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                                                     La mia America

 

CAPITOLO XXII 

HAWAI'I A GOGO'

 

Siamo tornati a essere soli la Sgnuffi e io come in luna di miele.

Il Prucino è ormai un giovanotto e va in vacanza per suo conto. Amarilli e Rik si sono dedicati alle profondità del mar Rosso. E allora dev’essere Hawai’i! Non la Rimini di Ohau, ma una delle altre deliziose isole per passionali amanti.

A gennaio trovo un ex-pilota militare che abita a Denver e che mi propone uno scambio con una sua villetta a Kaua’i per luglio. Perfetto! Ma qualche mese dopo mi scrive affranto che la villetta non c’è più: se l’è portata via il vento! La brezzolina del Pacifico ha distrutto un centinaio di case sull’isola, ma l’ex-pilota mi propone una sostituzione: un appartamentino a Maui in un residence sul mare. Okay, purché non tiri non troppo vento!

A fine giugno io e la Sgnuffi soli come sposi, mano nella mano, atterriamo a Denver, Colorado. E’ lì che abita la nostra anziana coppia di scambisti. Ci hanno invitati a far tappa da loro re tre giorni: giusto per conoscerci e mostrarci le bellezze del luogo che per l’ex-pilota comprendono anche una grande base aerea militare, di quelle che si vedono nei film e dove tutti salutano battendo i tacchi anche quando ti portano un hamburger.

Veramente il lussuoso ristorante riservato agli alti ufficiali è un self service con immensi tavoli rotondi affollati dalle vedove. Non che i valorosi ufficiali siano tutti caduto in guerra, semplicemente le donne vivono più a lungo e comincia a vedersi bene.

Anche questo vecchio pilota mi racconta di quando bombardò l’Italia durante la seconda guerra mondiale per liberarci dalla dittatura. Buttare le bombe sui popoli per liberarli è diventato da allora una dipendenza tossica americana.

Non glielo dico al vecchio pilota ancor acosì orgogliosi della sua divisa e delle sue medaglie.

Dottie, la moglie, è dolcissima e molto "friendly". Ci rimpinza di leccornie e frutta fresca e insieme andiamo sulle Montagne Rocciose: c’è un’autostrada che sale fino a cinquemila metri e di colpo siamo in mezzo alla neve e a una terra rossa come quella dei campi da tennis. C’è un posto magico lassù, un posto che gli indiani, pardòn i nativi americani, chiamavano "Giardino di Dio", dove immensi massi dalle strane forme si ergono come dolmen naturali su quello sfondo rosso sangue del terreno che trasmette un messaggio di eternità e di mistero. Un cervo dalle corna ramificate ci guarda dall’alto di uno sperone proteso sul nulla: dev’essere quello del film "Il Cacciatore", ha lo stesso sguardo fiso e penetrante. L’aria è immobile, anche il tempo sembra fermo.

"Restate umana al quia…" mi sovviene il vecchio Dante, ma qui siamo in una quarta cantica: né inferno, né purgatorio, né paradiso. Qui siamo "altrove". E’ una sensazione aliena.

Per arrivare a Maui bisogna passare per Honolulu poiché lì c’è l’unico aeroporto internazionale dell’arcipelago. Si scende dal jumbone e si sale su un "pajarito": una ventina di posti in tutto. Gli isolani pagano 10 dollari andata e ritorno (per loro è il tram che va in centro) e i turisti 150. L’uomo dei ticket lo chiede a me se sono residente a Maui ma non ho la faccia tosta di dirgli di sì e pago 300 dollari per due.

"Maui no ka oi" dicono nelle agenzie turistiche, "Maui è il meglio". Dipende dai gusti. L’isola è splendida però è un po’ la Capri delle Hawai’i: rovinata dal troppo lusso importato.

Il nostro residence sorge dove un tempo c’era un mulino per lo zucchero di canna e si chiama infatti Sugar Mill e ostenta un’antica gigantesca ruota all’ingresso del vasto parcheggio.

Spiagge, mare, sole sono hawaiiani, ancora intatti, e le coste a nordest sono stupende e quasi vergini tutte rocce, foresta pluviale fantastica, cascate e laghetti di una bellezza assoluta, ma molto sull’isola è stato turistizzato e si è perso gran parte del fascino esotico che giustifica un salto di 180 meridiani.

Forse bisogna vivere a Hana, un paesino sulla punta a est raggiungibile con una stradina asfaltata dove passa solo un’auto alla volta, percorribile a passo d’uomo, tutta contorsioni su torrenti e torrentelli, dirupi, onde mugghianti e immensi alberi fioriti dalle foglie larghe come amache, per gustare l’atmosfera antica dell’isola.

Hana è così piccola che io e la Sgnuffi al primo viaggio (cinque ore di tornanti e tornantini!) l’abbiamo mancata. Dopo averla superata senza vederla, abbiamo chiesto al guardiano di un aeroporto grande come un campo da calcio, quanto mancava ancora per arrivarci.

- Probably you blinked while you have passed through…- (probabilmente avete sbattuto le palpebre mentre ci siete passati in mezzo)

La Sgnuffi e io siamo di nuovo in luna di miele e Maui ci incanta.

I primi giorni li dedichiamo all’esplorazione dell’isola, così la mia bionda metà dà tempo alla sua pelle di assumere quel delizioso color cioccolata che la rende ancora più sexy.

Tre sono le meraviglie di Maui oltre ad Hana e le sue "pools": il cratere di Haleakala, la Iao Valley e la antica città di Lahaina. Antica in senso americano, vecchia di un paio di secoli.

Lahaina pare significhi "sole crudele" e io e la Sgnuffi ci siamo trovati a camminare sulla sua Front Street alle 2 del pomeriggio e abbiamo battezzato la camminata che separa il entro della città al parco "la traversata del deserto": all’inizio la Sgnuffi era bianca, alla fine era già bruciata.

E’ una città tutta di legno che conserva la struttura del centro baleniero che fu con un museo che mostra come venivano cacciati e squartati i giganti buoni dell’oceano. Pare fosse uno dei luoghi preferiti dai Kamehameha, ultimi re delle Hawai’i.

L’isola di Maui ha un po’ la forma di una tartaruga e la Iao Valley è nella testa dell’animale: è una vasta area di foresta pluviale lussureggiante dominata da un picco di roccia.

La Sgnuffi e io, dopo una notte di passione, ci arriviamo tenendoci per mano, ancora un po’ frastornati dal jet lag, e ci incamminarci sotto le foglie immense e stillanti acqua. Anche stavolta l’esplorazione dura nove passi: il fango sdrucciolevole e la ripidità del pendio ci fermano. Però anche dopo soli nove passi intorno a noi il mondo è verde, fresco, pieno di vita come un utero vegetale.

Haleakala è la Luna, è Marte. Una caldera spenta larga quattro chilometri, la bocca immensa di un vulcano grande come una vallata punteggiata da alti coni di pomice bianca, di sabbia rosa, di cenere grigia, di sabbia rossa. Un’aria fredda e sottile, oh qui siamo sui tremilatrecento metri eh!, aumenta la sensazione di essere su un altro pianeta. L’unica pianta che fiorisce è la "silver sword" e ha foglie che sembrano di argenteo metallo fabbricate da qualche civiltà aliena con un’estetica assai diversa dalla nostra.

Io e la Sgnuffi, dopo un’altra notte di passione, ci arriviamo un po’ stanchi in macchina, su, fin sulla piazzola che si affaccia sulla voragine. La visione di tanta magnificenza aliena cancella in noi ogni stanchezza e corriamo giù nella caldera, tra i fiabeschi coni di polvere colorata. Scendendo l'aria diventa calda, molto calda, e quelle polveri colorate si sollevano e ci colorano. Mi lascia cadere su una finissime pomice bianca che sembra neve se non fosse che è secca secca e più sottile. Mi ricorda il fumetto di farina che si stendeva su ogni cosa e persona nel mulino di un mio zio a Graglia, sulle alpi biellesi nel medio evo della mia infanzia.

Ogni luogo ha la sua leggenda. Qui si racconta che il sole correva veloce nel cielo e i giorni erano troppo corti e le ore di lue non erano sufficienti agli hawaiiani per raccogliere il rizoma e le foglie del taro, base della loro alimentazione, né a lavarsi e fare asciugare il tapo, base del loro abbigliamento.

Allora Maui, il semidio, salì al cratere dell’Haleakala con un laccio e riuscì ad accalappiare il sole e alo costrinse a un patto con lui: meno velocità in cambio della libertà. Così da allora si ebbero 12 ore di luce e 12 di buio.

Il buffo è che in tempi geologici antiche il moto della Terra era davvero più veloce e i giorni più corti, ma non c’erano umani per notarlo. Del resto anche la genesi delle Hawai’i è correttamente riportata dalla leggenda dei suoi primi abitanti, arrivati appena 1500 anni fa da Tahiti e dintorni a bordo di piroghe a bilanciere.

La scienza spiega che le isole sono il prodotto di vulcani sottomarini e poiché la zolla tettonica su si trovano le Hawai’i si sposta nei millenni verso est mentre l’eruzione proveniente dal mantello terrestre resta ferma ecco che si è formata questa mirabile collana di perle in mezzo al Pacifico: le più belle e più isolate isole del mondo.

E la leggenda degli hawaiiani si sposa bene con le scoperte della scienza: per loro la dea Pele, dea del fuoco, cambia casa passando da un vulcano all’altro spostandosi però sempre da est a ovest, in modo da restare sempre a perpendicolo sul pennello di lava che erompe dalle profondità magmatiche del mantello terrestre., di cui ovviamente nulla quei primi abitanti potevano sapere.

E neppure potevano sapere che nell’antichità i vulcani attivi erano quelli ora spenti che sono sulla lontana Kaua’i, per poi passare a quelli di Ohau, di Moloka’i, di Maui e infine a quelli di Big Island. L’avranno arguito vednedo la fila di vulcani spenti di cui l’ultimo invece in eruzione. Infatti dal fondo dell’oceano sta crescendo una nuova isola davanti a Hawai’i, ma è ancora 500 metri sotto il livello del mare quindi è improbabile che io e voi riusciremo a sdraiarci sulle sue coste.

La prima settimana passa così, da una meraviglia all’altra con qualche tuffo in un mare color acqua marina.

L’ottavo giorno, dopo una notte di passione, guardo fuori: la spiaggia gialla assolata che disegna una larga ansa costeggiata dalla strada per Lahaina, il mare placido che nella baia smuore senza cattiveria accarezzando i granchietti che abitano la battigia e mi prende un senso di vuoto allo stomaco mentre nel cervello nasce una domanda non voluta:

- Ma che cazzo ci sto a fare qui? E che cazzo farò per altre tre settimane adesso che l’isola l’ho vista quasi tutta?-

Ancora non lo so ma sto vivendo l’inizio della seconda fase di ambientamento. La prima è quella della scoperta, delle gite, della meraviglia, del godimento davanti ai grandi spettacoli della natura. Questa è la seconda: qui manca lo stress, mancano i fini, gli scopi.

Andiamo a fare colazione, la Sgnuffi e io, in un silenzio tormentato: le pancake sono sempre squisite, il caffè americano ottimo e senza fine ma allora che cos’è quel vuoto che resta nello stomaco e quella domanda che torna impertinente a tormentarmi?

- Ma che cazzo faccio adesso? –

Si va al mare. Si deve andare al mare. Magari cerchiamo una spiaggia nuova. Così per variare.

Questa fase di disagio dura quasi per tutta la seconda settimana.

La mattina della terza, dopo una notte di passione, mi sveglio riposato e rilassato. Mi stiracchio e guardo fuori: che pace! Quel mare eterno che lecca quella spiaggia con dolezza senza fine. L’ha fatto da milioni di anni, lo farà per altri milioni di anni, e io lì, a guardarlo per un attimo talmente breve da essere incommensurabile sulla scala dell’esistenza geologica. Eppure è un attimo lungo, bello, appagante.

La Sgnuffi e io si va fare colazione mano nella mano. Il sole ci scalda senza più bruciarci, la pelle si è assuefatta e non solo la pelle. Ci sorridiamo sereni: non è felicità, è qualcosa di più completo. E’ assonanza col creato. LA Sgnuffi si stiracchia come una gatta e le pancake sono davvero buone e nutrienti. Mi casca l’occhio su una cartolina. C’è scritto:

"Another shitty day in paradise" e mostra delle palme allungate su una spiaggia d’oro con un mare smeraldino.

"Un altro giorno di merda in paradiso" : perfetto! Ho capito! Stupendo!

La terza settimana è la più goduriosa: tutte le mattine ci svegliamo dopo una notte di passione e ci stiracchiamo complici e felici. Guardiamo fuori: il sole, la spiaggia, il mare e scandiamo all’unisono "another shitty day in paradise!" e andiamo allegri a sbafarci le pancakes e poi a stenderci su una qualche spiaggetta all’ombra delle palme.

Al termine della terza settimana inizia la quarta fase: la vacanza volge al termine, il mese è volato via. Una domanda sorge di nuovo a rompere la serenità mentale:

- Riuscirei a vivere qui per sempre? –

Vivere per vivere. Vivere senza avere niente da fare ma facendo le cose che ti va di fare giorno per giorno. Bisognerebbe provare, non si può rispondere senza provare.

Ma prima di essere sicuri di questa risposta la Sgnuffi e io siamo già sul piccolo aereo che ci riporta a Honolulu dove ci aspetta la balena volante che con uno straziante viaggio di quasi 20 ore ci riporterà a casa.

Ci ho pensato per tutto l’inverno e l’estate dopo io e la Sgnuffi decidiamo di riprovare.

Stavolta sarà Big Island, ossia l’isola Hawai’i che dà il nome all’arcipelago.

Niente scambio casa: ho scoperto che per due persone soltanto costa meno affittare uno studio. Luglio e agosto per le Hawai’i sono bassa stagione e i fitti non sono cari. Per meno di mille dollari affitto un appartamentino in un residence.

Bruttino da fuori: quando lo vediamo io e la Sgnuffi restiamo un po’ male. Sembra un grosso canile formato da una trentina di grosse cucce.. Invece dentro è carino e bene arredato con tutto quello che serve.

Big Island è davvero big: quasi come mezza Sicilia, 10.458 kmq! Per fare il giro completo del suo perimetro basta a mala pena un intero giorno in auto. Anche qui c’è un lato dell’isola che è impraticabile dove spesso la lava del vulcano Mauna Loa si versa nel mare.

Sono 18 anni che il Mauna Loa erutta in continuazione con la sola eccezione di questo luglio. E dire che ho scelto Big Island proprio per vedere l’eruzione.

La salita al vulcano è comunque uno spettacolo: la strada asfaltata porta fino al cratere e man mano che si sale la vegetazione cambia. A mille metri di altezza sembra di essere nelle valli biellesi: querce, castagni, pini. A duemila siamo a Oropa e sono rimasti solo i pini mentre i rododendri fioriscono tra le rocce affioranti. A tremila siamo al lago del Mucrone: più niente alberi, solo qualche arbusto e stelle alpine. A quattromila siamo sulla vetta del monte Mars: muschi e licheni e qualche spruzzata di neve. A quattromila cinquencento metri c’è la lava. La sento ribollire sotto la crosta fumante. Fino a pochi giorni fa c’era una fontana di lava alta cinquanta metri che illuminava la notte! Al centro sismologico posso controllare le registrazioni grafiche. Da un momento all’altro l’eruzione potrebbe riprendere. Potrebbe, ma non lo sa.

Anche sul Mauna Kea la strada porta fino al cratere, però il vulcano è spento e c’è il grande osservatorio astronomico internazionale. Il Mauna Kea è poco più alto del suo fratello bollente ma sulla cima c’è la neve. Mi dicono che questo è uno dei pochi posti al mondo che in inverno si può sciare e poi tuffarsi nelle acque calde del Tropico.

Però l’ultimo tratto di strada che porta all’Osservatorio non è asfaltato ed è consigliato l’uso di un’auto a quattro ruote motrici. La Sgnuffi e io ci siamo arrivati imbacuccati come se fossimo a Cortina ma con una normale auto a noleggio e guardiamo invidiosi il gruppo dei turisti equipaggiati che viene sottoposto dalle guardie locali ad uno strano esercizio per far loro ricordare i nomi di tutti quelli che saliranno all’Osservatorio. Non ho capito il perché, ma mette tensione. Lascio partire la carovana e poi attacco la salita ghiaiosa, stretta e con uno strapiombo folle sulla destra, innestando una rabbiosa ridotta sul mio cambio automatico. L’auto sale bene ma la Sgnuffi no. Ha paura e devo tornare indietro: grandi telescopi, addio!

Il centro della parte nord dell’isola è occupata dall’immenso ranch di mister Parker.

Il primo Parker è morto da tempo. Fu lui a portare mucche e tori sull’isola e sposò anche una figlia del re Kameahameha I, nativo di Big Island, il napoleone delle Hawai’i che, più o meno contemporaneo del napoleone nostrano, unificò tutto l’arcipelago sotto il suo potere.

Non c’erano cowboy e pare che i primi che Parker importò insieme alle mucche fossero spagnoli, per cui qui il mandriano si chiama "paniolo".

Scoviamo una spiaggetta personale. Si arriva ad Anaheo’omalu Bay e si parcheggia, poi si cammina lungo la costa per una ventina di minuti e si sbuca in paradiso. Una caletta con un istmo sabbioso che dà l’illusione che gli oceani siano due, incoronata da folte palme stracariche di noci di cocco. Ci sono due grossi scogli in mezzo alla baietta, ideale per una caccia subacquea poco sub e appena acquea.

Dopo una notte di passione e le pancake del mattino col litrone di caffè, verso l’una PM è mio compito far cadere un cocco, aprirlo, berlo insieme alla mia compagna, spezzarlo e mangiarne una metà. Vale come un piattone di spaghetti alla matriciana e non si ha più fame fino a sera.

Di solito il parcheggio di Anaheo’omalu Bay è popolato di una cinquantina di auto, pick-up isolani e vetture a noleggio affittate dai turisti. Però oggi, alle 5 PM, quando la Sgnuffi e io torniamo dalla nostra giornata di paradiso, io un po’ stanco per una lunga pescata all’inseguimento di un grosso pesce che si era infrattato in un labirinto di piccole grotte e che, una volta preso, si era rivelato un immangiabile pesce palla che mi fissava con occhi tondi e interrogativi e a cui avevo restituito un’incerta libertà., il parcheggio è completamente vuoto: c’è uan sola auto, la mia. E le sbarre d’uscita sono abbassate. Prigioniero nel parcheggio, nel nulla della sabbia e della lava della grande pianura.

Vedo la garitta di un guardiano e vado da quella parte. La guardia mi vede e mi viene incontro:

- Did you meet anyone? – mi chiede sarcastico. Porca puttana, uno squalo! Ecco perché non c’è nessuno! Hanno fatto andare via tutti! Sì, mi conferma il guardiano, hanno dato l’avviso tante volte con gli altoparlanti. C’è uno squalo tigre sotto costa, una bestiola di lunga tre metri, un po’ nervosa perché ha azzannato il fondo di una barca.

E io che stavo beatamente infilzando pesci !

- No, sir. Of course I didn’t meet anyone!- rispondo sorridendo con noncuranza, forte del mio fucile a elastici e col mio borsone gonfio che potrebbe contenere chissà quale pescato.

Mi allontano camminando alla John Waine, cercando di tenere la pancia dentro il costume da bagno. Mi sembra di sentirmi seguito da uno sguardo di ammirazione.

E così la prima fase, quella dell’esplorazione, si è portata via la prima settimana. Ormai conosco il meccanismo e quando mi ritrovo a pensare "ma che cazzo ci faccio qui adesso?" non mi dà più tanta ansia: so che passa.

Bastano infatti quattro giorni per arrivare lisci lisci alla fase stiracchiante con sbadiglio da felino soddisfatto della "another shitty day in paradise", così ho più tempo per rispondere alla domanda cruciale "riuscirei a vivere qui per sempre?"

"So you want to live in Hawai’i" è il titolo del libro che scovo in libreria. E’ quello che fa per me e me lo leggo sbracato al sole sdraiato sugli sdrai del Ritz-Carlton sulla Kohala Coast così la Sgnuffi si sente più al sicuro dal morso degli squali. Non c’è bisogno di essere clienti del lussuoso hotel per usare le sue "facilities". Qui le spiagge sono tutte libere e ognuno va dove gli pare senza essere importunato.

Allora, vediamo un po’ se sono pronto a diventare un kama’aina, ossia un residente stabile in paradiso oppure restare un haole, praticamente un pirla che non si sa adattare all’eden.

Tra i requisiti del test ce n’è uno che la Sgnuffi non supererà mai. Dice " siete un kama’aina quando uno scarafaggio volante lungo due pollici atterra sulla tua camicia e tu non fai una piega".

In paradiso non c’è niente di velenoso, niente che ti sbrana. Puoi camminare per giorni nella foresta pluviale hawaiiana e il massimo che ti può capitare è la puntura di una vespa, però gli scarafaggi ci sono, magnifici, bruni, lucidissimi e puliti.

Peccato! Il paradiso senza le notti con la Sgnuffi sarebbe paradiso? Gli altri requisiti sono ala portata nostra, come il dar via tutti i vestiti invernali, non togliersi mai il costume da bagno di dosso (in verità gli abitanti fanno il contrario, usano i normali bragoncini anche in mare), levarsi sempre le scarpe prima di entrare nelle case, mettere nella lista della spesa le micidiali salse orientali, non uscire mai dall’oceano dandogli la schiena e sorridere senza motivo, solo perché uno è vivo.

Mi resta il dubbio: finora, in tante settimane, di scarafaggi volanti che atterrino sulla Sgnuffi non ne ho visti.

E’ già tempo di tornare nella vecchia Europa e faccio le valige ancora roso dal dubbio: potrei diventare un kama’aina?

Per tutto l’inverno incontro amici che mi chiedono la stessa cosa: ma tu vivresti alle Hawai’i per sempre? L’amico valerii di cultura cinematografica per mestiere aggiunge: ricordi Odissea Nuda?

Come no! Enrico Maria Salerno, amico dei tempi andati e protagonista di quel film, mi raccontava di aver trascorso trenta notti in un amaca tesa tra due palme, le cui corde erano state isolate con degli imbuti sperando di fermare il cammini di ragni e insetti, rannicchiato nella rete, ossessionato da qualcosa che vicino, troppo vicino, faceva un suono come "zzzzzz-tèèk!".

- Le Hawai’i sono USA – rispondo scuotendo il capo – E’ questo il bello. L’esotico, il paradiso tropica, ma non lontano dalla civiltà. Se ti prende un coccolone in pochi minuti un elicottero ti porta in un modernissimo ed efficiente ospedale di Honolulu. Probabile che ci arrivi prima che non dai Parioli al Policlinico di Roma.-

Gli amici sospirano dubbiosi: le Hawai’i per tutti sono le immagini inventate da Hollywood con stupende donne in sarong che colgono banane mature da compiacenti banani, bevono latte di cocco sullo sfondo di piccole onde dalle schiuma gentile mentre Elvis Presley canta "Blue Hawai’i".

E invece non è così. Elvis Presley di solito non canta. A essere pignoli anche le banane devo essere colte verdi altrimenti se le mangiano le formiche prima delle morbide donnine dei film hawaiiani e le donnine, se le vuoi, è meglio che te le porti appresso. A molti ne basta una.

Guardo le mappe dell’arcipelago per rivivere quei giorni di merda in paradiso, come dicono i locali. I nomi die posti sono talmente lungi e sillabici he li confondo tutti" Anaeho’omalu bay, Anauma bay, Ka’alu’alu bay, Kalapana beach, Waikaumalo park, Laupahoehoe beach, Pu’ukohola heiau, Kalahuipua’a beach, Honokohau bay, Kealakekua bay, Ho’opuloa Miloli’i, Humuhumu point…." e poi quasi tutte le isole hanno una "Waimea", una "Maunaloa", una "Ki’ei", "Kihue" "Lihue"… insomma si fa prima a lasciar perdere e a inventarsi nomi più semplici..

Un’isola attira la mia attenzione: Moloka’i. C’è stato un lebbrosario qui fino al 1946 e il turismo se ne tiene ancora lontano. La capitale ha un nome che non si dimentica: Kaunakakai. Abitanti: seimila amici, dice la guida.

L’estate prossima ci vado. C’è un cottage in affitto per mille dollari proprio davanti a un campo da golf accanto alla spiaggia più lunga delle Hawai’i: Papohaku, sette chilometri e mezzo di sabbia rosa. L’"owner" mi dice che non si usano chiavi là, ogni porta ad una tastierina e basta formare il numeretto giusto di tre cifre e si entra.

Tre cifre? Anche un bambino troverà quello giusto in pochi minuti! L’"owner" ne conviene ma non sembra turbato: così se me lo dimentico riuscirò a entrare lo stesso!

La vita è quella cosa che succede mentre tu stai facendo altri piani, ha detto un saggio.

Infatti, nonostante la caparra di 500 dollari già pagati ci si deve rinunciare: il Prucino s’è beccato una brutta infezione e non si può partire. Sarà per l’estate prossima.

Macchè. Nonostante la conferma del gentile "owner" del cottage che dichiara buona la vecchia caparra versata anche quest’estate non si può partire per guai famigliari.

Sarà per le estate prossima. Insomma una di queste estati ci vado.

E’ la volta buona. Il prucino quest’anno fa degli stage ri giornalismo. Si è laureato, il bambino, in Scienze Politiche, ha preso un Master in relazioni Internazionali e si è iscritto a Bologna per una seconda laurea in Storia e frequenta a Urbino la scuola di giornalismo.

Sta benone e quindi contato di nuovo il gentile "owner": si ricorda perfettamente di me, i 500 dollari versati valgono ancora e così saldo e faccio le valige.

La Sgnuffi e io voliamo fino a Los Angeles dove ci aspetta un’amica che vive a Mission Viejo 80 km più a sud. Ci fermiamo da lei tre giorni per spezzare il viaggio e godere dell’ospitalità affettuosa di Marcia e Mike. Marcia mi ha dato una mano con l’inglese nelle traduzioni dei miei copioni che sono diventati "script" e io finalmente uno "screenwriter".

E’ comodo spezzare il lungo volo intorno al mondo e così arriviamo a Moloka’i freschi come rose. E stavolta, quando facciamo scorrere le grandi vetrate del nostro cottage e usciamo sul "lanai", il paradiso ci si presenta in tutta la sua perfezione: una larga striscia di prato verdissimo, morbido come una moquette, chiusa da un cerchio di bassi cottage confina con un ondulato campo da golf dove il green è però diventato brown e sfuma nella sabbia rossa delle calette ricamate intorno a nere rocce laviche lucide come la testa di certa gente. Palme altissime e snelle frusciano come grandi ventagli alla perenne brezza fresca che soffia nord-ovest, imponenti alberi di eritrina dai fiori color sangue fresco esplodono come un fuoco d’artificio mentre i maggiociondoli arcobaleno formano immense cascate di fiori sulle spade fiorite degli ibiscus.

Poco oltre si apre la spiaggia di Papohaku: ci andiamo, storditi, affascinati, la Sgnuffi e io, mano nella mano. Attraversiamo boschetti di palme da cocco circondate da centinaia di noci di cocco a terra, come gigantesche corone di elmi di cavalieri che hanno abbandonato le armi entrando in paradiso. A "mauna", ossia verso terra, un erta rossa con grossi ciottoli caotici ricorda talmente la foto scattata su Marte da insospettire che l’abbiamo fatta qui, e poi il beach! La spiaggia immensa che si distende in un ampio arco pigro, rosa carico in contrasto col blu del Pacifico. Sono le tre del pomeriggio di un giorno di luglio e non c’è nessuno! Non solo: l’immenso arenile accarezzato dal vento non presenta traccia di impronta di piede umano!

Io Adamo e lei Eva avanziamo su questa spiaggia vergine, in un mondo vergine e bellissimo, privo di serpenti e di padreterni incazzosi. Guardo le orme che lasciamo: sembrano davvero i primi passi dell’Uomo!

Le onde muoiono dolci sull’arenile, tiepide, carezzevoli, invitanti. C’è una scogliera che chiude la spiaggia su un lato, nerissima e travagliata, certo piena di grotte, anfratti, cunicoli pieni i pesci. Ho lasciato il fucile ad elastici nel cottage, per oggi solo estasi estatica.

A Moloka’i i classici periodi: esplorazione, "che cazzo ci faccio qui", rilassamento nei beati "shitty days" e poi la domanda tarlo: riuscirei a vivere qui? non vengono scanditi.

Il posto è troppo perfetto. Gli abitanti di questo eden hanno appositamente mandato in malora il golf e lo Sheraton Hotel perché non guastassero la perfezione naturale. L’amministrazione di contea con sede a Maui ha chiesto 25 milioni di dollari ai "golfer" per bagnare il campo e ha impedito la costruzione di altri cottage. Così il campo da golf ha diciotto buche ma sul brown anziché sul green e ci giochiamo assolutamente gratis.

La Sgnuffi e io viviamo in un paradiso di privilegiati dove non è il denaro a fare il privilegio: anzi, il denaro viene punito! Quindi è proprio il paradiso.

Kaunakakai è un villaggio western di Sergio Leone. Peccato che ci sia qualche automobile perché qualche cavallo attaccato alla barra davanti al saloon si vede ancora.

Le costruzioni sono tutte di legno, basse e senza pretese con delle loggette per riparare dal sole. Un paio di supermercati ben nascosti e due ristorantini pizzeria.

Per mangiare del buon pesce senza spendere molto meglio arrivare a Kualapu’u, alla Casa Internazionale dello Slow Food, vicino al grande smercio di caffè della Malulani Estate che è la prima coltivazione dell’isola e il migliore caffè del mondo. Ne potete bere di ogni tipo, anche al gusto di cioccolata, assolutamente gratis, seduti sulla veranda dello smercio, poi potete comprarne un kilo o dieci kili o niente. Potete sorseggiare cento caffè e basta. Qui il denaro non è tutto.

Quando la Sgnuffi e io sentiamo il bisogno di un pranzetto elegante allora andiamo a Maunaloa. C’è un lussuoso albergo in questo villaggetto con un ristorante di classe.

C’è perfino una multisala con tre schermi! L’ufficio postale invece è uno sportelletto aperto direttamente sulla strada, vicino al bazar delle cineserie.

Qui nessuno chiude le auto anche se piene di pacchi e pacchetti. Nemmeno le barche chiudono: c’é uno yacht a vela ormeggiato giù a Hale o Lono Habour, dove parte la regata della Aloa Week affidato solo alle cime e all’onestà di tutti.

Tutti vanno piano. Camminano piano. Mangiano piano. Lavorano piano.

- Take it easy! It’s a island! – ti dicono se ti affretti. Certo, dove vai? E’ un’isola. Anche la vita, se ci pensate, è un’isola: ad un certo punto finisce e affrettarsi non ha senso.

Sento che sto diventando un kama’aina…..

Il lebbrosario era sistemato sulla penisola di Kalaupapa, una lingua di terra triangolare larga e lunga qualche chilometro, separata dal resto dell’isola da una parete a strapiombo alta seicento metri. Portavano i malati verso la penisola con le navi, ammassati a prua e, arrivati a cento metri dalla costa li spingevano in mare con delle pertiche. I più fortunati annegavano subito e gli altri arrivavano sulle coste sabbiose di Kalaupapa e venivano sottoposte a ogni tipo di angheria da parte dei violenti e dei più forti che comandavano sul branco di disgraziati buttati lì a morire.

Poi un giorno del 1873 arrivò un prete belga, cattolico, di 33 anni, chiamato Father Damien. Il prete avrebbe dovuto restare coi lebbrosi due settimane ma fu talmente colpito dalla disperazione di quei disgraziati che ci rimase tutta la vita riuscendo a creare una parvenza di società civile anche in mezzo a quella gente dannata a non vedere più i propri i cari e a morire.

Father Damien morì di lebbra anche lui 16 anni dopo ma intanto aveva costruito dozzine di case, alcune chiese, degli ospedali e 2000 bare. Questo sì che è un santo! La Chiesa di Roma ha aperto un lungo lentissimo processo di canonizzazione: aspettano che qualche allucinato dica di essere stato guarito da lui, aspettano i miracoli, come se quello che ha fatto in vita non fosse sufficiente.

Quasi sopra il dirupo che strapiomba su Kalaupapa c’è un gigantesco fallo di pietra creato dalla natura. E’ il mitico Phallic Stone presso cui le donne hawaiiane che non riuscivano ad avere figli andavano a passare la notte…. anche i giovani dei villaggi lo sapevano ovviamente e spesso il miracolo si compiva. Tanto la paternità naturale è l’ultima delle preoccupazioni degli hawaiiani di oggi che, pur avendo solo qualche gene antico nelle vene, hanno assorbito e trasmesso i meme culturali dei primi abitanti.

Tra il nostro cottage la capitale c’è una quarantina di chilometri di una bella strada perfettamente asfaltata percorsa da un paio di dozzine di pick-up e qualche automobile alla rigorosa lentezza di 88 km/h come massimo. Strada ampia, strada deserta in un panorama di terre rosse che solo a metà dell’isola iniziano ad essere coltivate: perché noi viviamo nella parte dry di Moloka’i, dove non piove mai. Ci si può fare una canzoncina.

Gli abitanti originari invece vivevano nelle profondi valli "wet" scavate dai torrenti che cadono in mare dove se pianti un seme il giorno dopo c’è già una foresta.

A volte compro filettoni di mahi-mahi (a Roma si chiama lampuga e non se la fila nessuno) e poi io e la Sgnuffi ce li facciamo al barbecue sotto la luna piena che ci inonda di luce magica, nel frusciare dei flabelli delle palme, avvolti dai profumi dei fiori, della terra vergine, dell’oceano. Di notte stiamo con lo stesso costume da bagno che abbiamo di giorno, l’aria è tiepida e vien voglia di togliersi anche quello.

Per quanto mi aggiri in questo paradiso non riesco a trovare l’albero del bene e del male.

Questo è un vero eden, senza scherzi da prete.

Guastano tutto il computer e la TV. Il computer mi permette di leggere i giornali italiani e la TV commenta un massacro fatto dai poliziotti italiani a Genova dicendo he abbiamo al governo una gang di postfascisti di xenofobi comandata da un signore dal passato losco e da un conflitto di interessi comico.

Adesso rimanere qui sembra una fuga. Che sta succedendo in Italia? Dobbiamo tornare.

 

CAPITOLO XXIII

GLI AMERICANI A ROMA

Tempi brutti per l’Italia. Tutti i giornali del mondo ci deridono e ci insultano.

Sempre più spesso amici americani e amici degli amici degli amici americani vengono a Roma e fanno tappa a casa mia. Hanno scoperto che ho una stanza per gli ospiti e loro si sentono ospiti. Sono contento, così posso spiare le loro reazioni a contatto col nostro way of life. Però molti mi pongono una domanda spinosa: noi Italiani siamo un popolo di coglioni o di furfanti?

Tergiverso. E' che loro non capiscono le nostre anomalie. 

Fortuna che hanno tutti un problema di bidè, this stupid thing, sconosciuto negli States. Non riescono a capirne la filosofia. Uno mi ha chiesto se é un orinatoio da restroom staccato dal muro e messo sul pavimento, un altro mi ha consigliato di lavarmi tutto il corpo invece che solo quelle parti lì...

Qualcuno finge di usarlo e lo inserisce nella conversazione:

- While I was using my bidè this morning...-

L'amica di un amico di un amico di Bruce di San Francisco (gli americani usano considerare amici gli amici degli amici e ogni tanto uno sconosciuto suona alla mia porta mostrando le sue "credenziali") mi ha detto che quella cosa la usano solo le puttane: a lei basta fare la doccia ogni mattina per sentirsi pulita. E' stato imbarazzante parlarle di merda, ma non ho trovato argomenti migliori.

Càpita anche che si ripetano vecchi aneddoti: un giornalista, amico degli scambiatori di Chicago, mi ha detto che siamo pieni di rovine: abbiamo avuto 2000 anni per sistemarle e invece son sempre lì.

Un architetto, amico degli scambiatori di NewYork, mi ha confessato di trovarsi a disagio in Europa, perché le nazioni han confini così ravvicinati che se si prende un gatto per la coda e lo si fa girare si rischia di espatriare due o tre volte. Ha un senso di claustrofobia continuo: strade strette, macchine piccole, letti corti, ascensori che sembrano armadietti per le scope, negozi in cui non ci si può muovere, affollamento dovunque anche nelle campagne dove non si riesce a trovare un panorama vuoto di case.

La figlia di un amico di Jerry che studia in Germania è venuta a Roma per una settimana: bella ragazza molto aperta in ogni senso, loda i maschi italiani sempre pronti e disponibili, ma é disgustata dagli europei in genere:

- Dovunque in Europa, ci sono due file davanti alle nostre ambasciate: una per protestare contro l'imperialismo e l'altra per ottenere la green card e venire a vivere nel nostro Paese.-

La bella californiana ha ragione, a Roma si fanno megacortei per la pace ogni volta che si può insultare l'America: "Saddam dacci un altro Vietnam" dicevano i cartelli durante la guerra del Golfo e spero che il mio ospite di turno non abbia capito.

Dopo aver visto la parete nera di Washington c'è da vergognarsi di appartenere alla stessa razza di quegli infami scrittori di slogan. Nessuno ha manifestato durante la guerra Iran-Irak, per il genocidio in Cambogia, lo sterminio degli Armeni o per le stragi jugoslave: che gusto c'è se non si possono insultare gli americani?

E c’erano ancora le torri gemelle in piedi!

Un amico di Baltimora mi ha fatto notare che a Roma tempo e spazio sono elastici: cinque minuti possono significare un quarto d'ora o un'intera mattinata. "Torno fra cinque minuti" vuol dire semplicemente "tornerò prima o poi", e quando chiede una misura di distanza, è sempre "five miles", sia che si tratti di cinque chilometri o di venti. Gli batto una mano sulle spalle: la cortesia sta già tutta nel rispondere in inglese a Roma e poi anche alle Hawai’i c’è il cosiddetto "hawaiian time", ossia "arrivo quando mi pare".

- Adesso, che vuol dire entro una mezz’ora, magari andiamo a vederci il Colosseo dal vivo -

Il baltimorese mi stacca un polmone con una manata sulla schiena scoppiando a ridere.

Il Colosseo è chiuso per lavori in corso e l'americano mi chiede di tradurgli "magari". Magari fosse facile! Tento mentre ci incamminiamo verso Piazza di Spagna:

- Magari vuol dire "volesse dio", magari è una cosa che si desidera ma che non si osa sperare. Qualche volta si usa per indicare il male minore oppure per non dire né sì ne no.-

- Come ni? -

- Magari in modo meno dichiarato... oh scusa, ho usato di nuovo magari che in questo caso ha più il significato di forse... -

- Italiano lingua difficile, troppo precisa.-

- Magari! L'italiano è ambiguo, è una lingua letteraria che nessuno usa realmente. Per comunicare usiamo i dialetti e gerghi.-

L'americano guarda la scalinata del De Sanctis gremita di gente. Un boro con l'orecchino piantato nel lobo carnoso e il chiodo sulle spalle si avvicina ad una bionda un po' punk gonfiandosi come un ranocchio e le chiede:

- T'arisulto?-

Quella gli dà un'occhiata indifferente e risponde:

- M'arimbarzi.-

In due parole dichiarazione d'amore e rifiuto che non lascia speranze: in lingua italiana sarebbe impossibile.

Ritirandosi nella stanza degli ospiti, l'amico di Baltimora (Balmore, dice lui) ci dà la buonanotte e ci assicura che si farà un bel bidè prima di andare a dormire. Cerca di essere gentile, son più che certo che si farà la doccia e quando arriverà a lavarsi lì penserà che siamo proprio strani con quella stupida inutile cosa piantata vicino alla tazza.

Sono contento che rimanga quest'incomprensione per il bidè: ormai le differenze tra il vecchio e il nuovo continente si son fatte piccole e presto saremo tragicamente tutti omologhi ma la fiaccola della civiltà nel suo secolare giro da oriente verso occidente è oggi arrivata sulle sponde del Pacifico.

Come mi disse quel professore di Berkeley, laggiù stanno cercando di erigere le loro Piramidi e i loro Partenoni, che saranno la conquista dello spazio, il miglioramento del cervello dell'Uomo, la sconfitta della vecchiaia e della morte... noi purtroppo alziamo le nostre matite, nere animelle di grafite chiuse in asticelle di legno per vergare segni su papiri di pasta di cellulosa, e diciamo con orgoglio da stronzi che esse sono e rimarranno i nostri unici computer.

Loro sono giovani, facili agli entusiasmi e all’inganno, ma ancora credono negli ideali e cacciano ministri sol perché non han pagato i contributi alla serva, noi siamo vecchi cinici e ci teniamo ministri sospetti di estorsione, furto e connivenza con la mafia. Noi sappiamo come va il mondo e quei poveri ingenui sulle coste del Pacifico credono ancora nell'onestà insista nell'uomo.

Noi pisciamo tutti i giorni contro un cippo dell'Impero sull'Appia Antica e portiamo i cani a cacare sui ruderi millenari di morta grandezza e quei poveri americani senza radici conservano religiosamente l'orinale del loro primo presidente.

Noi abbiamo letto le due o tre dozzine di libri che ci permettono di conversare nei salotti o nei talk show facendo "bella figura" e quei poveri figli di cow-boys non riescono neppure a capire che cosa sia un "bella figura" e poi, ma avete visto come si vestono?

Ai primissimi di settembre, un avvocato di Washington chiede ospitalità e mi capita a cena anche un amico intellettuale regista cinematografico di sinistra, ormai non più rosso ma rosa shocking. Il discorso si fa subito politico:

- Aveva vinto Gore! Bushetto è al potere perché c’è negli States un'invincibile cricca di reazionari al potere, tenuta su a suon di dollari da fascisti, razzisti ed ebrei!- 

Questa la tesi del mio amico rosso stinto. Taccio per carità di patria e lui si aggiusta la zazzera grigia.

Siamo alla frutta e si parla ancora di guerre: Golfo, Jugoslavia, Kosovo. Il regista sospira e fissa l'americano negli occhi, infilandosi in bocca acini d'uva:

- E' che voi non siete mai stati invasi. Non conoscete l'orrore della guerra. Per voi la guerra é come...-

L'avvocato lo precede sorridendo:

... come un film di John Wayne, right?-

Rosa shocking è un po' spiazzato ma annuisce.

- Con i buoni da una parte e i cattivi dall'altra, perché noi siamo semplici e stupidi, right?-

Prima che l'ex-rivoluzionario possa aggiungere sillaba, l'avvocato parte in quarta arrochendo la voce e simulando un pesante accento texano, stomaco in fuori e posizione western:

- E allora senti questa: noi siamo cattivi. Siamo i peggiori figli di puttana che mai abbiamo corso nelle Reeboks. Non siamo mai stati invasi? Voglio vedere chi ha il coraggio di provarci! Noi beviamo napalm per colazione, violentiamo e rapiniamo per tenerci in allenamento, siamo più alti, parliamo più forte, sputiamo più lontano, scopiamo più a lungo e abbiamo più cose di quelle che voi potete nominare. Facciamo morire di fame il terzo mondo e abbiamo fatto crollare i paradisi comunisti. Noi mangiamo piccoli Paesi come i vostri a colazione e li cachiamo prima di pranzo.-

Guardiamo l'avvocato a bocca aperta. Lui ride forte e dà una manata sulle esili spalle del mio amico regista:

- E così che ci vedete voi europei, isn't it?-

It is. It is.

Poi buttano giù le torri a New York e noi diventiamo tutti americani e andiamo in piaza a sventolare le "loro bandiere! mai visto, neppure in colonia...

Al ritorno da Moloka’i, la Sgnuffi e io ci siamo fermati a NY per qualche giorno. Volevo visitare il nuovo planetario al Museo di Scienze Naturali a Central Park: erano gli ultimi giorni di agosto. Non siamo andati giù a Battery Park a guardare le torri gemelle, non potevamo sapere che non le avremmo viste mai più.

Questa è una delle più grandi fregature del vivere: c’è sempre un momento in cui fai una cosa per l’ultima volta ma quasi mai si hai coscienza che è l’ultima.

Chissà se è stata l’ultima volta che io la Sgnuffi siamo stati alle Hawai’i….

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