca un campanellino di avvertimento. Il piede sinistro non trova il pedale della frizione, guardo la leva del cambio e leggo 1, 2, P , N e R. Cambio automatico, per me nuovo del tutto.

Metto la leva su N che spero stia per Neutro e accendo il motore che ronza ai limiti dell'udibile mentre il campanellino si fa più petulante. Lampeggia un disegnino sul cruscotto: l'auto vuole che mi allacci la cintura.

Obbedisco e con cautela sposto la leva su R che spero significhi retromarcia. L'auto va dolcemente all'indietro uscendo tutta dal box. Banji abbaia il suo applauso per la bella manovra.

Innesto sul segno 2. Do gas: la Chevrolet scivola in avanti e imbocco il viale sulla destra: do un'occhiata al retrovisore e controllo la mia faccia. Sono io e sto guidando un'auto americana su una strada americana. C'è tutta una subcultura stratificata dentro di me, fin da quando sul finire degli anni Quaranta l'ondata dei film Usa del dopoguerra riempì la mia fantasia di bambino con grandi Cadillac colorate che poi, adolescente, vidi sfasciare con assoluta noncuranza nelle gare senza senso della gioventù bruciata. E i film "on the road" diedero immagini alla mia idea di libertà con quelle strade dritte e infinite che dividono a metà oceani di terra come i sognati canali di Marte.

Gas. Brake. Gas... Acceleratore e freno come nelle automobiline delle giostre. E io sono un bambino felice. Che sia questa la magia dell'America?

Davanti alle grandi arcate del supermarket c'è un piazzale asfaltato diviso in centinaia di rettangoli colorati, in parte occupati da automobili.

Ne occupo uno anch'io con la precisione di una pedina su una scacchiera gigante.

Scendiamo nel sole ed entriamo nel supermercato dove l'America spalanca davanti ai nostri italici occhi tutta la sua opulenza gelata in un'aria siberiana.

Immobili per la meraviglia e per lo shock termico guardiamo le file di alti scaffali colmi di tutto ciò che si possa immaginare di voler comprare.

La realtà mi arriva come se la guardassi attraverso una lente da ingrandimento, sono tornato piccolo e ogni cosa è tre volte più grande: i pomodori son grossi come meloni, le fragole grosse come pomodori, la scatola del sapone in polvere sembra il baule della nonna e l'olio è offerto in damigiane da imbottigliamento. Sciltian si aggrappa ad un carrello grande come un vagone merci e lo spinge verso una piramide cheopiana di grosse mele lucide stile Biancaneve.

- Aspetta! - gli dico- che qui ci perdiamo...-

Nei grandi corridoi fra gli scaffali massaie rubizze caricano carrelli con ritmi da portuali e immensi culi di negre gonfi nello sforzo spingono cumuli di masserizie sufficienti per un ormai improbabile day after.

Do un'occhiata apprensiva ai prezzi. Una bistecca da due libbre costa dollari 4.99, una tanica di latte da tre litri e mezzo costa 1.29, una libbra di salmone fresco costa 4.79 e un'aragosta enorme é prezzata 4 dollari.

La Sgnuffi guarda i miei occhi tondi con amarezza incipiente:

- E' carissimo, vero?-

Esco dai miei conteggi e sogghigno:

- Raddoppia e moltiplica per mille, avrai il prezzo in lire.-

La Sgnuffi dà un'occhiata ai cartellini dei prezzi e poi ripete con sottile angoscia:

- E' tutto troppo caro?-

- Caro? Non costa niente!!- abbranco un gallone di latte, due libbre di salmone, tre

aragoste, quattro chili di bisteccone alla fiorentina, cinque ananas e butto tutto nel carrellone da trasporto.

Sciltian e la Sgnuffi mi guardano sbalorditi, poi l'entusiasmo scoppia loro dentro e li travolge. Si gettano fra i cornucopiosi banchi come Lanzichenecchi al sacco di Roma. In due minuti il carrello è colmo e non ce la faccio più a spingerlo. Devo chiamare a raccolta i predoni e ordinargli di smettere. Sciltian mi aiuta a spostare la montagna di merce verso una delle trenta Casse sul fondo dell'hangar.

Sulle prime tre campeggiano grandi scritte luminose: less than 10 item only. Qui possono pagare soltanto quelli che han comprato meno di dieci articoli, ma chi riesce a comprare meno di dieci cose in questo ben di dio offerto a prezzo di liquidazione? Raggiungo una delle code allineate davanti alle restanti 27 casse e in pochi minuti tocca a noi a vuotare il vagone sul grande piano in acciaio inox davanti ad una simpatica negretta che ci saluta con un caldo sorriso e ci chiede:

- Cash or charge? - passando veloce le confezioni sulla finestrella del lettore del codice a barre. Un giovanottone in piedi dietro a lei sorride a Sciltian:

- Plastic or paper?-

Sono domande imbarazzanti quando non si ha idea del loro significato.

Sorrido col massimo di simpatia e poiché ho letto sulla cassa che il totale é di 62.40 dollari le porgo un biglietto da cento.

La negretta lo prende perplessa e dice qualcosa al giovanottone che si stringe nelle spalle e le risponde in bostoniano stretto. Scoprirò poi che gli americani preferiscono le carte di credito alle banconote di grosso taglio.

- Were are you coming from?-

- Italy.- rispondo orgoglioso di aver capito la domanda

Sulla faccetta nera si spande un'espressione sognante e sospira struggente:

- Oh Italy! I love Italy.-

- Have you been in Italy yet?- Hai stato in Italia già? chiedo lusingato.

- Never.- mi risponde con una smorfietta.

Il giovanottone ha riempito grosse borse di plastica e ora sorride a Sciltian soppesando la prima. Si porta una mano sul cavo del gomito e drizza il braccio in quello che in Italia è un gesto osceno da pugno in faccia:

- Are you strong?-

Il povero Sciltian undicenne guarda il colosso sbalordito e offeso.

- Strong vuol dire forte. Forte, capito? Vuol sapere se sei forte.-

Sciltian prende la borsa senza sorridere, non del tutto convinto.

La nostra casa americana non è a Newton ma a Newton Highlands, che vuol dire Alteterre, e deve suonare alle orecchie della Sgnuffi come qualcosa di nobiliare perché si infervora a spiegare di essere figlia di re alla malcapitata Paula che si è presentata con una padellata di gamberoni e dolci del Massachusetts alle diciotto col sole ancora alto, ora di cena locale.

Da qualche tempo la mia folle sicula metà ha deciso che per via di madre discende da quella lontanissima Ines De Castro, che avendo accompagnato Costanza di Castiglia a sposare Pietro, infante del Portogallo, si fece il principe che ci prese tanto gusto da farle fare tre figli. Opportunamente Costanza morì e il principe sposò Ines in segreto, ma il suocero-re la fece ammazzare insieme ai suoi tre figli mentre il principe era in guerra. Quando Pietro divenne re fece dissotterrare Ines, la mise sul trono, la incoronò regina e costrinse i dignitari di corte a baciarle la mano putrefatta. Cerimonia macabra di gusto greco-mafioso-agrigentino avvenuta anno più anno meno sei secoli e mezzo fa.

La Sgnuffi ha scoperto da un ritratto che quel re assomiglia ad un suo zio materno e questa è per lei una prova conclusiva di discendenza. Se le faccio notare che alla sventurata Ines uccisero tutti i figli e non possono esserci discendenti, la Sgnuffi mi risponde che è inutile discutere: un montanaro piemontese non può capire, lei è discendente del re del Portogallo punto e basta.

Queste cose dette in un inglese primitivo nei dintorni di Boston suonano credibili come un'antica leggenda indiana. Paula per tagliar corto sentenzia dando vita finalmente alle labbra:

- Here nobody ask who your parents are, but who you are.- che in italico suona "qui nessuno bada di chi sei figlio, importa solo chi sei tu."

Bellissima risposta anche se qui a Boston si dice che i Lowell parlano solo con i Cabots e i Cabots parlano solo con dio. E' la mia prima lezione di democrazia all'americana.

Una signora magra e bionda entra in cucina e si presenta sedendosi a tavola come una vecchia amica.

E' Sandy Corsetti e ci invita per domenica in chiesa, poi a cena a casa sua e ne va. Stiamo sgranocchiando i cookies di Paula quando torna Motorino. Nessuno bussa, (trattasi evidentemente di usanza esclusivamente europea) tutti entrano dalla porta sempre aperta come se fossero in casa propria. Sembrano autorizzati a far così dalla qualifica di "neighbors", parola che il mio dizionario traduce come "vicini di casa".

Andiamo a letto appena fa buio con la testa piena di inglese e lo sfinimento per le troppe novità e per il jet lag.

 

CAPITOLO VI

VITA DA AMERICANI

Motorino mi ha dato l'indirizzo di una scuola per Sciltian, la Newton South High School che fa corsi estivi per i ragazzi stranieri che dovranno poi frequentare i corsi scolastici regolari.

Parcheggio la mia lucida Chevrolet sul piazzale davanti al complesso scolastico, prendo per mano Sciltian ed entriamo.

Stiamo abituandoci al gigantismo americano e in una hall dalle vertiginose colonne chiedo informazioni. Straight on, on the left, on the right ... parla per due minuti il giovane inserviente e termina indicandomi un grande giardino: across the garden of course. Di corsa.

Attraversiamo il parco, entriamo in un secondo caseggiato di mattoni rossi e giriamo per vasti corridoi un po' a right e un po' a left e alla fine chiediamo aiuto. Veniamo condotti negli uffici di segreteria e Sciltian viene iscritto per tutto luglio. Una donzella dai capelli rossi gli sorride e gli dà un fascio di nuove istruzioni: la prima lezione sarà di lingua in un'aula in quello stesso piano, la seconda sarà di fotografia e bisogna avventurarsi nel labirinto, la terza è di disegno al secondo piano mentre le ultime due sono di baseball e si terranno nell'apposito campo, sempre of course.

Stiltian guarda la donna con grandi occhi pensosi e lei gli accarezza il caschetto a frangia che ancora incorona il suo volto paffuto da bambino mettendogli in mano una mappa della scuola.

- Problems?- gli chiede con sadica dolcezza.

- No problem.- risponde l’eroe partendo a mappa spiegata alla ricerca di Arianna. - Vuoi che t'accompagni?-

- Vado da solo.- Lo guardo allontanarsi per quei corridoi cosi grandi e mi sento orgoglioso di lui: questo è un uomo.

Pero' non sono tranquillo, gironzolo un po' con la macchina, vado a comprare del pane fresco, torno a casa e gioco con Banji. Che farà Sciltian? Starà ancora girando per corridoi che mettono in altri corridoi? E se ha trovato la sua aula, avrà stabilito rapporti coi compagni?

Quando è l’ora del baseball non resisto e vado a spiarlo: il campo è di fianco alla scuola. Mi nascondo dietro ad una fila di cespugli salutato da una coppia di scoiattoli che mi offrono una noce con insistenza.

Ci sono molti ragazzi, qualcuno è anche più piccolo di Sciltian. Ma lui dov’é? Eccolo! con la mazza in mano e il guantone, chino in attesa della palla.

Quando raccolgo stimoli nuovi la mia fantasia fa una capriola nell'infinito campo del possibile: a vent'anni ebbi un'offerta per trasferirmi negli USA e invece andai a Roma per frequentare il Centro Sperimentale di Cinema, se avessi accettato ... eccomi qui, padre americano che guarda il figlio che gioca a baseball, uno spicchio di un’esistenza alternativa... è così tragico poter vivere una vita soltanto!

- Sciltian go! Go! Go!- urla un coro di voci bianche mentre vedo mio figlio scattare verso la prima base.

Due ore dopo mi viene incontro Sul piazzale, sudato, emozionato e contento.

- Com’è andata?- Butta il cappelletto sul sedile posteriore della Chevrolet e mi risponde con l’arrogante supponenza dei boys allevati a yogurt, uova fritte e

bacon:

- No problem, Daddy!-

Siamo invitati a cena a casa di Motorino che ci presenta il marito: assomiglia un po' a David Niven, inglese, compassato, in assoluto controtempo con il metabolismo da colibrì della moglie.

Alle cinque e trenta ci mettiamo a tavola nel portico. La brava donnetta ci spiega che ci ha preparato una cena tipica del New England. Iniziamo con una pappina che mi ricorda le semole di quand'ero bambino e malato e continuiamo con un piatto di lattuga non condita e un cubo di merluzzo crudo. Finiamo con torta di mele e fame quasi intatta per la difficoltà di inghiottire il merluzzo, masticato assai più di un normale chewing-gum.

Alle dieci di sera, tornati a casa, la Sgnuffi ci fa un’abbondante carbonara. Mi sento un italianucolo da spaghetti.

Il giorno dopo è domenica e viene a prenderci la diafana cattolicissima Sandy che per brevità battezziamo Spirito Santo. Qui i cattolici sono una minoranza e vivono con grande passione la loro fede.

Dopo una lunga messa, sul piazzale ci presenta il parroco che è felice di stringere le mani a qualcuno che vede il Papa ogni domenica e ci propone subito di entrare in un comitato per discutere un problema nuovo per la comunità: c'era un solo bambino coreano ma da qualche giorno ne è arrivato un secondo.

Poiché non vedo il problema, Spirito Santo mi spiega che c'è una legge nel Massachusetts per cui se ci sono due bambini di una cultura aliena, la scuola ha l'obbligo di fare per qualche ora alla settimana lezione nella loro lingua d'origine sulla loro storia e letteratura. Il parroco ci guarda speranzoso ma devo deluderlo: nessuno di noi conosce il coreano né la storia della Corea. Spirito Santo e le altre signore sono angosciate: nessuno in quella comunità conosce il coreano, come fare?

Propongo loro di assumere una delle due madri dei nuovi arrivati e vengo festeggiato come pensatore geniale.

Spirito Santo ci porta a casa sua e ci presenta i suoi due figli che fanno subito amicizia con Sciltian sparendo ai piani alti della villetta per ammirare collezioni di francobolli e di monete. Bill, il marito, mi stringe la mano, mi dà una pacca sulla spalla, si diventa subito amici. Perfino il suo inglese mi giunge comprensibile: sarà che di cognome fa Corsetti e gli devono essere rimasti i muscoli delle labbra italiani.

La sera cena alla New England: siamo terrorizzati, ma stavolta il tavolo si copre di aragostone fumanti e coppette piene di burro fuso e bollente. La Sgnuffi deve superare qualche perplessità non essendo abituata a coniugare pesce e burro mentre per me piemontese è perfettamente normale. Tuffa nel burro fumante il midollo delle chele, assaggia e mugola di piacere. Come dappertutto, anche qui, c'è New England e New England!

Mi diverto con Sciltian a passeggiare nei grandi viali sinuosi, ammirando le ville e i giardini, alla scoperta continua di novità. C'è una sola vera strada a Newton Highlands: casette basse con negozi, costruzioni commerciali a dado che ricordano certe main street dei nostri centri balneari del sud sviluppatisi troppo in fretta. Davanti ad un ristorante c'è una coda che occupa trenta metri di marciapiede. L'insegna dice "Cantin'Abruzzi".

Paula ci dice che è uno dei migliori ristoranti di tutto lo Stato. Per ricambiare le sue gentilezze la invito a cena. Entro con la Sgnuffi per prenotare. Il padrone-cuoco ci guarda con gli occhi lucidi: italiani? Di Roma!

Ci abbraccia, ci presenta a sua moglie che gestisce il bar dall'altra parte della strada e ci fa un espresso così nero e denso da fare rabbia ai napoletani.

- Qui è raro che vengano paesani!- e ci abbraccia di nuovo come se fossimo fratelli ritrovati.

La sera non facciamo code, ci fa passare dal retro. Ci ha imbandito la tavola centrale e ci serve un pranzo memorabile: altro che cinque stelle! Barolo d'annata e Brunello da Montalcino, salami d'Abruzzo fatti in casa, paste di forma inconsueta condite in modi diversi, secondi di carne e di pesce così abbondanti e numerosi che dobbiamo respingere un'enorme cernia cotta al forno per mancanza assoluta di capienza. Torte, gelati, liquori... sono preoccupato per il conto.

Sul foglietto ripiegato che mi porta il cameriere c'è scritto sessanta.

- Sai, per i garzoni...- si scusa il nostro anfitrione. La Sgnuffi lo bacia su entrambe le guance in uno slancio di entusiasmo per le sue eccelse capacità culinarie. Un tale godimento arrossa i suoi pomelli unti dai vapori della cucina che mi sento in credito.

Sciltian interviene sempre più spesso nei nostri balbettii inglesi con crescente sicurezza. La scuola gli fa un gran bene ed è nell'età limite per acchiappare i colori delle parole, come dice il direttore della Panvista di Roma. Tuttavia una mattina tornando a casa col pullman della scuola invece con la Chevrolet paterna, mi corre incontro e mi abbraccia forte. L'accompagnatrice mi spiega desolata che "the boy" le ha detto di abitare a Chestnut Street invece che a Chester Street, o almeno che lei ha capito Chestnut e, arrivati davanti al numero 45 gli ha ordinato di scendere. Sciltian protestava che non era quella la sua casa e lei insisteva affinché scendesse finché "the boy" le ha urlato di no con le lacrime agli occhi. Soltanto allora ha chiesto lo spelling del nome della strada e capito l'errore.

- Pensa se mi mollava in quel posto sconosciuto!- commenta con un brivido di residua paura.

 

CAPITOLO VII

BOSTON

Oggi è il 4 luglio, festa dell'indipendenza americana dalla perfida Albione.

Guidati da Motorino prendiamo il treno per andare a Boston, dopo qualche miglio si interra e diventa metrò. Scendiamo nel centro della città di Kennedy, a Copley Square. Ha voluto far lei i biglietti per tutti ma ora mi indica uno sportello e mi consiglia di comprarne un blocchetto da dieci perché costano la metà. Mi affaccio al gigante nero che vende i biglietti e gli sorrido più del mio consueto:

- Ten- dico e voglio dire dieci. Il negrone si ingrugna, da dietro Motorino si affretta a correggermi:

- Ten, ten tickets. He's coming from Italy!- e mi sembra che dica "scusa questo buzzurro che arriva dalla montagna con l'anello al naso".

L'indovina chi viene a cena scoppia in una risata cordiale tutta denti e mi dà un blocchetto di biglietti. Anche Motorino ride alla mia risentita richiesta di spiegazioni:

- Ten not tan. Do you know what's the meaning of tan?-

Mi sembra di afferrare una lieve differenza nelle "e" dei due ten in quella bocca che parla tenendo le labbra ferme.

- Ten: one, two. three...- mi intestardisco.

- This is ten, but you didn't say ten, you said tan that means...- ma quella che dovrebbe essere una spiegazione mi suona incomprensibile. Sciltian sfoglia il nostro dizionarietto tascabile e svela il mistero: pare che io abbia detto "tan" che vuol dire "abbronzato". Rivedo mentalmente l'ingrugnarsi di quell'ercole nero e mi rendo conto che il saper male l'inglese può diventare pericoloso.

Usciamo nel sole in una grande piazza dove una piccola chiesa romanica rubata alla Francia medievale si riflette in una folle parete di specchio, vicinissima, che le fa da quinta levandosi per cento metri e portandole come sfondo grandi nuvole bianche su un cielo reso verde dal piombo dei vetri del grattacielo.

La differenza dei due stili è così violenta che commuove. L'altissima grande parete di vetro sembra celare tecnologie aliene di civiltà superiori e la piccola chiesa par raccontare la fede nell'immenso di piccoli uomini che cercano di capire, senza vergogna per la limitatezza del loro cervello, confortati dalla speranza che ne illumina i cuori.

Motorino ci fa da cicerone nella sua lingua e le mie orecchie iniziano a mandare qualcosa di interpretabile al cervello: è proprio vero che ci si abitua a tutto.

Attraversiamo a passo spedito il Public Garden, ricco di fontane e con un laghetto su cui navigano romantiche barche ornate da cigni bianchi. Chiomati alberi ombreggiano un tripudio di verde e di fiori affollato di scoiattoli giocosi e di gente che va verso il Charles River, il fiume che separa Boston da Cambridge, e che oggi é il centro della cerimonia. La nostra mente è organizzata per stereotipi e mi aspetto un Tevere ingrandito di tre o quattro volte, secondo la scala americana. Invece è proprio un'altra cosa: lungo le rive si stendono per alcuni chilometri aree di verde attrezzato larghe trecento metri, dove centinaia di migliaia di persone si sono già sistemate per il picnic e gigantesche bistecche, hot dog e hamburger sfrigolano su migliaia di barbecue uguali, infissi a terra dal Comune. Grandi tavoli con panche di legno massiccio sono affollati da allegre famiglie che si son portate tovaglie di carta colorate, piatti e bicchieri di plastica, valigie termiche per le bevande e radio di tutte le misure. L'aria odora di arrosto, il vociare sottopuntato da musiche diverse, si compone in un frastuono da fiera paesana. Chi non ha trovato posto sulle tavole ha steso le tovaglie sull'erba verdissima del prato.

Due cose appaiono violentemente nuove al mio occhio romano: il numero dei bambini neri che giocano felici come gli scoiattoli sull'erba e l'assoluta assenza di sporcizia da quei prati che pure devono essere presi d'assalto dalla folla dei merendieri con notevole frequenza.

Motorino apre una grande tovaglia a quadroni rossi che nasconde dieci metri quadri di prato e apparecchia per tutti invitandoci a sedere a terra.

Il sole è al tramonto e l'aria tiepida di grigliato, quando tutte le radio tacciono e il vociare si spegne.

Le note dell'inno americano riempiono la sera. Mi alzo per vedere chi e dove stia suonando: sull'altro lato del fiume, sotto una grande conchiglia di cemento, un'orchestra sinfonica si sta dando da fare.

La gente è immobile, percorsa da un'esitazione, una cicciona mi guarda, mi sorride, approva e si alza. Dietro a lei si alza un intero gruppo, poi una famiglia di neri alla mia sinistra.

Come una ola da stadio il movimento si comunica al milione di persone sulla riva. Una voce canta e altre si uniscono sommesse al coro. Accanto a me, una grossa signora color cioccolato svizzero, si porta la mano sul cuore. Molti altri lo fanno e l'aria della sera vibra di commozione.

Questa gente canta il proprio paese con un'ingenuità che noi abbiamo perduto da tempo perché ci hanno costretto a capire, nel sangue e nel dolore, che chi stimola sentimenti di patria nasconde spesso il cinismo più turpe.

Motorino piange: una lacrima le rotola sulla guancia mentre gira lo sguardo sui suoi variopinti compatrioti rigidi sull'attenti e l'orchestra termina in crescendo. Esplode un lungo applauso.

Torniamo tutti ai nostri piatti e Motorino mi sorride imbarazzata. Parla più lentamente che può perché adesso vuole proprio essere capita, muove perfino le labbra. Mi dice che é la prima volta dopo la guerra del Vietnam che la gente di Boston è tornata ad alzarsi in piedi al suono dell'inno nazionale. Si soffia il naso: dopo quasi vent'anni, l'America é di nuovo America.

Ci sentiamo commossi anche noi versando un etto di ketchup sui nostri hamburger e io accarezzo nel mio cuore l'illusione che alzandomi per primo abbia dato una mano alla Storia.

A Boston si respira dovunque aria di Londra meno che nel North End dove andiamo per informarci sugli autobus per NewYork. Sono io che tiro il gruppo perché l'incognita di fine mese già mi disturba il sonno al quarto giorno americano.

Camminiamo lungo una gran via per soli pedoni con fioriere, panchine e bancarelle che danno un aria di bazar.

Tutta la strada è verandata: un salotto lungo mezzo chilometro, con piccole botteghe e grandi bar dai tavoli vivacemente colorati

C'è odore di spaghetti al sugo. La musica riempie la strada e una voce tenorile d'altri tempi fa tremare le volte trasparenti:

- Giovinezza, giovinezza, primavera di belleeeeezza...-

La mia infanzia mi viene addosso tutta insieme: camminavo piccolo per le strade di Biella, la mia mano in quella immensa di mio padre, l'ultima volta che da un bar uscirono queste note. E mentre il tenore assicura che per Benito Mussolini eja eja alalà, vedo la mia classe di prima elementare, tutti figli della Lupa con la M sul petto, cantare con convinzione per Benito e Mussolini eja eja alalà. Noi puri ne avevamo per due.

Un cortocircuito temporale come questo dà la dimensione della vita: la mia grande mano di scimmia nuda va a stringere quella del mio cucciolo a cui non posso dire che è subito sera e anche la canzone fascista diventa significante.

Le insegne dichiarano cognomi italiani e molte bancarelle ostentano il tricolore, c'è anche un carrettino siciliano pieno di arance e un odore antico di caffè e di pizza al forno di legna: non è solo la canzone, qui c'è un pezzo d'Italia che da noi è scomparsa, un'Italia com'è ricordata dai nipoti degli immigranti d'inizio secolo.

Dietro ai grandi palazzi si apre un dedalo di strade strette, affollate, imbandierate di bucati stesi, con gente dalle facce nostrane seduta accanto alle porte delle botteghe che parla in uno strano anglosiculnapoletano sottolineando ogni parola con ampi gesti delle mani. Qualcuno reclamizza gli "scungilli", una "Tratoria" annuncia "linguini - home made pasta-" e un "Ristorante" vanta un "veal cutlet limone alla napoletana".

Bill mi racconta che il North End era chiamato Little Italy e che è la zona più gaia e colorita della città, purtroppo con l'immancabile presenza di famiglie mafiose.

Per sollevarmi il morale umiliato dall'inesorabile equivalenza che gli stranieri fanno "italiani uguale mafia", mi racconta che il sindaco di Boston, a chi si lamentava perché la zona di Quincy Market era piena di scippatori e di mafiosi, rispose: 

- If you're worried about handbag snatchers, you can live in the Berkshires and you'll never know what you're missing!-

Io non so dove e cosa sia il Berkshires ma deve essere un posto assai noioso perché i bostoniani si sganasciano dalle risate.

Alla stazione dei pullman c'è gran folla. Faccio la fila ad uno degli sportelli e arrivo in pochi minuti davanti ad un impiegato nero a cui chiedo smozzicando inglese l'orario degli autobus per NewYork. Mi risponde qualcosa che contiene la parola "scheduled" che mi mette in grande confusione. Sorrido, ringrazio e rifaccio la fila ad un altro sportello. Qui è un portoricano a rispondere alla mia domanda ma anche lui pronuncia la parola "scheduled". Al terzo sportello c'è una dolcissima indiana e, dopo una regolarissima fila, le chiedo che vuol dire scheduled. Mi sorride facendo brillare il diamantino incastonato sulla narice destra e mi porge il foglietto dell'orario su cui c'è scritto "scheduled". Ora so che tutti i giorni ad intervalli di due ore parte un autobus per NewYork arrivando nella megalopoli cinque ore dopo: la prima fermata è a Riverside, vicinissima a Newton Highlands. Adesso il mio problema è più complesso, devo chiedere se posso salire a Riverside evitando di trasportare le tonnellate dei bagagli della Sgnuffi fino a Boston. Dopo aver fatto altre file e aver tentato con un pakistano, un cinese e un vietnamita, chiedo all'impiegato che si occupa dei bagagli: è questo un irlandese lentigginoso che mi risponde affermativamente: posso salire a Riverside, of course. Sempre di corsa ma non con le valigie della mia concubina... Ho posto male la domanda: io voglio sapere se salendo a Riverside avrò i posti a sedere, posso prenotarli fin da ora?

L'irlandese scuote il suo top carrot e un ciuffo kennediano gli ciondola sulla fronte: non esiste prenotazione. Glielo faccio ripete due volte: non posso rischiare un viaggio di cinque ore in piedi.

Adesso me lo fa ripetere lui due volte e poi guarda me e la mia famigliola da capo a piedi come se temesse di vederci scalzi e col fango secco sugli alluci. Si arma di pazienza cattolica e mi spiega che gli autobus non possono portare passeggeri in piedi ma solo seduti. C’è una folla ordinata in file davanti alle dozzine di biglietterie: se non posso prenotare e il pullman parte pieno da Boston, come fanno a sapere che a Riverside ci sono tre italiani con grosse valigie? Rischierò allora di non poter salire a bordo?

L'irlandese alza gli occhi al soffitto, so che prega o bestemmia gli stessi santi miei, e mi dice seccamente che quando un autobus è pieno ne arriva un altro.

Poiché il colore delle sue lentiggini si sta incupendo preferisco ringraziare e andarmene, ma dentro il dubbio mi rode: chi ne manda un altro? Da dove? E in quanto tempo?

Abbiamo fame ed entriamo in un Mc Donalds. Studiamo il menu luminoso che sovrasta le casse. Decidiamo il nostro pranzo: tre Big Mac, tre cheeseburger, tre filet-o-fish, tre milkshake alla strawberry e due black coffee. Mando a mente il tutto in inglese esercitandomi in silenzio per non far brutta figura. Tocca a me quando la Sgnuffi si avvicina e mi dice che quasi quasi invece del Big Mac prenderebbe dei bocconcini di pollo e invece del milkshake preferirebbe un croissant...

Mi si annebbia il cervello, mi ribello ed escludo il quasi quasi della Sgnuffi ordinando seccamente: tree Big Mac, tree cheeseburger, tree di tutto. Solo che "tree" vuol dire albero perché tre si dice "three" con quella maledetta lingua tra i denti. La negretta mi guarda con occhioni interrogativi l'indice alzato pronto a calare sui tasti plastificati della cassa. Alzo alte tre dita come Cristo: pollice, indice e medio. Tre.

La negretta batte felice, pago nove dollari ma quando arriva il vassoio ci sono solo due Big Mac, due cheeseburger, due di tutto. Ormai mi sono rilassato e non ho più la forza di sottopormi ad un secondo stress: dividiamo equamente in tre e basta lo stesso.

Basta soprattutto a inzupparci di maionese e ketchup fino ai polsi: doppi hamburger divisi da strati di lattuga, pomodori e cetrioli sguscianti serrati tra due cupole di pane forano un edificio alto dieci centimetri che supera le aperture mandibolari dell'homo sapiens. Li mordiamo di lato con effetti di fuga spaventosi: un missile verde schizza dal Big Mac di Sciltian finendo sul tavolo accanto dove un vispo portoricano sta divorando il proprio palazzo di carne, verdura e salse senza toglierlo dalla scatola di polistirolo che fa da contenitore.

Lo guardiamo affascinati per imparare la tecnica. Tentiamo un'imitazione ma ci troviamo a masticare pezzetti di espanso alla maionese. Dobbiamo vergognosamente appoggiare il Big Mac sul tavolo e usare la scatola come se fosse un piatto, spilluzzicando con le dita. La Sgnuffi, che il complesso delle mani appiccicaticce, soffre la fame.

Un pomeriggio Bill ci porta ad Haward che va assolutamente pronunciato "Hawod" altrimenti ti lasciano fuori dai cancelli. Respiro aria di casa: è qui che è stato ambientato Love Story, i grandi viali, i palazzi in mattoni rossi, i fortunati studenti. Da un momento all'altro sbucherà fuori la Cavalleri. C'è anche qualcos'altro in quest'aria: un distillato di intelligenza che ti cola nei pensieri e ti fa diventare ansioso di capire.

Bill ci presenta il preside della facoltà di archeologia che ci invita a visitare il suo regno. Nella hall troneggiano due idoli mesopotamici e la Sgnuffi sorride al canuto studioso ancheggiando come sa fare lei:

- Mesopotamia, isn't it?- il buon uomo la guarda a bocca aperta e il suo pensiero è chiarissimo: possibile che quel pezzo di donna sia un'archeologa?

Affascinato dalla Sgnuffi ci mostra i primi risultati di un suo lavoro: ingrandisce fino a sei metri per tre delle fotografie del secolo scorso scattate nelle più antiche città del mondo per evidenziare dettagli altrimenti invisibili. E' molto orgoglioso di aver scoperto in antichi casamenti di Gerusalemme, un sistema di aerazione degli appartamenti simile al moderno condizionamento dell'aria di cui non c'è traccia alcuna nei libri dell'epoca.

Se il nostro venire dall'Italia provoca sempre un'inesorabile battuta sulla mafia, il fatto che veniamo da Roma suscita invece ondate di ammirazione. Il nostro preside ci racconta che la prima volta che si presentò ai Musei Vaticani per la sua ricerca, l'archivista gli portò una pila impressionante di volumi.

- Ho solo tre giorni- disse il preside- come faccio a studiarli tutti?-

L'archivista lo guardò con la superiorità che può avere un colto vaticanense verso uno zotico del Massachusetts e rispose:

- Questi sono solo gli indici, signore.-

Il preside ride felice al ricordo e ci fa da cicerone nel museo archeologico della facoltà, deliziato dalla nostra istintiva capacità di distinguere un oggetto egiziano da uno greco-romano. Capacità che miseramente perdiamo passando nelle sale cinesi, giapponesi e tailandesi. Potenza delle radici!

Il mitico MIT (Massachusetts Institute of Technology) lo vediamo solo da fuori. Sciltian e la Sgnuffi sono più interessati alle vetrine dei negozi, eppure dietro quelle mura si decide una parte del futuro dell'umanità. Respiro profondamente: questa è aria da dozzine di Nobel.

Dopo ore di shopping per le strade antiche di Boston, mi siedo sfinito sullo scalino di un negozio nell'attesa che la Sgnuffi compri tutte le T-shirt che ha promesso a parenti e amici. Sciltian inganna il tempo scegliendo cartoline. Appoggio il mento nel cavo di una mano e il gomito su un ginocchio. Il mio sguardo si fissa nel vuoto in un esercizio di pazienza coniugale.

Un signore anziano mi sorride. Ricambio per cortesia.

- You're right staring that house...-

Trasalisco e innesto automaticamente la parte anglofona del mio cervello. Guardo la casa che mi indica il mio gentile interlocutore: una costruzione in legno, brutta e grigia, appoggiata contro un muraglione di mattoni rossi. Alzo uno sguardo interrogativo sull'americano che gongola spiegandomi che si tratta della casa di Paul Revère, la più antica costruzione in legno di Boston vecchia di tre secoli.

- Sa, - gli rispondo nel mio inglese- Io vengo da Roma e abito in una casa vecchia di duemila anni.-

- Rome, Italy?- mi chiede. Annuisco. Ha un'esclamazione soffocata e se ne va a grandi passi.

Io abito in un palazzo che ha trent'anni, ma mi è venuto di dire così.

Paul Revère è per Boston quel che Garibaldi è per noi: un eroe a cavallo della guerra d'indipendenza.

Visto che il bostoniano mi ha portato in clima storico conduco la famiglia a vedere la ricostruzione del bellissimo brigantino Beaver e la casetta rossa del famoso (per loro) Boston Tea Party, dove nel dicembre del 1773 dei patrioti travestiti da indiani (li han sempre messi in mezzo quei poveracci!) insorsero contro le esose tasse inglesi buttando un carico di tè nel porto e dando inizio alla guerra d'indipendenza. C'è un gran pubblico in riverente ammirazione, seduto sulle panche di legno massiccio costruite lungo i moli, che sgranocchia patatine e sorseggia coca cola guardando tre secoli indietro nel tempo che per loro sono i primordi della civiltà.

Per noi è solo una bella scenografia, le grandi navi a vela soprattutto, e Sciltian riserva le sue esclamazioni di ammirazione per gli squali che nuotano nell'immenso cilindro di vetro del vicino acquario.

 

CAPITOLO VIII

IL PRIMO GOODBYE

Tutte le mattine alle otto accompagno mio figlio a scuola come milioni di padri americani e lo lascio sotto il colonnato della Newton South High School in jeans,

T-shirt e scarpe da ginnastica. Tutte le mattine vado con la moglie in un supermercatone Straboccante di ogni ben di uomo e giro in mezzo ai cumuli di adescanti prelibatezze inneggianti alla stravittoria del capitalismo sul comunismo e butto nel carrello cascate di corn flakes, chips, cookies, bacon, steak, coca cola, root beer e cibi cucinati secondo le ricette dei più strani paesi della terra.

Tutti i giorni all'una vado a prendere mio figlio e lui salta sulla mia Chevrolet buttando il guantone da baseball sul sedile e salutandomi con un allegro:

-Hit Dad!-

Tutti i pomeriggi prendo il metrò e vado a Boston e l’inglese che esce dalle labbra immobili dei wasp non mi mette più angoscia, seguo il senso dei discorsi.

Tutte le sere siamo invitati a cena in qualche villetta Old New England, centro di interesse di gruppi sempre piti numerosi.

La settimana scorsa un amico di Bill ci ha invitato nel Maine per la caccia al cervo, tre giorni fa un poeta di flamenco song a passare il Natale "lassù nel Vermont", oggi pranziamo a casa dei Taranto che han richiamato i parenti dagli Stati limitrofi per festeggiare l’arrivo "degli italiani".

Il vecchio capofamiglia ha un vago ricordo di sole e di mare avendo lasciato le isole Eolie col padre quando aveva cinque anni. Tenta di parlare italiano e trova solo parole del suo dialetto. Chiede alla Sgnuffi se le piace "la racina" e la bionda sgrana gli occhi. Un calcetto sotto banco la avverte che sta per fare una gaffe. Il vecchio si curva sconsolato:

- I forgot italian!- ma io lo raddrizzo con un gioioso:

- E' una smàfara? A 'Gna le piace scuncicari. Fodda va per la racina bianca, idda di Stromboli in particulari!-

Mister Taranto mi guarda felice e io ringrazio Carlo Ponti che mi fece scrivere una sceneggiatura per Sofia dal libro "La Mafiosa", in fondo al quale c’è un dizionarietto siculo-mafioso.

I nostri "tenants" ci invitano nella loro città d'origine che chiamano "Elena" con le due "e" molto larghe. Non possiamo andarci perchè il primo agosto dobbiamo essere ad Atlanta a casa degli Edwards. Solo dopo un'oretta di conversazione scopro che la mia "Atlanta" e la loro "Elena" sono la stessa città: pronuncia del profondo sud.

Banji ci adora e noi adoriamo lui. Quando andiamo a Boston ci segue coi latrati dal giardino fino a che non prendiamo il metrò.

Paula ci ha promesso una gita a Cape Cod (Capo Merluzzo) ma non può accompagnarci perché il marito, andato all'ospedale per un check-up di routine, è stato trattenuto. Ci presenta una sua compagna di college anni Sessanta che è felice di sostituirla.

Partiamo di buon mattino lungo strade tranquille e verdeggianti. Dopo dieci minuti corriamo in una natura vergine: oltre il nastro vellutato dell'asfalto ci sono grandi boschi. Casette, paesini, cascinali, tanto comuni da noi, coi filari degli alberi a segnare la mano millenaria dell'uomo, qui non esistono. A camminare in questi boschi potrebbe capitare di posare il piede su una zolla che mai ha conosciuto impronta umana, come Neil Armstrong sulla luna. Ho la sensazione acuta di un profumo mai aspirato, e sono nella "vecchia" culla degli Stati Uniti, che sarà lo sconfinato Ovest?

Giriamo intorno a Plymouth, prima città importante fondata dai Padri Pellegrini e ci inoltriamo sulla penisola di Cape Cod, punteggiata da stagni e laghetti.

Pranziamo in un ristorantino, accanto alla villa dei Kennedy, sgranocchiamo aragoste, succhiamo ostriche, respirando l'Atlantico. Le lunghe spiagge sono deserte, nessuno fa il bagno. Due sub escono dal mare con pesanti mute da dieci mm., vado a mettere un piede in acqua: toccata e fuga, è pura acqua groenlandese.

Passeggiamo lungo la spiaggia senza limiti incuranti dei cartelli "Warning! Birds!". Ammonisco Sciltian di non avvicinarsi ai cespugli sulle dune dove nidifica una qualche specie protetta.

E invece la specie da proteggere siamo noi! Gli uccelli madre, bestiole grandi come colombi ma con becchi lunghi e acuminati come fioretti, ci assalgono a ondate lanciando orribili stridi da combattimento. Sembra una sequenza di un film di Hitchcook.

Corriamo verso l’auto mentre un pennuto mi colpisc con un proiettile biologicoi al centro della pelata.

Se Bartolomeo Gosnold fosse sceso a terra nel 11602 qundo, bordeggiando, battezzò la penisola di Capo Merluzzo perché il mare ne era pieno, forse oggi qusto posto si chiamerebbe Cape Shit.

L’amica di paula ci porta sulla punta del Capo, a Provincetown e ci indica il punto preciso dove i padri pellegrini costruirono le prime baracche accolti on simpatia dagli indiani che qui pescavano il merluzzo da millenni. Non dovette sembrare un pericolo ai forti guerrieri quel manipolo di gente puzzolente, dimagrita per la traversata, arrivata con quella barcona a vela.

Vatti a fidare della prima impressione: quelle baracche erano l’inizio degli Stati uniti e duecento anni dopo erano gli indiani a essere pochi e macilenti.

Il giorno seguente Paula ci accompagna ad un pubblico concerto col consueto cestone del picnic e ci sdraiamo sulle grandi aiuole spartitraffico al centro di una piazza. Fa l’allegra ma si capisce che si sforza. Non le chiedo niente, questi bostoniani per la riservatezza dei sentimenti profondi mi ricordano i miei parenti alpini. La Sgnuffi non può capire, lei viene dalla terra delle préfiche.

E' già tempo di rimettere le armadiate di roba della mia dolce bionda dentro le sue grandi valigie e scoprire che non ci bastano più: sul letto c'è una pila di gonne, magliette, lenzuola a fiori con gli sham e un gigantesco unicorno bianco che Sciltian ha trovato accanto ai bidoni della spazzatura a cento metri dalla nostra casa.

Non provo neppure a discutere con la Sgnuffi sull'assurdità di voler portare quell'enorme peluche fino a NewYork, poi sul pullman per Atlanta e infine sull'aereo per Roma, lei trova perfettamente logico l'assurdo. Paula tenta sul terreno dell'irrazionalità e le dice che l'unicorno porta male, tanto più se l'ha buttato qualcuno per levarsi il malocchio.

- Non siamo a Salem.- è la secca risposta della Sgnuffi.

Domani trascineremo l'unicorno, le nostre grosse valigie e i nostri magoni alla stazione degli autobus di Riverside. Il mese é passato. Spirito Santo ci porta nel parco di una villa dove hanno montato una pedana per uno spettacolo di addio. C'è un'artista venuto da NewYork che dice battute. Devono essere irresistibili perché la gente ride da spaccarsi la gola. Noi abbiamo fatto l'orecchio all'inglese di Boston e questa ci sembra un'altra lingua. My God, sarà così ogni volta che ci sposteremo?

Non si può restare seri mentre tutti ridono, non è gentile verso il comico: Sciltian ed io ridiamo con gli altri una volta su due ma la Sgnuffi resta immobile e corrucciata, fissa sul niuiorchiese, accusatrice. Magneticamente attratto dalla sua fissità, la brillantezza dell'intrattenitore si spegne.

Spirito Santo sussurra qualcosa da orto dei Getsemani alla robusta Beth del New Hampshire che ci ha invitato per una caccia all'orso in settembre dalle parti sue. Beth si acciglia e scuote la testa sconsolata, come se avessero appena liberato Barabba.

Ho un'intuizione e chiedo:

- Paula's husband?-

Spirito Santo valuta la mia degnità con un'occhiata. Supero il suo esame perché mi sussurra che il marito di Paula ha un cancro incurabile e i medici gli han dato tre mesi di vita.

E’ il momento dell’addio. Una trentina di persone viene a salutarci e ci augura buona fortuna. I coniugi Taranto piangono. Banji uggiola e ci alta in braccio per non farci partire. Addio Banji!

Paula porta noie le nostre valigie a Riverside. Arriva l’autobus, i posti per noi ci sono e non saprò mai che sarebbe successo se fosse arrivato pieno. L’unicorno divide il sedile con la Sgnuffi.

Paula ci abbraccia forte. Promette di scriverci. Promettiamo anche noi. Vedo la disperazione in fondo ai suoi occhi per l’avvicinarsi di un addio ben più doloroso di questo. Sento che vorrebbe urlare e invece sorride e agita la mano mentre l'autobus ci porta via.

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